Esilio forzato

Un incubo, un tarlo asfissiante che ti perseguita per tutta la vita, una macchia indelebile inestirpabile. Esistono tanti modi per definire le drammatiche conseguenze psicologiche derivanti dalla pedofilia e il film diretto da Pablo Larrain, Il Club, prova ad elaborare proprio tale concetto. Scopriamone i dettagli.
Sulle sponde della costa cilena vivono una suora e quattro preti. Quest’ultimi sono di fatto sconsacrati, in quanto autori di azioni deprecabili nei confronti di bambini, donne e uomini. Anche Sandokan, un infelice senza fissa dimora, è stato uno di quelli traditi dai preti di questa piccola comunità religiosa. Egli funge da accompagnatore agli spostamenti di padre Lazcano, prete pedofilo da poco arrivato in loco, nonché vero e proprio incubo dell’infanzia di Sandokan. Divorato dal senso di colpa per i peccati commessi in passato, padre Lazcano si suicida davanti alla sua vittima (Sandokan), avviando le indagini di padre Garcia, un gesuita psicologo deciso a gettar luce sulla morte appena avvenuta e ad interrompere nel minor tempo possibile il ritiro spirituale dei preti peccatori pentiti.
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Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Bolero Film a partire da giovedì 25 febbraio, Il Club è un film drammatico che descrive la spaccatura psicologica in seno alla costa cilena a La Boca. Si tratta di una frattura che scinde inesorabilmente vittime e carnefici, nella quale risiede la dimora del pentimento, uno dei numerosi luoghi che la Chiesa riserva ai preti e alle suore che si sono macchiati in passato di certi atti non proprio conformi con il loro credo. Una sorta di “prigione alternativa”.
All’interno de La Boca dell’inferno non manca nessuno all’appello: preti pedofili e ladri di bambini, nonché tutti coloro che hanno silenziosamente collaborato e fiancheggiato l’esercito e le gerarchie cattoliche durante la dittatura. Tutti irrompono sulle scene dirette da Pablo Larrain (di cui ricordiamo Fuga, Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno). Con questo suo ultimo prodotto, il regista cileno mette a confronto la storia del suo Paese con un gruppo di personaggi contraddistinti da un’aurea malvagia e narcisista.

 

Uno sguardo nel vuoto da parte di Sandokan, uno dei protagonisti del film
Uno sguardo nel vuoto da parte di Sandokan, uno dei protagonisti del film

In passato, i cinque preti in esilio a La Boca dell’inferno erano come un branco di lupi affamati, prodotti finali di un’esistenza fatta di avarizia e peccato. Ogni piccola ed innocente creatura si piegava al loro cospetto. Ma ora, la realtà che li circonda è ben diversa. Essi infatti si muovono grevi di fronte all’immensità dell’oceano circostante e dentro una fioca ed opaca luce che li avvolge ed inghiottisce inesorabilmente.
L’ombra delle tenebre che fagocita i cinque preti divorati dal rimorso interiore viene spezzata dall’arrivo di padre Garcia, che con la sua estetica e la sua giovinezza fa tornare a galla le crepe di un Paese incapace di trovare pace, serenità e riconciliazione.

 

Padre Garcia
Alcuni dei preti sconsacrati

Ben lungi dal voler rappresentare una verità storica assoluta ed incontrovertibile, Il Club, tuttavia, dà spazio ad un confronto piuttosto aspro, scomodo e spietato, prendendo come punto di partenza la certezza dell’impunità dei preti.
Padre Garcia sarà protagonista di un’autentica gincana tra omissioni, documenti mancanti e vuoti di memoria di vario tipo. Il suo intento è quello di smascherare le responsabilità etico-morali di una comunità religiosa che si dichiara pentita e pronta a voltare pagina.
In questa prospettiva giustizialista, Larrain (personificato da padre Garcia) cerca di andare oltre la semplice confessione dei peccati commessi da parte dei preti “criminosi”. La giusta punizione è dunque rappresentata da Sandokan, bambino abusato in passato e divenuto un adulto disturbato nel presente, un uomo in grado d’infliggere al suo aguzzino la stessa potenziale ferita subita durante l’infanzia. Sandokan può essere dunque definito come un fantasma del passato con cui fare i conti attualmente.
Infine, da un punto di vista tecnico, le inquadrature frontali e i primi piani che costringono i protagonisti a relazionarsi con la propria pena, costituiscono gli elementi più interessanti e i tratti distintivi de Il Club di Pablo Larrain, un regista che conferma il suo enorme potenziale.

Colpito!!

Nel gergo militaresco americano “good kill” significa “colpo andato a segno”, obiettivo raggiunto. Il titolo del nuovo film di Andrew Niccol è proprio Good Kill, ad indicare i colpi sparati da piloti speciali alla guida di velivoli invisibili che sorvolano e pattugliano i cieli del Medio Oriente, a 3 km di distanza dal suolo, per estirpare il cancro del terrorismo, dall’Afghanistan allo Yemen. Stiamo parlando di missili balistici ad altissima precisione pronti ad uccidere un uomo o un gruppo di persone, oppure distruggere un piccolo camioncino in transito lungo una strada o ancora un intero edificio. Ogni oggetto o soggetto sospettato di attentare alla sicurezza nazionale statunitense deve essere abbattuto.



È da specificare che questi piloti telecomandano i loro armamenti speciali comodamente seduti all’interno di un box dotato di aria condizionata nel bel mezzo di un deserto nei paraggi di Las Vegas. La loro incolumità fisica è perciò al sicuro, ma non si può dire altrettanto per la loro salute mentale. Essi infatti conducono una subdola e pericolosa guerra astratta e virtuale, ma i missili che fanno saltare in aria i corpi di uomini, donne e bambini sono assolutamente reali…



Il protagonista della storia è Tommy Egan, un pilota che ha dalla sua ben 6 missioni su campo, dette “tour”, sempre in riferimento al lessico militare a stelle e strisce. Con il suo fedele drone da telecomandare, egli è stato posizionato vicino all’abitazione della sua famiglia, inaugurando un nuovo e più preciso fronte di guerra. La volontà di Tommy è quella di tornare a volare e queste macabre ed agghiaccianti “partite alla playstation”, intese come nuovo strumento per contrastare il terrorismo, non gli piacciono affatto.



Ethan Hawke nelle vesti del protagonista Tommy Egan
Ethan Hawke nelle vesti del protagonista Tommy Egan



Nonostante la vicinanza alla dimora familiare, Tommy attraversa una profonda crisi morale ed esistenziale, acuitasi maggiormente dal momento in cui il suo team viene messo direttamente al servizio della CIA, da sempre nota per agire al di fuori delle regole convenzionali d’ingaggio. Il nuovo ordine è dunque quello di sparare anche dinanzi a donne e bambini, utilizzati (secondo i servizi segreti americani) come scudi. In fin dei conti sono solo danni collaterali, vittime sacrificali dei signori della guerra. Tutto è lecito, anche le azioni più deprecabili e disumane, purché si salvaguardi la sicurezza nazionale.



Tommy inizia così a mostrare i primi segni di cedimento: non regge più lo stress emotivo, beve ed assume atteggiamenti non propriamente adatti per telecomandare il suo drone con il suo “joystick”. Le conseguenze saranno perciò inevitabili, non solo dal punto di vista della carriera militare, ma anche (e soprattutto) di quella familiare. Il Tommy marito e il Tommy padre, infatti, sono ormai latitanti da troppo tempo…



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Barter Multimedia a partire da giovedì 25 febbraio, Good Kill è un thriller diretto da Andrew Niccol. Il regista neozelandese (di cui ricordiamo In Time e The Host) propone un dramma militare in cui la sceneggiatura risulta eccessivamente circostanziata, giungendo così ad un prodotto finale privo di energia e pathos.



Ethan Hawke a fianco della moglie Molly, interpretata da January Jones
Ethan Hawke a fianco della moglie Molly, interpretata da January Jones



Il tema del controllo assoluto tanto caro a The Truman Show (di cui Niccol realizzò la sceneggiatura), ad esempio, poteva rappresentare uno spunto decisamente interessante, mentre invece viene relegato a sfondo attraverso la visione militare dei droni, che dall’alto riescono a controllare ogni cosa che si muove. Una sorta di occhio divino, in grado di punire dal cielo con i suoi missili balistici i presunti peccatori o cattivi di turno, sacrificando, di contro, le povere vittime innocenti.



Rispetto ad alcune pellicole come The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, Good Kill risulta più teorico e proprio per questo anche più ambiguo. A tal proposito, emblematico il fatto che la crisi esistenziale di Tommy derivi dall’impossibilità di poter svolgere missioni vere, quelle a bordo di veri aerei da caccia, dove si uccide sempre, ma si rischia altresì di rimetterci la pelle.



Veniamo al cast scelto per l’occasione. Nei panni del top gun in crisi d’identità troviamo Ethan Hawke, celebre attore americano che già lavorò con Andrew Niccol in Lord of War nel 2005 a fianco del protagonista Nicolas Cage. Egli è noto al pubblico anche per film quali Sinister, La notte del giudizio e Predestination. Nel ruolo della moglie Molly, preoccupata per la salute psichica del marito e trascurata dalla sua assenza, ecco January Jones, famosa attrice e modella statunitense, di cui citiamo a titolo esemplificativo alcune opere come I Love Radio Rock, Unknown – Senza identità e Solo per vendetta.

In fondo al cuore

Spesso nella vita un incontro totalmente casuale può cambiare definitivamente le sorti della propria esistenza, condizionandola radicalmente, sia nel bene che nel male. Il film d’animazione Anomalisa è incentrato proprio su tale concetto. Un’opera estremamente interessante e dai molteplici spunti riflessivi, adatta anche ad un pubblico adulto, diretta da Charlie Kaufman, con la collaborazione di Duke Johnson. Scopriamone il contenuto.



La trama è molto semplice e lineare. Michael Stone è uno stimato padre di famiglia, nonché noto autore del best seller “Come posso aiutarti ad aiutarli?”. In occasione di una conferenza, soggiorna presso l’Hotel Fregoli di Cincinnati, dove, dopo aver rivisto una donna con cui undici prima aveva avuto una relazione, incontra per puro caso Lisa Hesselman, giunta in città in compagnia di un’amica per assistere alla conferenza. La scintilla tra i due non tarderà a scoccare…



Una scena tratta dal film
Una scena tratta dal film



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Universal Pictures a partire da giovedì 25 febbraio, Anomalisa è un cartone animato diretto dal regista statunitense Charlie Kaufman, noto per le sceneggiature di Confessioni di una mente pericolosa e Se mi lasci ti cancello. Dopo aver debuttato dietro la macchina da presa con Synecdoche, New York nel 2008, questa sua seconda e nuova fatica si caratterizza per un uso smodato della stop motion, nonché per la riproposizione sul grande schermo della parabola di due esistenze ingabbiate dalla solitudine e dall’ordinarietà che cercano di resettare la loro vita per poter costruirne una nuova cogliendo l’occasione offerta dal destino.



Sotto la parvenza animata delle maschere facciali dei pupazzi si cela un vago sentore di non umanità. Ma ciò che non passo certo inosservato è che tutti i personaggi, eccezion fatta per Michael, abbiano la medesima voce maschile, indipendentemente dal fatto che siano uomini o donne.



Quando successivamente entra in scena Lisa, ecco che finalmente è possibile ascoltare l’unica ugola femminile dell’opera. Tale scelta può essere dettata da due fattori: dalla disumanizzazione del mondo dei pupazzi oppure dalla messa in evidenza dell’unicità del possibile “autentico amore”.



Michael Stone e Lisa Hesselman
Michael Stone e Lisa Hesselman



Analizzando più profondamente il film, la scelta di Michael di alloggiare al Fregoli Hotel non è affatto casuale. La storia del teatro, infatti, narra di come Leopoldo Fregoli sia stato, non solo un grande imitatore, ma anche e soprattutto un abilissimo trasformista che ha calpestato i palcoscenici di tutto il mondo. Tuttavia, forse non tutti sanno che dal suo nome deriva una sindrome psichiatrica in cui il paziente in questione si sente letteralmente perseguitato da una singola persona che, a causa del suo delirio, assume le sembianze di tutti coloro che lo circondano non perdendolo mai di vista.



Se si volesse adottare questa chiave di lettura, Anomalisa potrebbe rappresentare una piccola perla cinematografica nell’ambito dei film d’animazione. A questo proposito, come non citare la scena della colazione mattutina in hotel, un’autentica gemma di scrittura, costituita da un armonico duetto fra tragedia ed ironia.



Michael Stone in volo...
Michael Stone in volo…



In fase di doppiaggio notiamo la presenza dell’attore britannico David Thewlis (di cui ricordiamo le sue opere più recenti, Regression, Legend e Macbeth) e dell’attrice americana Jennifer Jason Leigh (famosa per film quali Georgia, Miami Blues, America oggi e Mrs. Parker e il circolo vizioso) rispettivamente per le voci di Michael Stone e Lisa Hesselman.



Infine, ricordiamo che Anomalisa è stato presentato in concorso alla 72° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2015.

Il Supereroe tricolore

In ambito cinematografico, i supereroi sono da sempre un soggetto fortemente sfruttato ed utilizzato, soprattutto dall’industria americana. Nonostante ciò, per lo meno fino ad oggi, sui grandi schermi italiani non vi è stata traccia alcuna. Nessuno si è trasformato in un fantomatico paladino della giustizia, nessuno si è schierato dalla parte della gente e contro i soprusi dei più potenti, nessuno ha potuto usufruire di poteri straordinari e paranormali in grado di compiere qualunque azione.



Ebbene, il regista romano Gabriele Mainetti sceglie come oggetto per il suo debutto ufficiale proprio un supereroe, in un film capace di miscelare sapientemente azione, fantascienza e commedia. Un’operazione resa possibile anche grazie ad un cast di attori che non ha nulla da invidiare alle stelle hollywoodiane, tra cui spicca un Claudio Santamaria in grande spolvero. Nasce così Lo chiamavano Jeeg Robot.



Claudio Santamaria è Enzo Ceccotti, alias Jeeg Robot
Claudio Santamaria è Enzo Ceccotti, alias Jeeg Robot



Il protagonista della storia è Enzo Ceccotti, un uomo privo d’affetti e senza lavoro, che passa le sue giornate cercando di guadagnarsi da vivere attraverso piccoli furti con la speranza di non essere mai preso. Un giorno, proprio durante una fuga dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi, finendo per sbaglio in un barile pieno di materiale radioattivo. Enzo riemerge dall’acqua completamente ricoperto di una strana sostanza, barcollante e malconcio. La cosa sorprendente, tuttavia, è che il giorno seguente si risveglierà dotato di una forza e resistenza sovraumane. Subito si attiva per poter sfruttare le sue nuove ed incredibili capacità per le sue rapine.



Nel frattempo a Roma prende piede una faida per il comando della città tra alcuni clan provenienti da fuori, con tanto di attentati e bombe seminate per le strade. Un piccolo boss, detto lo Zingaro, cerca di farsi largo fra la concorrenza, minacciando la vicina di casa di Enzo, Alessia, la figlia di un suo amico scomparso poco tempo addietro.



L’unica ancora di salvezza per la ragazza è rappresentata proprio da Enzo, nel quale rivede il suo idolo fin da quando era bambina, Jeeg Robot, arrivando a pensare che esista davvero. La capitale è sull’orlo del baratro e la gente ha bisogno di un (super)eroe che possa far tornare la pace e la serenità…



Distribuito nelle nostre sale cinematografiche dalla Lucky Red, Lo chiamavano Jeeg Robot è il classico esempio di film incentrato sulla figura di un supereroe sulla falsa riga dei modelli americani. In esso troviamo un perfetto connubio tra azione ed ironia, senza contaminare la serietà tipica del filone d’appartenenza.  Fra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, la pellicola mette in risalto il riscatto morale di un uomo assolutamente normale e non privo di peccati, che riceve dei poteri sovraumani dopo un incidente, giungendo ad una sorta di redenzione purificatrice attraverso l’esame della propria coscienza e delle proprie colpe.



A vestire i panni del primo supereroe nostrano ci pensa l’attore romano Claudio Santamaria (noto al pubblico per opere quali Romanzo criminale, Baciami ancora e Diaz), un uomo dallo spirito selvaggio e avido, stracolmo di libido e cresciuto a pane e film porno, ma anche in possesso di una certa rettitudine morale che lo condurrà sui sentieri della giustizia.



L'eroe Enzo Ceccotti a difesa di Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli
L’eroe Enzo Ceccotti a difesa di Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli



Il quadro è egregiamente completato dallo sguardo iniettato di follia di Luca Marinelli (di cui citiamo a titolo esemplificativo alcuni suoi film, come La solitudine dei numeri primi, Il mondo fino in fondo e Non essere cattivo) nel ruolo del cattivo di turno, lo Zingaro, un egocentrico e schizofrenico pesce piccolo della malavita organizzata che sogna di diventare famoso e rispettato nel crimine, e da Ilenia Pastorelli nella parte di Alessia, sorprendentemente brava e perfettamente a suo agio.



Luca Marinelli è Zingaro, il nemico di Jeeg Robot
Luca Marinelli è Zingaro, il nemico di Jeeg Robot



Dietro la macchina da presa troviamo Gabriele Mainetti, già noto per alcuni cortometraggi quali Basette (una trasposizione sul grande schermo di Lupin III con protagonista Valerio Mastandrea) e Tiger Boy, quest’ultimo ispirato a L’uomo tigre. In Lo chiamavano Jeeg Robot ciò che emerge con prepotenza è come le storie che la nostra mente assorbe siano in grado di influenzare la nostra esistenza. A tal proposito, è emblematico come Enzo Ceccotti, pur sapendo di non essere Jeeg Robot, inizi ad aderire alla visione di Alessia (che crede fermamente nell’esistenza del suddetto supereroe finendo per identificarlo con lui stesso), cominciando a ragionare e a credere in quella maniera. Nell’animo di Enzo prendono forma nuovi ideali, valori e concetti: basti pensare alla graduale sostituzione dei dvd pornografici con quelli della serie animata di Jeeg Robot.



Il film diventa così un trionfo di cinema, scrittura, recitazione, scenografia, produzione ed inquadrature ad effetto, una pellicola realizzata senza copiare troppo dalle opere a stelle e strisce, ma estrapolandone gli elementi più utili ed originali. L’ennesima dimostrazione che la forma, se valida, può benissimo prevalere sul contenuto e sul tema trattato.

 

 

Politicamente scorretto

Da Batman a Superman, da Capitan America a Spiderman, da Thor ad Iron Man. Il cinema contemporaneo ha dato pieno sfoggio di una moltitudine di supereroi dotati dei poteri più disparati. Ma ciò che vi stiamo per raccontare esula dal contesto appena delineato. Tratto dall’omonimo fumetto della Marvel, Deadpool si differenzia dai suoi predecessori per alcune caratteristiche insite nel personaggio, nonché per lo stile di vita e la corrente di pensiero rappresentati dall’eroe in questione. Dopo dodici anni di tentativi andati in fumo, il noto attore canadese Ryan Reynolds corona il suo sogno: vestire i panni di Deadpool, in un film dai toni corrosivi e tutt’atro che sdolcinati. Vediamo di cosa si tratta.
Il protagonista della storia è Wade Wilson, un mercenario dall’animo egoista e dichiaratamente venale. Il suo carattere scorbutico ed arrivista tuttavia viene addolcito da una ragazza, Vanessa Carlyse, una prostituta di cui s’innamora perdutamente. Le cose sembrano procedere a meraviglia, fino a quando Wade scopre di avere un cancro all’ultimo stadio. Un misterioso individuo lo avvicina e gli propone una cura a dir poco insolita. Wade accetta, ma finisce per essere vittima di un terribile esperimento genetico…


Deadpool
Deadpool



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla 20th Century Fox a partire da giovedì 18 febbraio, Deadpool è un film d’azione dallo humor tagliente e dalle battute al vetriolo. La natura metatestuale appartenente al linguaggio del supereroe, di cui la sceneggiatura elaborata da Rhett Reese e Paul Wernick è intessuta, è assolutamente sfacciata e politicamente scorretta.
Le frecciatine che partono dalla bocca di Deadpool non risparmiano nessuno: la saga di Star Wars, l’attore Liam Neeson, Hugh Jackman (alias Wolverine) e persino gli stessi fumetti della Marvel. Anche uno dei film interpretati da Ryan Reynolds in persona viene preso di mira, Lanterna Verde, uno dei flop più evidenti nella carriera dell’attore canadese.
È altrettanto vero che Reynolds (di cui ricordiamo alcuni suoi film come Amityville Horror e Buried – Sepolto) se la cava piuttosto bene nella parte del supereroe cinico e buontempone. Provate a pensare alla sua interpretazione del personaggio Hannibal King nel film Blade: Trinity del 2004 e concorderete su quanto scritto.


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La comicità estremamente scurrile di Deadpool va di pari passo con quella di alcune commedie con protagonisti James Franco, Seth Rogen, Jonah Hill e via dicendo. Il nostro (anti)supereroe si farà largo tra espliciti riferimenti sessuali e ovviamente una valanga di cadaveri, uccisi barbaramente come se ci trovassimo dinanzi ad un film splatter.
Deadpool è un mix di elementi perfettamente riconoscibili ed individuabili: un abito simile a quello di Spiderman, un animo freddo e privo di pietà, poteri alla X – Man e battute da nerd incallito.
Tim Miller segna il suo debutto alla regia con una pellicola adatta ad un pubblico adulto ed infarcita d’individualismo, esibizionismo e di bizzarrie al limite dell’indecenza. Il tutto condito con una pessima fase di doppiaggio italiano.


Deadpool in azione con le sue pistole...
Deadpool in azione con le sue pistole…



Tutto ciò può comunque risultare originale, ma in realtà non è così. Deadpool infatti, nel corso dei 107 minuti di durata, lascerà ben presto il posto al classico film d’azione con protagonista un supereroe, ricalcando i medesimi stilemi narrativi e scenografici: risale alle origini del personaggio, per concludere la sua corsa con la consueta battaglia finale contro la sua nemesi creatrice, con l’ausilio di una troupe di altri supereroi accorsi sul luogo.
Da segnalare la discreta prova recitativa di Morena Baccarin, attrice brasiliana naturalizzata statunitense, nel ruolo della prostituta, nonché fidanzata di Wade Wilson, Vanessa Carlyse. Tra le opere che l’hanno vista tra i protagonisti citiamo a titolo esemplificativo Serenity del 2005, Stolen – Rapiti del 2010 e Spy del 2015, quest’ultimo a fianco di Jason Statham, Jude Law e dell’irriverente Melissa McCarthy.

 

I misteri della Chiesa

Non è mai facile assumersi la responsabilità di fare luce su inchieste o fatti apparentemente irrisolti e ricolmi di mistero. I segreti che regnano e sovrabbondano nel mondo della Chiesa, ad esempio, sono spesso oggetto di discussioni e dibattiti, ma spesso la verità è ben lontana dall’essere scovata. È oltremodo coraggioso avventurarsi nei sentieri impervi dell’universo ecclesiale per poterne svelare i numerosi insabbiamenti, con l’omertà che dilaga indisturbata a fungere da ostacolo.



Il film Spotlight diretto da Thomas McCarthy è un esempio di cinema di denuncia, un’opera storico-biografica a tinte thriller e dai contorni drammatici. Il tema inscenato riguarda proprio la Chiesa Cattolica e, nello specifico, la piaga degli abusi di minori ad opera di alcuni sacerdoti americani. Ecco i dettagli.



Nell’estate del 2001 irrompe nella redazione del “Boston Globe” un nuovo direttore, Marty Baron. Coadiuvato da Ben Bradlee Jr., egli ha un solo obiettivo in mente: il giornale deve tornare ad occuparsi in prima linea di tematiche scottanti, tralasciando i classici casi di routine. I nuovi investigatori chiamati in causa comporranno un gruppo chiamato “Spotlight”.


Michael Keaton e Mark Ruffalo in una scena del film
Michael Keaton e Mark Ruffalo in una scena del film



Il primo argomento a dir poco spinoso di cui Baron vuole che il giornale si occupi è quello relativo a un sacerdote che nell’arco di circa trent’anni è stato autore di una serie di atti di pedofilia nei confronti di numerosi giovani senza che contro di lui venissero presi provvedimenti esemplari. In maniera particolare, Baron è assolutamente convinto che il cardinale di Boston fosse perfettamente al corrente della grave situazione in atto, ma che abbia fatto di tutto per insabbiare le eventuali prove e per nascondere la realtà.



Grazie a questa inchiesta e all’iniziativa dei membri “Spotlight”, fu gettata luce su una quantità considerevole di abusi ai danni di minori in ambito ecclesiale.



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Bim Distribution a partire da giovedì 18 febbraio, Il caso Spotlight (o più semplicemente Spotlight) trasporta sul grande schermo lo scandalo che travolse la diocesi di Boston tra il 2001 e il 2002, generando una presa di coscienza su una situazione di cui nessuno sospettava l’esistenza.



Il regista statunitense Thomas McCarthy (di cui ricordiamo alcuni suoi film quali L’ospite inatteso, Mosse vincenti e The Cobbler) realizza così un’opera che fa delle indagini giornalistiche il suo fulcro centrale, ma senza sfociare nella retorica e nella demagogia appartenenti al genere. Gli investigatori, infatti, non vengono tratteggiati come eroi senza macchia che combattono il crimine come dei veri paladini della giustizia, ma come persone assolutamente normali, semplici e con qualche scheletro nell’armadio.



Tra i membri del team “Spotlight”, infatti, ve ne sono alcuni che avrebbero potuto far scoppiare il caso anni prima in virtù del materiale posseduto tempo addietro, evitando in tal modo atroci ed indicibili sofferenze a tanti giovani indifesi ed ignari del pericolo incombente. Tuttavia, non è stato così. Un’omissione di colpa che non ha risparmiato neppure le alte sfere ecclesiali né le povere vittime, che per paura di ritorsioni hanno preferito percorrere la via del silenzio.



Mark Ruffalo discute con Rachel McAdams e Brian d'Arcy James negli uffici della redazione del "Boston Globe"
Mark Ruffalo discute con Rachel McAdams e Brian d’Arcy James negli uffici della redazione del “Boston Globe”



Il cast selezionato per l’occasione è di tutto rispetto. Marty Baron è interpretato da Liev Schreiber (Salt, Il fondamentalista riluttante e Creed – Nato per combattere), mentre la squadra “Spotlight” è composta da Mark Ruffalo (Michael Rezendes), un sorprendente e rinato Michael Keaton (Walter Robinson), Rachel McAdams (Sacha Pfeiffer) e da Brian d’Arcy James (Matt Carroll), con John Slattery nei panni dell’editore Ben Bradlee Jr. e Stanley Tucci in quelli dell’avvocato Mitchell Garabedian.



Il caso Spotlight quindi non funziona solamente grazie agli attori prestati al servizio, ma soprattutto perché è in grado di affermare un dato di fatto inconfutabile: la Chiesa Cattolica ha collocato nei ranghi più alti alcuni suoi esponenti di maggior spessore, creando una vera e propria gerarchia e credendo di salvare la fede di molte persone celando la perversione di alcuni suoi membri, ma così facendo ha ottenuto l’effetto contrario, consegnando all’opinione pubblica, sospettosa e semplificatrice, una certa parte di clero la cui linea di condotta è ben distante da quella predicata.



Chiudiamo questo articolo con un passo tratto dal Vangelo secondo Matteo:



Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare”.

 

La metamorfosi dell’amore

Un’opera dai molteplici spunti riflessivi, contraddistinta da un tema quanto mai attuale e delicato ed interpretata da un grande attore protagonista. Può essere così riassunto l’ultimo film del regista britannico Tom Hooper, vincitore del Premio Oscar per Il discorso del re, intitolato The Danish Girl, che vede primeggiare un istrionico e poliedrico Eddie Redmayne, supportato efficacemente dall’attrice svedese Alicia Vikander. Entriamo nei meandri della pellicola.



Danimarca, inizi del ‘900. La vita del pittore paesaggista Einar Wegener è scissa in due parti: la prima vissuta accanto alla moglie a Copenhagen, mentre la seconda a Parigi con una nuova identità, nei panni (in tutti i sensi )di Lili Elbe. Oltre che per i suoi dipinti, Wegener sarà ricordato per essersi sottoposto per la prima volta nella storia ad un’operazione chirurgica con lo scopo di cambiare sesso.



L'attore Eddie Redmayne interpreta il pittore danese Einar Wegener. In questa scena la trasformazione è già completata: ora è Lili Elbe
L’attore Eddie Redmayne interpreta il pittore danese Einar Wegener. In questa scena la trasformazione è già completata: ora è Lili Elbe



Tutto ebbe inizio con un gioco erotico con la moglie Gerda, in cui Wegener si travestì da donna. Da quel momento in poi il pittore danese rimase fortemente attratto dall’abbigliamento femminile, che divenne un’irresistibile calamita. Col passare del tempo crebbe la volontà di trasformarsi definitivamente in una donna: Einar desiderava ardentemente diventare Lili.



La medicina dell’epoca lo considerava uno schizofrenico da internare il più presto possibile. Nonostante questo, Einar Wegener si rifugiò nella chirurgia sperimentale, pur consapevole che ciò che si apprestava a subire rappresentava un intervento mai eseguito prima e dai rischi incalcolabili.



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 18 febbraio dalla Universal Pictures, The Danish Girl racconta la storia di uno spirito libero intrappolato in una gabbia corporea che non riconosce come propria. Attraverso lo specchio dell’anima, Einar Wegener realizza di voler divenire Lili Elbe.



Non è azzardato affermare che il film si divida in due tronconi. Il primo narra e descrive le modalità con cui Wegener impara i movimenti dalle altre donne al fine di assumerli e padroneggiarli per completare la sua mutazione. Il secondo invece, molto più ampio, inquadra e si sofferma sull’esigenza del pittore di essere una donna a 360 gradi. In questa seconda parte, dunque, i corpi e i modelli femminili visualizzati nella prima sezione dell’opera scompaiono progressivamente, lasciando il posto alla mera trasformazione fisica, incarnata dal volto, dai lineamenti e dalle espressioni di Lili Elbe.



In un’esplosione continua di recitazione e primi piani, l’attore d’oltremanica Eddie Redmayne (di cui ricordiamo alcuni film quali La teoria del tutto, Jupiter – Il destino dell’universo e Les Misérables, pellicola diretta proprio da Tom Hooper) riesce ad ottenere meritatamente la nomination all’Oscar come miglior attore protagonista. Il suo Einar Wegener è un concentrato di mimesi e mutazione facciale, contorniato da un accentuato compiacimento nel ricoprire un ruolo dotato di un’indiscutibile eterogeneità somatica.



Accanto a Redmayne, nelle vesti della moglie Gerda Wegener, troviamo l’attrice scandinava Alicia Vikander (nota al pubblico per pellicole come Il quinto potere, Il settimo figlio e il recente Il sapore del successo, con Bradley Cooper), la quale riesce nell’intento di determinare le sorti di ogni scena nonostante non interpreti il ruolo da protagonista. Gli spunti più interessanti del film derivano proprio da lei, una sorta di motore emozionale nascosto che anima l’intera vicenda.


Lili Elbe (Eddie Redmayne) e Gerda Wegener (Alicia Vikander) affrontano insieme gli ostacoli della vita
Lili Elbe (Eddie Redmayne) e Gerda Wegener (Alicia Vikander) affrontano insieme gli ostacoli della vita



Dietro la macchina da presa troviamo il regista Tom Hooper (Red Dust e Il maledetto United, giusto per citare qualche esempio della sua filmografia), che con The Danish Girl ha saputo creare una pellicola gradevole e piacevole, caratterizzata da un tono leggermente retrò ed élite, elementi stilistici assolutamente inclini con la tipologia di film da lui diretti, vedasi a tal proposito Il discorso del re del 2010 e I Miserabili del 2012.



Ciò che spicca maggiormente in The Danish Girl sono gli sfondi e gli interni meravigliosi, nonché una rappresentazione cromatica praticamente perfetta (non per niente il protagonista è un pittore). La scenografia e la fotografia, quindi, combaciano armonicamente e il pubblico in sala potrà apprezzarne l’incantevole estetica.



Il tema sessuale viene affrontato con garbo e pudore. Le scene più erotiche, dai baci omosessuali alle inquadrature dei corpi nudi, vengono puntualmente (e forse eccessivamente) sfumate. Nonostante l’incombenza e la necessità di un’operazione chirurgica, non è dunque sbagliato affermare che The Danish Girl rappresenti la vittoria dello spirito e della mente nei confronti del corpo e della carne.            

L’idealismo contro la realtà

Chi di voi conosce Dalton Trumbo? Ebbene, fu uno dei più richiesti ed influenti sceneggiatori del panorama hollywoodiano degli anni ’40. Il regista statunitense Jay Roach ha deciso di dedicargli un film, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, con Bryan Cranston nei panni del celebre scrittore, affiancato da Helen Mirren, Diane Lane ed Elle Fanning. Entriamo nei dettagli.


Agli inizi degli anni ’40 Dalton Trumbo approda a Los Angeles iniziando la sua carriera come lettore per la Warner Bros e divenendo nel corso del tempo uno degli sceneggiatori più in voga del periodo. A questo proposito, degne di nota furono le collaborazioni con la Columbia, la MGM e la RKO. Punto di riferimento della scena sociale hollywoodiana, Trumbo era un convinto sostenitore del comunismo, schierandosi più di una volta in favore dei sindacati e dei diritti civili.


Bryan Cranston (Dalton Trumbo) ed Helen Mirren (Hedda Hopper) in una scena del film
Bryan Cranston (Dalton Trumbo) ed Helen Mirren (Hedda Hopper) in una scena del film



A causa della sua tendenza politica, nel 1947 Trumbo finì di fronte al Comitato per le Attività Antiamericane, rifiutandosi categoricamente di rispondere alle domande. Le conseguenze furono inevitabili: andò in prigione, perse la casa, il lavoro e la possibilità di esprimersi pubblicamente. Nonostante ciò, egli non si diede per vinto e continuò imperterrito a comporre sceneggiature sotto pseudonimo e a battersi fino ad ottenere la cancellazione della lista nera.


Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Eagle Pictures proprio in questi giorni, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è un film biografico dal carattere idealista che marcia all’interno di un parallelismo concettuale insito nel protagonista della storia: da una parte troviamo l’impegno costante e continuo di Trumbo nel suo mestiere, con tanto di strenuo sforzo fisico per resistere al sonno e alla stanchezza, dall’altra, invece, trova posto il medesimo prodigarsi nella difesa ad oltranza delle proprie idee politiche e della libertà di pensiero a 360 gradi.


A tal proposito, infatti, è da sottolineare come Trumbo non solo lavorò alacremente per se stesso sotto falso nome durante gli anni più bui della sua esistenza, ma fornì una quantità consistente di materiale a tutti quei colleghi che come lui avevano fatto la stessa scelta di coerenza, divenendo delle vere e proprie vittime dell’ostracismo imperante dell’epoca.


Dalton Trumbo in compagnia della moglie Cleo Fincher, interpretata dall'attrice Diane Lane
Dalton Trumbo in compagnia della moglie Cleo Fincher, interpretata dall’attrice Diane Lane



In virtù di queste azioni, Trumbo manifestava a livello pratico un’etica di giustizia sociale intesa, soprattutto, come redistribuzione della ricchezza, cercando allo stesso tempo di far crollare a suon d’inchiostro il muro di gomma eretto sia dalla Commissione sia dalla paranoia del popolo americano nei confronti dei cosiddetti “Dieci di Hollywood”.


Dovendo muovere una critica all’opera di Jay Roach (di cui ricordiamo alcuni film dai toni sicuramente più leggeri quali Ti presento i miei, A cena con un cretino e Candidato a sorpresa) è possibile affermare che il piano idealista rappresentato da Dalton Trumbo non viene bilanciato da quello scenografico. Sebbene il percorso tematico contraddistinto dall’esclusione e dall’umiliazione personale del protagonista venga descritto e sviluppato in maniera completa e approfondita, non si può dire altrettanto per la sfera professionale, la quale, infatti, viene solo appena accennata.


Gli spunti positivi di certo non mancano. Basti pensare alle sequenze in cui Trumbo progetta Vacanze romane o disquisisce con l’estroverso Frank King (interpretato da John Goodman). Ma in una pellicola biografica incentrata su un personaggio di questa caratura e portata avremmo voluto assistere a molte più scene di questo tipo.


La lente d’ingrandimento del film di Jay Roach si sofferma in maniera particolare su Trumbo pater familias e sulla sua figura intesa come modello umano da seguire, prediligendo la vena dell’eroismo piuttosto che l’esplorazione delle sue opere principali. In questo senso, la divertente ed ironica sequenza con Otto Preminger e Kirk Douglas risulta tanto azzeccata quanto a se stante.


Elle Fanning è Niki, la figlia di Dalton Trumbo
Elle Fanning è Niki, la figlia di Dalton Trumbo



Veniamo al cast scelto per l’occasione. Un plauso va sicuramente speso per Bryan Cranston (noto attore statunitense, famoso al pubblico per le serie tv Breaking Bad e Malcolm, nonché per film come Contagion, Argo e Godzilla) nelle vesti di Dalton Trumbo, riuscendo nell’intento non indifferente di non risultare forzatamente più interessante rispetto al personaggio che incarna. Per questo film Cranston ha ricevuto una nomination ai Golden Globe, al BAFTA Award, agli Screen Actors Guild Award e ai Premi Oscar 2016 come miglior attore protagonista.


La celebre attrice britannica Helen Mirren (vincitrice del Premio Oscar nel 2007 per The Queen – La regina), invece, veste i panni della giornalista di gossip (ed ex attrice dell’epoca) Hedda Hopper, che spalleggerà e spronerà di continuo Trumbo nel corso delle sue vicende legali. Completano ed impreziosiscono il quadro Diane Lane nel ruolo della moglie Cleo ed Elle Fanning nella parte della figlia Niki.

Uno stravagante scrittore

A partire da giovedì 11 febbraio, esce nelle sale cinematografiche italiane The End of the Tour, distribuito dalla Adler Entertainment, un film che pone al centro dell’obiettivo della telecamera lo scrittore David Foster Wallace, interpretato dall’attore statunitense Jason Segel, intervistato dal giornalista David Lipsky (Jesse Eisenberg). Un incontro contraddistinto da confessioni ed omissioni reciproche, scomode domande e depistanti risposte. Un mix di elementi comunicativi documentati tra viaggi in aereo e sedute davanti alla tv dal regista James Ponsoldt.

 

1996. In occasione del tour promozionale dell’opera intitolata “Infinite Jest”, il romanziere e giornalista David Lipsky frastorna di domande incalzanti per ben cinque giorni lo scrittore David Foster Wallace al fine di intervistarlo per la rivista Rolling Stone.

 

È l’inizio di un lungo percorso che li vedrà condividere l’atmosfera di solitudine che circonda la casa innevata di Wallace, l’affetto dei suoi cani, i lunghi viaggi in auto e in aereo, l’ansia antecedente la lettura di un libro, la conoscenza con due amiche e le interminabili sedute dinanzi al piccolo schermo, la vera grande droga di Wallace.

 

Nel corso di questo arco temporale, i due si studieranno a vicenda, si confesseranno, si odieranno e talvolta arriveranno persino a invidiarsi l’uno con l’altro. Un incontro-scontro che rappresenterà un avvenimento a se stante. Da quel momento, infatti, Lipsky e Wallace non si rivedranno mai più.
Se si analizza di primo acchito The End of the Tour può sembrare un lavoro freddo e privo di pathos. In realtà non è così. Occorre infatti coglierne l’essenza per la quale è stato concepito, allo scopo di estrapolarne il calore profondo e la sua autentica natura.

Jesse Eisenberg (David Lipsky) e Jason Segel (David Wallace) in una scena del film
Jesse Eisenberg (David Lipsky) e Jason Segel (David Wallace) in una scena del film


Siamo perciò di fronte ad un film molto particolare, a primo impatto difficilmente assimilabile. David Wallace era uno scrittore ossessionato dall’idea di divenire la parodia di se stesso, con la logica conseguenza di perdere il contatto con la realtà circostante. La scelta di Jason Segel, in questo senso, risulta azzeccata. L’attore americano (noto al pubblico per alcune pellicole dal tono irriverente e goliardico quali Questi sono 40, Facciamola finita e Sex Tape – Finiti in rete, con Cameron Diaz) infatti compare sul grande schermo con la famosa bandana e con la consueta aria tormentata che lo contraddistingue. Un personaggio sicuramente (e per l’appunto) ai confini con la parodia, ma la sua performance attoriale è nel complesso più che soddisfacente.

 

È dunque possibile definire The End of the Tour come un prodotto a metà strada tra un documentario dal carattere biografico e un’opera di finzione. Una sorta di racconto molto simile a quelli che Wallace correggeva ai suoi studenti.

 

Il rapporto e le dinamiche intersoggettive tra intervistatore ed intervistato si mischiano e si confondono reciprocamente, creando un perfetto amalgama complementare all’interno della coppia. Nota di merito, in questa prospettiva, per Jesse Eisenberg (di cui ricordiamo film come The Social Network, Now You See Me – I maghi del crimine e il recente The Double) nei panni dell’incalzante reporter David Lipsky.

L'attore Jason Segel nelle vesti dello scrittore David Foster Wallace
L’attore Jason Segel nelle vesti dello scrittore David Foster Wallace


Dietro la macchina da presa troviamo il regista statunitense James Ponsoldt (di cui citiamo a titolo esemplificativo Off the Black del 2006, Smashed del 2012 e The Spectacular Now del 2013), il quale ha il merito di ricostruire il viaggio di Lipsky non come un’esperienza indimenticabile, bensì come un’immersione nell’umiltà. Il giornalista del Rolling Stone, infatti, cerca in tutti i modi di trovare il pertugio giusto per affondare le sue domande, ma i suoi tentativi vengono puntualmente vanificati da Wallace.

 

Sia Lipsky che Ponsoldt non potranno mai comprendere chi è veramente David Foster Wallace, né nell’arco di cinque giorni né nel corso dei 106 minuti di durata del film. Tuttavia, entrambi hanno avuto l’occasione di avvicinarsi, lasciandosi influenzare dal suo ego.

 

Infine, non mancano gli elementi creativi. Basti pensare, ad esempio, all’utilizzo di un tipo di linguaggio tutt’altro che comune per una pellicola destinata ad un pubblico variegato e quindi comprendente chi ancora non conosce David Foster Wallace.

A caccia dell’Oscar

Immerso nei ghiacciai di un’America ancora sconosciuta, tra lande desolate sommerse dalla neve, con la minaccia dei lupi e degli orsi che vagabondano in cerca di cibo e del freddo artico pronto a raggelare il sangue e ad immobilizzare gli arti.


Con The Revenant – Redivivo, Leonardo Di Caprio sfoggia un repertorio di espressioni mimiche facciali estremizzate, toccando tutte le corde emotive possibili. Un’avventura ai limiti dell’impossibile che consacra per l’ennesima volta un attore che merita di vincere l’Oscar, ora più che mai. Tuttavia, modificando leggermente una delle battute principali del film, l’assegnazione dell’ambito trofeo è nelle mani di Dio…


Leonardo Di Caprio nasce a Los Angeles (California) l’11 novembre 1974. Dopo aver preso parte ad alcuni spot pubblicitari televisivi all’inizio degli anni ’90, debutta sul grande schermo in occasione dell’adattamento cinematografico del libro di memorie Voglia di ricominciare del 1993 a fianco di Robert De Niro. Egli ricevette numerosi attestati di stima per il suo ruolo nella pellicola drammatica intitolata Buon compleanno Mr. Grape del 1993, grazie alla quale ottenne la sua prima nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista a soli 19 anni.

Leonardo Di Caprio
Leonardo Di Caprio


Riuscì a conquistare gli elogi del pubblico in virtù dei ruoli da protagonista ricoperti in Ritorno dal nulla del 1995 e Romeo + Giulietta dell’anno successivo, con cui si aggiudica l’Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino.


Ovviamente non si può non citare la celebre storia d’amore in Titanic (1997) a fianco di Kate Winslet, con tanto di candidatura al Golden Globe.


Uno dei film più noti e significativi della carriera di Di Caprio è senza dubbio The Aviator del 2004, grazie al quale ottenne il Golden Globe come miglior attore in un film drammatico, ricevendo al contempo la candidatura all’Oscar nella medesima categoria.


È altrettanto indubbio che La maschera di ferro (1998), Prova a prendermi (2002) e Gangs of New York (2002) fungano da testimonianza del talento immenso dell’attore californiano.


Con il thriller Blood Diamond del 2006 Di Caprio riceve la sua terza candidatura all’Oscar come miglior attore, mentre con la perla cinematografica The Departed (dello stesso anno) dimostra ancora una volta di essere uno degli attori più in forma del panorama hollywoodiano.


Il sodalizio con il noto regista Martin Scorsese, iniziato con Gangs of New York, prosegue con lo psyco-thriller Shutter Island del 2010 e con il film biografico The Wolf of Wall Street del 2013, in cui Di Caprio interpreta il ruolo di Jordan Belfort. Grazie alla sua performance riesce ad aggiudicarsi il secondo Golden Globe ed a ricevere la candidatura all’Oscar come miglior film e miglior attore protagonista.


Infine, eccoci all’ultima fatica: The Revenant – Redivivo, datato 2015 ed uscito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 16 gennaio grazie alla 20th Century Fox.


The Revenant – Redivivo

Siamo giunti all’ultima opera con protagonista Leonardo Di Caprio, The Revenant – Redivivo, un film d’avventura a forti tinte western che attesta, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la bravura recitativa del grande attore statunitense.

Leonardo Di Caprio in una scena del film
Leonardo Di Caprio in una scena del film


La storia è ambientata intorno agli anni ’20 dell’800. Tutti cercano di trarre profitto dai territori semisconosciuti di un’America ancora tutta da scoprire. Soldati, esploratori, cacciatori di pelli e mercenari, non manca nessuno all’appello, nemmeno gli indiani autoctoni, costantemente in agguato e pronti a sottrarre il prezioso bottino a chiunque passi nelle loro vicinanze.


Glass (Di Caprio) fa parte di un gruppo di americani in spedizione alla ricerca di pelli. Egli conosce più di tutti gli impervi territori in cui si sono inoltrati. La sua unica missione è quella di riportare i suoi compagni al forte e, allo stesso tempo, preservare l’incolumità di suo figlio Hawk, un ragazzo indiano della tribù dei Pawnee.


Staccatosi dal gruppo per trovare una via di fuga che consentisse di evitare spiacevoli incontri con gli indiani, Glass viene attaccato da un enorme grizzly, che lo lascia in condizioni fisiche pessime e quasi irreversibili. Fitzgerald, il più arrogante e scontroso della compagnia, si offre di rimanere accanto a lui per dargli una sepoltura dignitosa, ma il tradimento è dietro l’angolo. Armato di un’infinita forza di volontà e spronato dall’accecante desiderio di vendetta, Glass cercherà di rimettersi in piedi, dando così inizio ad un’epica odissea.

Lo sguardo sofferente di Di Caprio
Lo sguardo sofferente di Di Caprio nella scena finale


Il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu (di cui ricordiamo pellicole quali 21 grammi, Babel e Birdman) decide di puntare i riflettori sull’essenza della natura dell’uomo. Gli strumenti da lui utilizzati per compiere questa operazione sono rappresentati dalla neve (che gela ed intorpidisce l’anima) e dal fuoco (che scalda e rincuora), dal mantenimento della parola data e dal tradimento.


La prova attoriale di Di Caprio si attesta come sempre su livelli eccellenti. Nell’eterna lotta per la sopravvivenza e circondato da un ambiente selvaggio ed estremo, la sua performance raggiunge l’apice soprattutto nelle scene di muto, in cui le diverse smorfie di dolore del suo volto rendono bene l’idea sulla sofferenza patita dal suo corpo e dalla sua mente.


Tra coltelli che affondano la loro lama nella carne e pratiche chirurgiche ed alimentari estreme, i personaggi lottano strenuamente immersi in una geografia primitiva e spietata pronta a fagocitare il malcapitato di turno.


Un plauso va fatto anche per l’attore britannico Tom Hardy nei panni del traditore Fitzgerald, il cui paragone di Dio con uno scoiattolo potrà far sorridere, ma anche riflettere il pubblico in sala.


The Revenant – Redivivo, la caccia all’Oscar continua…

Cavalca e spara

Non è certo un mistero che il celebre regista e sceneggiatore statunitense Quentin Jerome Tarantino sia da sempre un grande ammiratore del cinema italiano targato anni ’70. Tra i suoi idoli incontrastati spicca senza dubbio Sergio Leone. È proprio in virtù dell’amore e dell’interesse per la filmografia di questo periodo storico che è scaturita negli ultimi anni la volontà di coniugare la passione per il B-movie e l’exploitation (presente fin dagli albori nelle opere di Tarantino) con il genere western. Vengono così alla luce Django Unchained e The Hateful Eight, quest’ultimo in proiezione nelle nostre sale cinematografiche da giovedì 4 febbraio. Prima di analizzare le due pellicole, approfondendo in maniera particolare il secondo lavoro, introduciamo come di consueto il protagonista del nostro articolo con una succinta nota biografica.

 

Quentin Tarantino


Quentin Tarantino
Quentin Tarantino



Quentin Tarantino nasce il 27 marzo del 1963 a Knoxville (Tennessee). La sua carriera da regista ebbe inizio nella prima metà degli anni ’90 con il film di debutto intitolato Le iene (1992). La consacrazione definitiva arrivò con Pulp Fiction del 1994, grazie al quale si aggiudicò la Palma d’oro al Festival di Cannes, sette nomination e il premio per la miglior sceneggiatura originale nel 1995.

 

Django Unchained


Il primo film di Quentin Tarantino di stampo western è Django Unchained, datato 2012 ed uscito nelle sale italiane il 17 gennaio 2013 grazie alla Warner Bros Pictures. L’opera rappresenta un omaggio dedicato alla pellicola del 1966 Django diretta da Sergio Corbucci e con protagonista Franco Nero (che tra l’altro compare nel film in un cameo). Il film ottenne 5 nomination ai premi Oscar 2013, vincendone 2: l’attore Christoph Waltz conquistò il premio come miglior attore non protagonista nei panni del cacciatore di taglie di origine teutonica King Schultz (secondo trofeo consecutivo dello stesso tipo dopo quello conseguito con Bastardi senza gloria nel 2010), mentre il secondo fu assegnato a Tarantino per la migliore sceneggiatura originale.


Leonardo Di Caprio, Jamie Foxx e Christoph Waltz, i protagonisti di Django Unchained
Leonardo Di Caprio, Jamie Foxx e Christoph Waltz, i protagonisti di Django Unchained



La storia è ambientata nel sud degli Stati Uniti, alle soglie della guerra civile. Comodamente seduto sul suo carretto da dentista, il dottor King Schultz è sulle tracce dei fratelli Brittle per consegnarli (morti) alle autorità competenti in cambio di una lauta ricompensa. Al fine di raggiungere il suo obiettivo, egli libera dalle catene lo schiavo Django (interpretato da Jamie Foxx), promettendogli la libertà una volta portata a termine la missione. I due attraverseranno insieme le piantagioni di cotone americane e vivranno in prima persona gli orrori della schiavitù e del razzismo imperanti in quell’epoca. Ma anche Django ha una missione: ritrovare la moglie Broomhilda, venduta come schiava a qualche ricco e spregevole possidente (Leonardo Di Caprio, assistito dal suo fedele maggiordomo Samuel L. Jackson).

 

The Hateful Eight


Il secondo, nonché ultimissimo lavoro di Quentin Tarantino appartenente al filone western è The Hateful Eight, nelle nostre sale cinematografiche a partire da giovedì 4 febbraio grazie alla 01 Distribution.


The Hateful Eight
The Hateful Eight, gli 8 personaggi dell’ottavo film di Quentin Tarantino



Wyoming. Una diligenza corre a più non posso lungo i sentieri rocciosi innevati per giungere a Red Rock. La sua corsa viene arrestata dall’irruzione del Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), cacciatore di taglie di colore dedito all’Unione. John Ruth detto “Il Boia” (Kurt Russell), un bounty hunter fermamente convinto dei valori della giustizia, lo ospita non senza qualche riserva all’interno della diligenza. Il viaggio riprende, ma per poco. Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), scorbutica e strafottente ragazza condannata alla forca, causa una nuova sosta, durante la quale fa la comparsa un nuovo personaggio: Chris Mannix (Walton Goggins), un rinnegato sudista promosso sceriffo di Red Rock. Una tumultuosa tempesta di neve costringe il gruppo a fermarsi e a trovare riparo presso l’emporio di Minnie Mink (Dana Gourrier), dove avranno l’occasione di rifocillarsi davanti ad una tazza di caffè bollente e ad un bel bicchiere di cognac, ma anche di fare la conoscenza di quattro sconosciuti, i quali verranno interrogati a turno dallo scettico John Ruth. Tuttavia, nessuno è chi dice di essere…


L’ottavo film di Tarantino (il più lungo in assoluto, ben 167 minuti di durata) oscilla costantemente tra il concetto d’identità (reale o fittizia che sia) dei suoi personaggi e l’indecisione di una nazione di abbracciare le scelte morali o la violenza delle armi. Inoltre, è facilmente intuibile la volontà del regista statunitense di racchiudere gli 8 personaggi in un ambiente circoscritto (l’emporio di Minnie), esaltando in tal modo lo sviluppo scenografico orizzontale, un formato ormai risalente agli anni ’60.


Il clima di paranoia sale vertiginosamente col trascorrere dei minuti e con il susseguirsi dei vari capitoli, e l’interazione tra i protagonisti consente al pubblico di non perdere mai l’attenzione su di essi. La diffidenza esplosa dopo la guerra civile non risparmia nessuno. Nonostante ognuno dei presenti cerchi di dimostrare la propria identità sventagliando documenti, lettere, mandati, ordini di missione ed avvisi di ricerca nulla sembra scalzare definitivamente i dubbi che aleggiano nella mente di John Ruth. Siamo di fronte ad una sorta di tribunale che parla di impiccagioni, omicidi più o meno legali, legittima difesa con l’ausilio della violenza e decodificazione della giustizia. Il branco di sciacalli riuniti sotto la macchina da presa di Tarantino deciderà autonomamente a suon di colpi di pistola chi merita di continuare a vivere e chi invece è destinato alla tomba.


Questa volta a vestire i panni del cacciatore di taglie troviamo Samuel L. Jackson, il quale riesce nell’intento di svelare poco a poco la sua natura “tarantiniana” tra una parola pronunciata e una pallottola sparata.


Samuel L. Jackson nelle vesti del Maggiore Marquis Warren
Samuel L. Jackson nelle vesti del Maggiore Marquis Warren



Degni di nota sono anche Tim Roth (Oswaldo Mobray), James Parks (O. B. Jackson) e Michael Madsen (Joe Gage), con la canaglia in gonnella Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue) e Channing Tatum (Jody Domingray) altrettanto capaci di suscitare emozioni nello spettatore. Ci sono anche delle conferme dal punto di vista recitativo, come quelle di Walton Goggins (lo sceriffo Chris Mannix) e Bruce Dern (il Generale confederato Sanford Smithers), in rappresentanza degli intenti politici di Tarantino. Se poi aggiungiamo la partitura originale di Ennio Morricone, il piatto è servito.


Nel momento in cui gli otto personaggi carichi di odio finiscono le parole, ecco che iniziano ad imperversare le pistole. Sotto l’incessante neve del Wyoming, Quentin Tarantino riconcilia la vita e la morte, con l’obiettivo di politicizzare il suo cinema, un percorso intrapreso a partire da Bastardi senza gloria del 2009.