DESA NINETEENSEVENTYTWO Collezione Autunno/Inverno 2015/16

E’ l’eleganza e la classe di una delle attrici più belle del cinema, che ispirano la collezione autunno/inverno 2015/16 di DESA NINETEENSEVENTYTWO, e porta il nome di Romy Schneider.

Una collezione presentata in occasione della Milano Moda Donna, caratterizzata da dettagli d’intrecci fatti a mano nella tradizione della cultura Ottomana. Una serie con delle grandi novità: ROMY bag e LADY bag.

Da sempre attento al dettaglio, il brand DESA NINETEENSEVENTYTWO è riconosciuto come produttore leaderin Turchia nella creazione di prodotti in pelle di altissima qualità.
Le borse DESA sono l’oggetto del desiderio di una donna sofisticata, esigente e che rifiuta le etichette. Il prodotto DESA è timeless ma innovativo, tecniche tradizionali di manifattura vengono utilizzate insieme a quelle d’ultima generazione, dando vita a un prodotto unico e riconoscibile.

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I colori e le geometrie di questa collezione prendono ispirazione dai dipinti di Josef Albers e dal design di Charlotte Perriand.
Oltre alle iconiche FOUR, SEVEN e TWENTYTWO, è stata aggiunta una ciliegina sulla torta: la bag ANDROGENE, una borsa al passo coi tempi, che non ama le definizioni, misteriosa, un prodotto unisex portabile quindi sia dall’uomo che dalla donna.

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Protagonisti assoluti i materiali: Nappa Lux, Struzzo, Camoscio; Pelliccia e Pelle elaborata “Cervo”.

Burak Celet, Amministratore delegato di Desa:

“L’italia è uno dei mercati più importanti nel contesto dell’industria della Moda a livello globale, essendo generatore di grandi talenti, creatività e grandi marchi. Per questo è stata la nostra prima scelta all’ora di presentare il macchio DESA NINETEENSEVENTYWO al mondo. Oltre a 30 prestigiose boutique considerate grandi “connoisseurs” della creatività ed il lusso come Excelsior, Antonioli, Degli Effetti, Silvia Bini, LuisaViaRoma, hanno subito abbracciato il nostro marchio. Questa è la seconda volta presentiamo la nostra collezione nel contesto Calendario ufficiale della Milano Moda Donna, sede chiave per noi nello sviluppo del marchio. Siamo convinti che la nostra presenza nei migliori punti vendita in Italia, Corea del Sud, Svizzera, Stati Uniti, Giappone e il nostro show-room di Parigi, ci permetterà di introdurre NINE SEVENTYTWO ai ricercatori di un prodotto di lusso d’eccellenza a temporale”.

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(foto Miriam De Nicolò)

Immigrazione: né isteria né buonismo

“Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di doverci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di cercare e praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Nel nostro interesse e in quello di un’umanità diseredata.”




Una settimana fa, di fronte all’ultima e più spaventosa tragedia del Mediterraneo costata la vita a più di settecento profughi, il Governo italiano ha ottenuto una riunione straordinaria del Consiglio europeo. Ebbene, erano giuste e che esito hanno avuto le richieste avanzate da Matteo Renzi di assumere un’iniziativa comune per fermare gli scafisti, per soccorrere in mare i boat people e per organizzare la distribuzione dei profughi in tutta l’Unione Europea?





Tutti i leaders convenuti, cogliendo il sentimento umanitario dell’opinione pubblica di fronte al disastro, hanno condiviso la necessità di triplicare i finanziamenti comunitari all’operazione Triton portandoli dagli attuali tre a nove milioni di euro. Bene, ma così siamo semplicemente tornati al punto di partenza, cioè al costo che in precedenza l’Italia, da sola, aveva sostenuto con l’operazione Mare Nostrum. Operazione che aveva consentito, nel solo 2014, il salvataggio di 170.000 esseri umani tra richiedenti asilo, profughi e clandestini, ma che non aveva mutato di una virgola gli elementi fondamentali del problema.


Viceversa, con toni e argomenti diversi, il primo ministro inglese David Cameron, e, subito dopo, la cancelliera Angela Merkel hanno respinto o accantonato sia la richiesta di distribuire i boat people su tutto il territorio europeo, sia le suggestioni, peraltro molto improvvisate e confuse, di fermare gli scafisti o con operazioni militari (sequestro o distruzione dei barconi degli scafisti affidati a raid aerei di droni), o con spedizioni di polizia internazionale nei porti e nelle spiagge.


In sostanza l’aiuto umanitario è stato incrementato (ma anche arretrato a sole trenta miglia dalle coste italiane con conseguenti maggiori rischi per i boat people), mentre, per ora, gli attori criminali restano liberi di agire e le conseguenze pratiche, cioè l’accoglienza dei salvati in mare, resta affidata a Italia e Malta, cioè ai paesi di primo transito dei migranti, esattamente come prevedono gli accordi di Dublino, (sottoscritti anche dall’Italia), tuttora in vigore.


Per quel che riguarda la richiesta italiana che il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzi interventi militari o di polizia contro scafisti e scafi circolano versioni molto diverse su come l’abbia accolta il segretario generale Ban Ki-moon.


Intanto, ancora una volta, politici, giornali e televisioni italiane hanno sollevato a gran voce proteste e accuse contro l’egoismo, l’indifferenza, il cinismo dell’Europa che lascia l’Italia sola a sbrigarsela con le ondate migratorie, anzi, con “le invasioni” come a molti piace chiamarle. Ma le cose stanno davvero così? No, non stanno così. E’ vero che il numero dei richiedenti asilo in Italia è molto aumentato negli ultimi anni, tuttavia, in rapporto alla popolazione, il nostro resta uno dei paesi europei con la minor presenza di rifugiati, mentre, in cima alle classifiche che misurano l’accoglienza svettano Svezia e Germania. D’altra parte, se è vero che Germania e Regno Unito non vogliono partecipare all’accoglienza dei rifugiati che sbarcano sulle nostre coste, è altrettanto vero che noi ci siamo ben guardati dal condividere l’accoglienza dei 400.000 slavi che negli anni ’90 si sono riversati al di là delle frontiere tedesche. Per non dire che, ancora nel 2013 e nel 2014, ci siamo esposti alle contestazioni, alle accuse, alle denunce delle autorità francesi, austriache e, soprattutto, tedesche per aver lasciato transitare decine di migliaia di clandestini e di profughi al di là delle nostre frontiere senza registrarne i documenti di identità e senza prenderne le impronte digitali. E’ questo un modo scorretto di aggirare l’obbligo di accoglienza che grava sul primo paese in cui transitano i richiedenti asilo, un modo di fare i furbi che ha reso i nostri partner europei poco propensi a condividere il peso delle nostre attuali difficoltà. Hanno già le loro e le affrontano organizzando tendopoli, requisendo e riadattando caserme e stabili dismessi. Di fronte alle nostre emergenze a noi tocca fare la nostra parte senza abbandonarci a quel misto d’isteria e di inconcludente buonismo che appartiene al peggio tanto delle nostre tradizioni politiche quanto del costume nazionale.




Soltanto nell’anno appena passato, il 2014, cinquanta milioni di esseri umani hanno lasciato i paesi di origine per trasferirsi, là dove speravano di poter vivere meglio o, almeno, di poter sopravvivere. Si tratta di un diritto umano inalienabile che tuttavia, non di rado, entra in conflitto con il diritto degli stati e dei loro cittadini di difendere le proprie frontiere anche respingendo ospiti indesiderati. Questo conflitto tra due diritti è ciò che rende l’immigrazione una materia calda, caldissima, in tutta Europa – e non solo in Europa. Nel Mediterraneo poi, ad aggravare tensioni, paure, minacce, si teme la combinazione potenziale tra la bomba demografica innescata nel continente africano e la disseminazione del terrorismo islamico che usa anche le ondate migratorie come veicolo della sua proliferazione omicida. L’intreccio di queste diverse circostanze può raggiungere un’imprevedibile, micidiale incandescenza.




L’annunciato incombere di un milione di fuggiaschi dall’ Africa subsahariana – già oggi il 50% di profughi e di clandestini salvati nel Mediterraneo proviene dal Mali, dal Niger, dal Ciad e dalla Nigeria – impongono una strategia lungimirante e globale di cooperazione allo sviluppo e di sostegno al controllo demografico in paesi che versano in condizioni disumane; consigliano un impegno e un sostegno coerenti per contenere le ondate migratorie attraverso la stabilizzazione dei paesi arabi nord africani che sono i nostri e i loro vicini, i nostri e i loro interlocutori; esigono una diversa politica di sicurezza delle frontiere che sono certo frontiere dell’Unione Europea, ma anche, e innanzitutto frontiere italiane; una nuova politica sulle migrazioni legali per attirare i giusti talenti e per giustificare meglio il respingimento di quelle illegali. Reclamare l’aiuto europeo e la “copertura” giuridica delle Nazioni Unite è giusto e corretto, ma non ci esime dal dovere di fare, noi per primi, tutto ciò che è necessario e che finora non abbiamo fatto per difendere noi stessi mentre affrontiamo le emergenze umanitarie.


Quando un problema, per le sue stesse dimensioni, appare insolubile è buona regola cercare di scomporlo nei suoi fattori e di diluirlo, guadagnando tempo, per allontanare il rischio che deflagri.


Anche ripassare le lezioni della storia può rivelarsi utile.


Gli Stati Uniti, nazione di emigranti, che gli emigranti li volevano per popolare un paese immenso, quando le ondate migratorie dagli stati europei più poveri, come l’Italia e l’Irlanda, raggiunsero dimensioni massicce decisero di adibire Ellis Island, un isolotto nella baia di New York, a luogo di temporaneo internamento. I nuovi arrivati venivano sottoposti ad esami sanitari, giudiziari, professionali per accertarne l’idoneità a risiedere negli USA. Si calcola che da Ellis Island siano transitati, in mezzo secolo, quasi trenta milioni d’immigrati toccando il picco di un milione nel solo anno 1907. La stragrande maggioranza dei richiedenti vennero accolti e furono liberi di scegliere dove risiedere in base alle opportunità del mercato del lavoro. Solo una piccola percentuale – tra il 2 e il 3% – vennero rimpatriati. Possibile che un secolo dopo l’Italia non sia in grado di governare il suo problema con l’immigrazione?


Certo le differenze sono grandi e numerose, ma non così tanto da inibire ogni approccio razionale e da oscurare gli insegnamenti che sprigionano dalle esperienze del passato. Le principali differenze rispetto a quel precedente di Ellis Island sono che l’Italia è piccola e densamente abitata, che quella verso gli States era un’immigrazione legale e non illegale, che di mezzo c’erano 5.000 miglia di Oceano Atlantico e non le poche centinaia di miglia che separano le due sponde del Mediterraneo.


Mentre spingiamo i negoziati per pacificare la Libia in fiamme e nell’attesa di poter ottenere là la collaborazione necessaria, è mai possibile che l’Italia, sesta o settima potenza mondiale, non sia in grado di organizzare due, tre o quante Ellis Island occorrono pretendendo senza titubanze e senza sconti il concorso economico, professionale e culturale dell’Unione Europea e dell’ONU?


Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di poterci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di provarci, di cercare e di praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Sì, possiamo e dobbiamo farlo nel nostro interesse e per quello di un’umanità diseredata.

Da Saint Tropez gli occhiali firmati Jacques Durand

Saint Tropez e le sue celebrità, Saint Tropez e lo sfarzo, Saint Tropez e l’aria leggera e frivola che si respirava nei mitici ’50 – è dalle sue strade che Jacques Durand prende ispirazione.

SUNSHINE COLLECTION è la prima collezione sole di Jacques Durand: PLACE DES LICES, PAMPELONNE, TAHITI, GENDARMERIE, GARONNE, BD. PATCH, ROUTE DES PLAGES i nomi dei modelli che ricordano un luogo o una strada della città delle star. Una linea mediterranea che racchiude i sogni e l’atmosfera degli sfavillanti parties dove le stelle del cinema nuotavano in fiumi di Perrier-Jouët.

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modello Garonne verde
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modello Garonne fucsia

 

Tutta la linea Jacques Durand è composta da occhiali con stecche confortevoli e montature leggere, dettagli invisibili e da modelli evergreen, lontani dall’influenza delle mode del momento.

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L’esperienza di Jacques Durand fluisce in un unico oggetto, che diventa simbolo di architettura, arte, design, un occhiale che riveste un ruolo più importante dell’oggetto fine a se stesso. Diventa il carattere, diventa “l’umore che oggi vesto“, così come lo è un rossetto per una donna. Incornicia il viso donadandogli forza e creatività, per questo motivo Jacques Durand, mettendosi nei panni del consumatore, sceglie di rendere discreta la marcatura posta sotto le aste.

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La semplicità estetica si sposa con la complessità della lavorazione, incentrata totalmente sul massimo confort e sulla qualità – argomento cardine del marchio. Gli occhiali sono infatti di origine “made in France” o “made in Italy” e sono rivolti al mercato delle boutique di alta gamma

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Tra i personaggi di spicco che indossano gli occhiali Jacques Durand, troviamo Ryuichi Sakamoto, musicista, compositore e attore giapponese.

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Yellow wish list

Non c’è blu senza giallo e senza arancione, e se si aggiunge del blu,

bisogna aggiungere anche del giallo e dell’arancione.
Vincent van Gogh


E’ il giallo il colore tendenza di questa stagione. Il colore che illumina, il colore dello smile che accompagna i nostri messaggi, il colore dei girasoli di Van Gogh; lo ritroviamo sulla felpa SpongeBob proposta da Moschino, in versione fluo per lo smalto Givenchy, in giallo canarino per la bag firmata Manurina.

Differenti le sfumature del giallo, che tornano dal passato con la lampada-icona del designer canadese Verner Panton disegnata per l’albergo Astoria a Trondheim in Norvegia: la Topan VP6.

Moderno invece nel modello Chamomilla, frutto della collaborazione tra Lasvit e il moderno designer Philippe Starck. Chamomilla è un prezioso lampadario in vetro soffiato a mano dalle sfaccettature chiare e oro, oggetto di design, prezioso come un diamante.


1. MOSCHINO felpa SpongeBob


2. TOPAN VP6 lampada a sospensione gialla – &Tradition – € 192,00


3. Carta da parati


4. TOLIX CHAISE A PER INTERNI – GIALLO TXSEDIAV € 212,00


5. Arredo murale giallo Smile Maisons du monde  € 29,99


6. ALESSI – Atomium Portauovo – € 16,00


7. Iphone 5C giallo base € 429,00


8. IKEA STOCKHOLM Comodino, giallo € 79,90


9. MANURINA bag


10. MOSCHINO beachwear


11. Lampadario Chamomilla


12. LE VERNIS GIVENCHY –  € 20,00


13. Set di 2 bauli gialli € 59,99 – Maisons du monde

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Le borse di Veronica Bussolari

Originalità e minuzia artigianale sono le parole chiave delle creazioni Veronica Bussolari.

Veronica Bussolari, designer di borse, fa della propria passione un mestiere, e di un amore una collezione. L’amore è quello che la lega agli animali, maestosi, indomabili, selvaggi, forza della natura.

Sono gli elefanti, le tigri della Malesia che si trasformano in elaborate lavorazioni metalliche, frutto della collaborazione nata con il designer Massimiliano Della Monaca.

 

L’ecosostenibilità è un concetto assai caro a Veronica Bussolari che ridà vita a tessuti poveri quali la tela di juta, impreziosita da ricami fatti a mano e accostata all’elegante seta con fantasia a fiori per la borsa “Ruggine”, i cui manici sono stati realizzati in ferro arrugginito trattato.

 

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Borsa “Ruggine”

 

L’arte, come fonte d’ispirazione e stile di vita, ha fatto capolino nella “Nice” bag, una vera e propria opera incorniciata da lavorazioni in acciaio fissate meccanicamente. L’esterno è realizzato dal prezioso cavallino nero e l’interno è in seta nera con ricami bianchi, a sottolineare la cura onnipresente dei dettagli.

 

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Borsa “Nice”


Ma più di tutto sono i viaggi intorno al mondo che hanno spinto Veronica Bussolari a creare questi preziosi accessori, per riportare alla memoria le esperienze, i profumi, i colori di terre lontane e fissarle tra le mani di una donna, la donna che sceglie le sue borse, contenitore di oggetti e ricordi, donne che amano distinguersi, donne sognatrici, donne coraggiose che si spingono oltre l’oggetto “commerciale”, donne per cui la parola “unicità” è firma e riconoscimento.

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Veronica Bussolari


Gradiva le differenze: forse per questo viaggiò tanto.
Jorge Luis Borges

Borbonese collezione donna Autunno/Inverno 2015/16

BORBONESE COLLEZIONE DONNA AUTUNNO/INVERNO 2015/2016

L’eleganza e la storia Borbonese tornano per la stagione autunno/inverno 2015/16 con una linea di prêt-à-porter raffinata e di altissima qualità.


L’iconica bag Lady Butterfly viene riproposta in cocco, suède e serpente con una dimensione ridotta e più maneggevole; la stampa OP della maison è onnipresente a riconfermare l’autorità nel campo del lusso e dell’artigianalità.  Per questa collezione Borbonese prende ispirazione dai boschi misteriosi, dalle foglie che si dorano, dal calore dei colori autunnali, dalla luce che dagli alberi filtra rendendo brillante tutto ciò che tocca. Ma il brand non rinuncia al colore forte, deciso che spazia dal ciliegia all’ocra, per raggiungere una clientela più glam e giovane.


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Borbonese arricchisce la sua collezione con una linea di abbigliamento “real life”, un prêt-à-porter ricco di atmosfere, dettagli, tratti importanti, dal cavallino declinato su gilet grintosi agli accoglienti e morbidi maglioni in lapin trattati con effetto cocco o treccia, dai cappotti over in montone alle soffici sciarpe in mongolia.

Per una donna rock, Borbonese propone tagli maschili per i pantaloni, giacchini in velluto, bracciali in pelle con borchiette e in abbinato ballerine rosse con borchie in metallo.

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Ma l’abilità artigianale di Borbonese stupisce con la collezione di bijoux in quarzo nuvoloso e giada, perline in anice, bracciali con la fantasia OP, heritage della casa.
Produzione rigorosamente made in Italy, per un marchio che oggi crea un total look che conferisce eleganza e gusto a chi lo indossa.

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Foto Miriam De Nicolo’

La moda fatta di HORO 24 kt.

Lo indossiamo come gioiello, lo assaggiamo nel risotto speciale del maestro Gualtiero Marchesi ed oggi, per la prima volta nella storia, lo ritroviamo su jeans e t-shirt: stiamo parlando dell’oro 24 kt.


Il creativo brand HORO, creato da Luca Micco, ha brevettato un metodo che fonde oro puro con altri metalli preziosi come il platino, l’oro rosa e l’oro viola su stampe e tessuti. Il risultato è un indumento-gioiello, un capo unico che indossiamo come una fede, promessa di un sogno che diventa realtà.

HORO è infatti l’unico brand al mondo che realizza capi con stampe in oro 24 kt., e che dall’atelier astigiano ha raggiunto le boutique di  Parigi, Mosca, San Pietroburgo, Hong Kong, Tokyo, Londra.

In occasione della Milano Moda Donna 2015, HORO ha presentato la collezione “Gold Denim Collection”: otto modelli donna e sei modelli uomo in 3 diverse vestibilità skinny, regular e boyfriend, proposti in due lavaggi: carbon black e deep blue. Jeans “sporcati” d’oro, il massimo del lusso per un capo che possiamo indossare quotidianamente.


 

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La fotografia di Franco Fontana

Franco Fontana, classe 1933, è uno dei maestri della fotografia italiana ed è un autore quotato sul mercato della fine art internazionale.

Ha all’attivo la pubblicazione di oltre 40 libri fotografici e mostre nei musei più prestigiosi del mondo; la fotografia di Franco Fontana è pittura, è composizione e geometria con un uso del colore esplosivo, brillante, una scelta stilistica che è la sua firma.

Le linee sono ben distinte, i tratti netti, le figure paesaggistiche diventano degli spazi riempiti da colore con contrasti definiti, che alle volte ricordano i quadri di De Chirico.

Quando Fontana sposta il soggetto sulla figura umana, anche i singoli dettagli, un piede, un sedere, un seno, si trasformano in curve e figure geometriche.

Qui una carrellata di immagini:

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Star Wars: Lord Fener, il Padre Oscuro

Durante la sua prima comparsa, Darth Fener appare come l’antagonista per eccellenza. Ne ha tutti i connotati: un vestito nero, con una corazza a cui è attaccato un respiratore; un elmo che ricorda quelli dei samurai e dei toni minacciosi, prima nei confronti dell’equipaggio dell’astronave in cui le truppe imperiali si sono insediate, e poi quando incontra Leila Organa. Darth Fener vuole i piani della Morte Nera, la terribile arma che l’Impero utilizzerebbe per disintegrare un intero pianeta. E lui sa che Leila fa parte della cospirazione ribelle e che sa dove sono quei piani. Ma Leila si rifiuta di parlare, nega, e lui ordina alle sue truppe di portarla via. È questo l’inizio di Guerre Stellari, il primo tassello di quella che sarebbe diventata una delle saghe cinematografiche più famose in assoluto, Star Wars, opera colossale firmata da George Lucas. Il quale, con un certo spirito di protezione, avrebbe difeso il suo prodotto rifiutando l’Universo Espanso (ora sotto l’etichetta Star Wars Legends) e tutto ciò che da esso ne è stato derivato: libri, fumetti, videogiochi. Perché i sei film di Star Wars non sarebbero sufficienti per raccontare una storia che si propaga lungo diversi millenni.


Darth Fener è il vero, grande protagonista di Star Wars, insieme a suo figlio Luke: «Star Wars è la storia di Anakin e Luke Skywalker», ha detto George Lucas, «quando Luke salva la Galassia e redime suo padre, la storia è finita: qualunque cosa sia stata scritta dopo, non riguarda il cuore di Star Wars.» Una storia di ascesa, caduta e redenzione attraverso i figli (Luke e Leila), dovuta a un amore impossibile (quello per Padme Amidala, sviluppato però nella Nuova Trilogia) e al lento avvicinamento al cuore del male, il Lato Oscuro, per mano del Cancelliere Palpatine, diventato poi il Signore dei Sith, l’Imperatore Darth Sidious. Ma l’incipit di Guerre Stellari sembra portare da tutt’altra parte. Non a caso, dopo la fuga dei due droni, C1-P8 (o R2-D2) e C-3PO, verso il pianeta di Tatooine – dove incontreranno prima Obi-Wan Kenobi e poi Luke Skywalker –, Darth Fener non compare più, finché non lo ritroviamo in una riunione con i capi dell’esercito imperiale, in cui si dice che l’imperatore ha sciolto il consiglio definitivamente e che della vecchia Repubblica non è rimasto più niente. I sistemi locali sono tenuti in pugno dalla paura, la paura per la grande arma dell’Impero, la Morte Nera. Ma Darth Fener – o Lord Fener – crede che la Forza sia ancora più letale: «L’abilità di distruggere un pianeta è insignificante di fronte alla potenza della Forza», dice.


È necessario comunque scoprire l’ubicazione della base ribelle segreta. E per farlo bisogna interrogare Leila, prigioniera dell’Impero. Darth Fener cerca allora di convincerla a parlare utilizzando una sonda mentale. Ma di fronte al mutismo della principessa, le truppe imperiali decidono di fare rotta per Alderaan, il pianeta natale di Leila, minacciando di distruggerlo. Ad Alderaan si erano diretti anche Luke Skywalker e il vecchio Obi-Wan Kenobi, che avevano scoperto nel pianeta Tatooine il messaggio lasciato da Leila nel drone R2-D2 e si erano diretti lì per far apprendere a Luke la dottrina Jedi. Luke aveva deciso di seguire Obi-Wan anche dopo che questi gli aveva rivelato la tragica scomparsa di suo padre, Anakin Skywalker, uno Jedi esemplare ucciso proprio da Darth Fener. È inevitabile che le vicende parallele di Luke e di Darth Fener finiscano per intersecarsi, ma non prima dell’epico scontro tra Obi-Wan, l’ultimo Jedi, e il malvagio Sith. «Quando ti ho lasciato non ero che un discepolo», dice Darth Fener a Obi-Wan, che ha già pronta la mitica spada laser Jedi. «Ora sono io il maestro.» «Solo il maestro del Male» risponde Obi-Wan. Lo scontro si conclude a favore del Sith, ma Obi-Wan si è sacrificato soltanto per permettere a Luke e Leila di fuggire.


Il primo episodio – in ordine di apparizione nelle sale – apre solo qualche squarcio sul passato di Darth Fener. Quel tanto che basta per lasciar intendere un tradimento ai danni degli Jedi per sposare la causa dei Sith. Non si spiega come né perché. Ma tutto diventa più chiaro nel film successivo, L’impero colpisce ancora, in cui più di una volta Darth Fener si lascia tentare dal Bene, proprio come in passato si era lasciato tentare dal Male. È qui che facciamo conoscenza di un altro personaggio fondamentale, l’Imperatore Darth Sidious, l’unico da cui Darth Fener prende ordini. L’Imperatore ha percepito la presenza di un’interferenza nella Forza, provocata dalla crescita di Luke, che sta per essere addestrato dal Maestro Yoda. «Abbiamo un nuovo nemico» dice l’Imperatore. «Il giovane ribelle che ha distrutto la Morte Nera. E io sono assolutamente convinto che questo ragazzo è figlio di Anakin Skywalker.»


«Come è possibile?» domanda Darth Fener. Lui sa qualcosa che riguarda la nascita di Luke. Qualcosa che, in teoria, avrebbe dovuto impedirne la nascita. L’Imperatore prosegue: «Cerca dentro di te, Lord Fener. Cerca e saprai che è vero. Egli può distruggerci.» A questo punto Darth Fener diventa diplomatico, e così, invece di accettare l’ordine implicito dell’Imperatore e di uccidere Luke, risponde: «È solo un ragazzo. Obi-Wan non può più aiutarlo», per poi proporre all’Imperatore di convertire l’apprendista Jedi alla religione del Male. Darth Fener lo definisce «un potente alleato», l’Imperatore «una grande risorsa.» La prospettiva di incontrare Luke provoca in Darth Fener qualcosa, un nuovo stimolo, una nuova luce. È l’idea di diventare ancora più potente, di ritrovarselo come alleato, di non avere più alcun rivale. È chiaro che prima del momento più eclatante di tutta la Trilogia Originaria, la rivelazione dell’alter-ego di Darth Fener, tutto rimane in sospeso e le prospettive che anche Luke ceda alla seduzione del Lato Oscuro sono tutt’altro che da escludere. Ma soprattutto, c’è un’altra prospettiva che giunge nella mente di Darth Fener: non doversi più inchinare all’Imperatore ma essere il numero uno di tutta la Galassia.


È questa la proposta che fa a Luke: governare la Galassia in due, padre e figlio. E quando Luke si mostra incredulo, di fronte all’agnizione («Io sono tuo padre»), Darth Fener usa quasi le stesse parole dell’Imperatore: «Cerca dentro di te. Tu sai che è vero.» Cercare dentro se stessi vuol dire guardare nel proprio inconscio. Secondo le teorie freudiane, la personalità è frammentata in tre livelli, Es, Io e Super-Io e l’Es comprende l’istinto all’eros e al thanatos, l’amore e la morte. Applicando questa definizione in Star Wars, tutto è chiaro: l’amore impossibile per Padme aveva condotto Anakin Skywalker verso la perdizione, verso il Lato Oscuro, ovvero verso una predominanza dell’Es. Ma nel caso di Luke, non essendoci la seduzione di eros, non può esserci nemmeno thanatos. La conseguenza è la ribellione a quel padre oscuro (Darth Vader richiama infatti “dark father”) che Luke vorrebbe rinnegare. Eppure, nel Ritorno dello Jedi, dopo aver rivelato a Leila ciò che lo lega davvero a Darth Fener, Luke dice: «C’è del buono in lui.»


Altro richiamo: Yin e Yang, due opposti che non si possono separare. Tradotti alla lettera, “yin” è “il lato in ombra della collina” (Lato Oscuro, rappresentato dai Sith) e “yang” è “il lato soleggiato della collina” (Lato Chiaro, rappresentato dai Jedi). È per questo che, nonostante la vocazione al Male, in Darth Fener, nel padre oscuro, esiste ancora un po’ di buono, proprio come al momento della sua ascesa a signore dei Sith il Lato Oscuro, all’opposto, tendeva a emergere grazie alla rabbia, la violenza e la paura. Luke si consegna quindi a Darth Fener e per la prima volta lo chiama “padre”.


«Allora, hai accettato la verità?» gli chiede Darth Fener.
«Ho accettato la verità che tu una volta eri Anakin Skywalker, mio padre.»
«Quel nome non ha più alcun significato per me.»
«Quello è il nome del tuo vero Io, l’hai solo dimenticato. So che c’è del buono in te: l’Imperatore non è riuscito del tutto a privartene.»


Questi scambi di battute si ricollegano alle teorie freudiane succitate (l’Es che ha prevalso sull’Io) nonché al concetto di Yin e Yang. Ma quando l’Imperatore, che ha cercato invano di convincere Luke a convertirsi al Lato Oscuro, sta per uccidere il giovane Jedi, ecco che l’Io originario e il Lato Chiaro della Forza tornano a prevalere sull’Es: la vista del figlio e la sua distruzione sono una prospettiva che Darth Fener non può accettare, di qui la sua ribellione e il conseguente tirannicidio. L’alter-ego di Darth Fener è tornato a brillare e Anakin Skywalker è di nuovo vivo. E quando gli toglie la maschera che lo aveva trasformato da uomo in cyborg, Luke vorrebbe salvarlo, ma lui risponde soltanto: «Lo hai già fatto, Luke. Avevi ragione nei miei riguardi. Di’ a tua sorella che avevi ragione.» Spira dopo aver ritrovato il proprio Io, oltre che il figlio perduto, e queste saranno le sue ultime parole. Nella scena conclusiva del Ritorno dello Jedi, Luke dà fuoco alle spoglie di colui che un tempo era il padre oscuro e che, prima di morire, si è liberato: le fiamme avvolgono il corpo di Anakin Skywalker proprio come secondo l’usanza greca. Ma durante i festeggiamenti degli Ewok per la liberazione dall’Imperatore, Luke vede le tre anime che lo hanno aiutato a ristabilire l’equilibrio nella Forza: Obi-Wan Kenobi, che gli aveva dato la spada Jedi di suo padre; il Maestro Yoda, che lo aveva fatto diventare un cavaliere Jedi; e infine rivede il giovane Anakin Skywalker, suo padre, anche lui di nuovo in pace con la Forza ma soprattutto con il proprio vero Io.


FONTE: http://www.guerrestellari.net/athenaeum/pers_menututti_menuanakin_tenta.html

Falcone, un patriota siciliano

Un libro prezioso quello di Giannicola Sinisi che ricostruisce i rapporti tra Falcone e i suoi colleghi americani, giudici e agenti del FBI, attraverso lo studio dei documenti finora secretati inviati a Washington dall’Ambasciata di Roma … gli americani avevano una stima sconfinata di Falcone non solo per quel che faceva a Palermo ma per il contributo decisivo che dava anche alla loro lotta contro Cosa Nostra … ed erano molto preoccupati che i magistrati italiani passassero più tempo a combattere Falcone che a combattere la mafia.


Le relazioni tra Italia e Stati Uniti, soprattutto nel periodo della guerra fredda e, dunque, fino alla caduta dei muri nel 1989, sono spesso circondate da un alone di mistero, da un’aura di sospetti e da una nebbia di pregiudizi che si ispessiscono e si oscurano o si schiariscono a seconda delle prospettive e delle interpretazioni. A questa regola non sfuggono neppure i rapporti tra Giovanni Falcone e le autorità americane impegnate sullo stesso fronte del contrasto alla criminalità organizzata che chiamano causa il FBI, il Dipartimento di giustizia e quello di Stato (equivalente del nostro Ministero degli Esteri) sul versante americano, Falcone, i suoi collaboratori e i suoi amici e nemici, che si tratti di politici, di magistrati e di giornalisti su quello italiano. Così, non sono mancati coloro che, da parte italiana, videro in questi rapporti di Falcone con le autorità americane uno dei tanti esempi di soggezione – se non di servilismo – nei confronti del principale e più forte alleato e coloro che, al contrario, vi scorsero motivi per una celebrazione della collaborazione giudiziaria e politica tra Italia e Stati Uniti.

Quantomai opportuna giunge perciò la pubblicazione del libro Un patriota siciliano di Giannicola Sinisi che di Falcone fu stretto collaboratore nel periodo in cui questi lavorò come direttore degli
affari penali al ministero della giustizia. L’autore, a suo tempo, potè giovarsi della fiducia e della familiarità professionale di Giovanni Falcone, mentre, di recente, ha potuto finalmente accedere a documenti a lungo secretati in quanto “classificati” nel lessico dei servizi di intelligence e del Dipartimento di Stato americano. Si tratta di cablogrammi e scambi epistolari che registrano le comunicazioni degli ambasciatori e dell’Ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato nel periodo in cui si succedettero gli ambasciatori Maxwell Raab e Peter Secchia, fino a lambire l’arrivo e l’avvicendamento con Donald Bartholemew.


Che Falcone godesse della stima di ambienti americani – funzionari del FBI e dirigenti del Dipartimento di Giustizia – come di singoli giudici e procuratori, era cosa abbastanza nota. Molto meno noto il fatto che gli americani considerassero Falcone non soltanto come il leader del Pool antimafia, dunque come il vero protagonista, motore e ispiratore della strategia antimafiosa impostata a Palermo, ma anche come un collaboratore fondamentale per la loro lotta alla Cosa Nostra americana, a partire dalla celebrata operazione detta “Pizza connection” all’altra, non meno importante ma meno celebre, detta “Iron Tower”. Sulla base di queste esperienze si sviluppò un rapporto di collaborazione e di fiducia concretatosi nello scambio continuo di informazioni e di aggiornamenti non solo su singole inchieste e su singoli personaggi, ma una vera e propria rete di conoscenze e di relazioni comuni, a diversi livelli. Rete fecondissima nel produrre azioni e risultati di contrasto alla Cosa Nostra che, purtroppo, per prima e da tempo agiva sulle due sponde dell’Atlantico, ricavando dalla sua internazionalità enormi possibilità criminali, vantaggi e profitti legati soprattutto al narco traffico. Ciò spiega non soltanto l’interesse, ma la vera e propria partecipazione con la quale gli americani seguivano i progressi delle indagini di Giovanni Falcone sulla Cosa Nostra siciliana. Non si trattava soltanto di adesione e di simpatia per un collega e per un amico. Il punto è che gli americani sapevano di poter ricavare dal lavoro di Falcone informazioni, notizie, stimoli utili anche alle loro indagini.
Agli esempi più noti di collaborazione “atlantica” narrati nel libro aggiungo i tratti essenziali di una vicenda che mi colpì molto e che mi fu raccontata dallo stesso Giovanni.


Intercettando conversazioni telefoniche tra boss palermitani e boss americani di New York e del New Jersey, Falcone apprese dalla loro viva voce che questi ultimi chiedevano agli amici, ai parenti, ai compari palermitani di inviare nuove reclute, “soldati di sangue nostro, sangue siciliano” per reagire all’inquinamento creato tra le fila della Cosa nostra americana dal reclutamento di criminali di scarso spessore e di scarso affidamento provenienti da etnie diverse con costumi e regole meno rigide di quelle proprie e comuni alla Cosa nostra americana e a quella siciliana. Ristabilire con il primato siculo americano le regole omertose e l’affidamento professionale alterati da troppe reclute di etnie diverse era l’intento dei boss americani e a loro i fratelli siciliani prontamente prestarono soccorso. Falcone informò i colleghi americani sicché le giovani reclute e i nuovi soldati che dovevano rinsanguare la Cosa Nostra americana, imbarcati a Palermo, appena sbarcati negli aeroporti americani trovarono ad attenderli i confratelli mafiosi, e gli uni e gli altri vennero immediatamente presi in cura dal FBI.
La fiducia che si instaurò, fortificata da tante prove affrontate insieme sui campi di battaglia, spiega come mai gli americani seguissero con tanto interesse non solo i progressi di Falcone nelle sue indagini a Palermo e in Sicilia, ma – e si tratta di uno dei contributi più originali del libro di Sinisi – la partecipazione con cui analizzarono e commentarono anche le vicende interne alla magistratura palermitana e i conflitti che insorsero tra Falcone e quelli tra i suoi colleghi che lo contrastavano o perché vittime di approcci giuridici obsoleti o perché animati da gelosie, da rivalità e da risentimenti spesso legati a questioni di carriera. E si comprende altresì – osserva Giannicola Sinisi – che in America l’assassinio di Giovanni Falcone venne avvertito “come un attacco interno, una lesione e una minaccia agli sforzi che in quegli anni gli Stati Uniti stavano compiendo con notevoli risultati sul fronte del contrasto al crimine organizzato”.


La preziosa ricostruzione di Un patriota siciliano, pur scontando l’indisponibilità di una parte dei materiali ancora “classificati” cioè coperti da segreto, ci aiuta non solo a comprendere il punto di vista americano, ma a gettare nuova luce su ciò che effettivamente pensava Falcone circa alcune tra le più controverse e delicate vicende di casa nostra, e sul ruolo di diversi protagonisti.
Per esempio, gli avversari di Falcone, ma non solo loro, non gli perdonavano di aver accettato di lavorare al mio fianco al Ministero di Grazia e Giustizia nel governo Andreotti il più coriaceo e il più chiacchierato dei politici democristiani. Ebbene, ai suoi amici
americani Falcone dichiara la sua certezza circa “il sostegno senza riserve” di Martelli e quanto ai sospetti legami di Andreotti con la mafia replica: “ Andreotti può aver peccato per omissione non per commissione”.


Come è noto la guerra sul fronte dell’antimafia giudiziaria deflagra quando il Consiglio Superiore della Magistratura sceglie, come successore di Caponetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, anziché il candidato naturale, cioè Giovanni Falcone, il più anziano Antonino Meli. In questo modo – osservò Paolo Borsellino – diventava titolare della pubblica accusa nel maxi processo ormai alla prova di appello “ .. uno che al maxi-processo a Cosa Nostra non ci credeva”. Le conseguenze furono devastanti. E’ sempre Borsellino a commentare amaramente: “Cosa nostra si è riorganizzata come prima più di prima. La polizia non fa indagini, le iniziative sono frantumate in mille rivoli, il pool smantellato, non c’è più alcun coordinamento …”


In effetti, può sembrare incredibile ma la verità è che l’anno dopo la celebrazione del maxi processo – la prima grande sconfitta di Cosa nostra in un’aula di giustizia – il principale protagonista, Falcone appunto, anziché essere premiato veniva accantonato ed emarginato anche a seguito di “infami calunnie e di una campagna denigratoria di infinita bassezza” – si pensi in particolare alle lettere del cosiddetto “Corvo”. Falcone denuncia questo clima mefitico con una lettera al CSM e si dimette dall’Ufficio Istruzione.


Il 3 agosto di quello stesso 1988 l’ambasciatore americano a Roma,Maxwell Raab, in un cablogramma al Dipartimento di Stato americano lancia l’allarme: ”Se il comitato dell’antimafia del CSM ha sostenuto Meli nell’intento di abbandonare il metodo del pool per combattere la mafia, lo sforzo antimafia italiano potrebbe essere seriamente danneggiato e gli interessi degli Stati Uniti seriamente messi in pericolo”. Le stesse fonti diplomatiche riferiscono che nell’Ufficio palermitano pendevano numerose rogatorie per l’acquisizione di prove determinanti in processi importantissimi in corso di celebrazione a New York e a Washington. In particolare, “ .. nella più importante inchiesta avviata dai nostri due paesi l’allontanamento di Falcone potrebbe comportare la fine dell’inchiesta stessa .. Falcone è il giudice più esperto e più informato .. Falcone è il pool e il pool lo segue (is beyond him)”.


Viceversa “il piano Meli” veniva giudicato come un modo di smantellare il pool e di neutralizzare Falcone. Non dimentichiamoci che l’anno precedente, all’indomani del clamoroso successo dell’inchiesta congiunta sul narco traffico – la Pizza Connection -, Falcone era stato invitato a parlare al Congresso degli Stati Uniti. Onore senza precedenti mai riconosciutogli in Italia. Ma l’ambasciatore americano non si limita a informare i suoi superiori a Washington. Maxwell Raab, determinato a reagire, chiede udienza al Presidente della Repubblica italiano e gli manifesta la sua angoscia. Francesco Cossiga prende la questione a cuore, affronta il CSM di cui è presidente e ne contesta le scelte con tanta energia da costringerlo a una mezza retromarcia. Le dimissioni di Falcone vengono respinte e il presunto Corvo, cioè il magistrato Di Pisa, ma anche, con salomonica ipocrisia, Giuseppe Ayala stretto collaboratore di Falcone, vengono trasferiti da Palermo. In Italia la retromarcia del CSM dai più viene interpretata come una vittoria di Falcone. Molto più cauta e caustica l’interpretazione americana: “ .. i giudici antimafia italiani spendono più tempo a combattersi tra di loro che a combattere la mafia”. Del resto, ancor più severo fu il giudizio di Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia che, più unico che raro tra i comunisti ( ma i democristiani non erano da meno), non fece mai mancare il suo sostegno prima a Falcone e, poi, anche a me e al ministro degli interni Scotti. “Il CSM – scrive Chiaromonte – che ha pesanti responsabilità per la situazione del Palazzo di Giustizia di Palermo, assume una decisione che non esito a definire vergognosa. Un colpo al cerchio e uno alla botte .. A Palermo ho sentito dirigenti democristiani e comunisti dire su Falcone cose infami.”


In quello stesso periodo entrava in vigore il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli, che nelle intenzioni, superando il processo di tipo inquisitorio, intendeva introdurre in Italia il processo di tipo accusatorio, cioè il processo “all’americana, nello stile Perry Mason” come allora si diceva. A parte il divertito commento sulla circostanza che un serial televisivo diventava in Italia modello di una riforma della giustizia, l’ambasciata americana, evidentemente informata dell’impreparazione complessiva della nostra organizzazione legale e giudiziaria nell’imminenza di una riforma di tale portata, senza giri di parole, previde acutamente che “ne deriverà il caos”. Analogamente si era espresso Falcone preoccupato per i processi di mafia impostati col vecchio rito processuale che ora dovevano transitare al nuovo.


Anche la fase terminale dell’esperienza umana e professionale di Falcone, quella che lo impegnò come direttore degli affari penali al ministero della giustizia, trova precisi riscontri
nelle comunicazioni dell’ambasciata retta dal nuovo ambasciatore Peter Secchia. L’autore ha qui potuto giovarsi non solo delle carte de- secretate, ma della sua diretta esperienza al fianco di Falcone che l’aveva voluto con se.


Ma veniamo a un altro punto. A differenza di quel che molti – compreso l’autore di questo prezioso libro – dissero e continuano a dire, Falcone non “inventò e ispirò il modello della super procura antimafia”. Né la inventammo io o Vincenzo Scotti al tempo, rispettivamente, Ministro della Giustizia e Ministro degli Interni. La verità, come ho sempre detto, è che ne trassi ispirazione da una vecchia proposta del senatore Leo Valiani trovata tra le carte della Commissione Parlamentare Antimafia e rimasta per anni nei cassetti di quella commissione. Leo Valiani si era ispirato al modello del FBI americano e, forse anche per questo, la sua idea rimase lettera morta. Naturalmente il lavoro di trasposizione da un ordinamento, come quello americano, in cui il Ministro della Giustizia è contemporaneamente Attorney General (Procuratore Generale) che dispone del Federal Bureau of Investigation con i suoi agenti e i suoi procuratori, a quello italiano fondato sulla più rigida separazione tra esecutivo e giudiziario fu tutt’altro che semplice. L’unica soluzione possibile, alla quale collaborò con la sua cultura giuridica un grande magistrato come Loris D’Ambrosio in servizio al ministero, fu quella di istituire due strutture parallele e cooperanti. Una struttura di coordinamento dell’intelligence delle tre diverse polizie italiane (Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza) che chiamammo Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e una struttura nazionale di coordinamento dei pool distrettuali antimafia denominata Direzione Nazionale Antimafia (DNA), la cosiddetta Super Procura.
Dopo l’agitazione dell’Associazione Nazionale Magistrati che pochi mesi prima aveva indetto uno sciopero nazionale contro l’istituzione della Superprocura anche il CSM, ancora una volta, si mise di traverso e, anziché Falcone che io avevo candidato al ruolo di Procuratore Nazionale, scelse Agostino Cordova, procuratore a Palmi. Con il potere di dare o negare il concerto del Ministro alle nomine del CSM – potere che mi derivava dalla Costituzione e dalle leggi – bloccai la procedura, convinto che alla fine l’avrei spuntata e Falcone sarebbe diventato Procuratore Nazionale Antimafia.


Invece ci fu la strage di Capaci.


Il massacro di Falcone e della sua scorta ebbe un’eco immensa e in tutto il mondo fu vissuto come la più spaventosa delle tragedie dell’ingiustizia. L’Italia era squarciata, squarciata come quell’autostrada. Mi strinsi accanto i magistrati che più direttamente lavoravano con me al ministero, quelli che avevamo scelto io e Falcone e quelli, da Ilda Boccassini a Sergio Turone, che si offrirono di impegnarsi concorrendo con la loro professionalità e la loro passione civile a dare sostanza investigativa alla reazione dello Stato. Dovevamo reagire e sapemmo reagire, guidando e organizzando la risposta dello Stato, decretando con urgenza misure straordinarie. Ai provvedimenti e alle iniziative che avevamo impostato con Falcone ne aggiungemmo di nuove a cominciare dal 41bis nelle carceri e dall’invio dell’esercito a presidiare gli obiettivi sensibili anche per liberare le forze di polizia da questi compiti di modo che si potessero dedicare totalmente alle indagini.


Già all’indomani della strage ci era stata offerta totale collaborazione dal FBI e dal suo direttore, William Sessions. Lui e i suoi uomini vennero a Palermo offrendo collaborazione totale alle indagini sull’assassinio di un giudice che in America era stimato senza riserve, dunque assai più che da molti suoi colleghi magistrati italiani come da tanti politici e giornalisti. Gli uomini del FBI furono prodighi di assistenza tecnica e di consigli, sia in merito alle indagini, sia in in ordine ai provvedimenti da adottare in analogia con il RICO, la legislazione antimafia USA che come quella italiana prevede l’isolamento in carcere dei detenuti mafiosi che costituiscano un pericolo.
Grazie a un’intuizione di Sergio Restelli, mio amico e mio collaboratore al Ministero della Giustizia, affidai al FBI il compito di ricostruire il DNA dei killer, analizzando le tracce organiche rinvenute sui mozziconi di sigarette abbandonati là dove si era appostato il commando dei mafiosi terroristi che azionò timer della deflagrazione. Al tempo gli uffici giudiziari italiani non erano attrezzati per questo genere di indagine scientifica. Gli americani intercettarono anche brandelli delle conversazioni tra uomini della Cosa Nostra americana e di quella siciliana che commentavano con lugubre euforia “l’attentatuni” di Capaci.


I siciliani e tutti gli italiani non devono dimenticare chi è stato Giovanni Falcone e cosa ha fatto per loro e per tutti, e non devono dimenticare chi, uccidendolo, ha rinnegato ogni umanità. Uomini e donne comuni, magistrati e poliziotti, politici e giornalisti in America e in Giappone, in Francia e in Germania come in Oceania lo ricordano per le prove del suo genio e del suo coraggio. Grazie a lui tanti si sono sentiti orgogliosi di essere italiani e tanti siciliani hanno riscattato, con l’amor proprio, l’orgoglio della propria identità.


Non è difficile capire perché: Giovanni Falcone ha reso la lotta alla mafia più popolare della mafia. Giovanni è l’anti-padrino, l’eroe vero, un patriota siciliano.
Il libro di Giannicola Sinisi, un magistrato che molto ha imparato dal suo maestro Falcone, contribuirà, ne sono certo, a ristabilire molte verità dimenticate perché scomode e a fondare una conoscenze più ampia e meglio documentata della sua opera e della sua figura.

Eleganza dandy per la notte

Eccentrico, elegante, intellettuale, snob, nostalgico, sprezzante, superiore, esteta, anticonformista, indifferente, raffinato, questi gli ingredienti del dandy dal lontano ‘ 700 ad oggi.

Il dandy, il cui motto è “vivere la vita come fosse un’opera d’arte” è il ricercatore dell’estrema eleganza e perfezione, dall’atteggiamento allo stile di vita, dal culto dell’intelletto alla cura nel vestire.


Oscar Wilde, Charles Baudelaire, il conte Montesquiou de Fezensac, Gabriele D’Annunzio e primo tra tutti George Bryan Brummel, i dandy più famosi della storia. Fu proprio il lord George Bryan Brummel detto “il bello” ad istituire la moda del “dandy”, inserendo l’uso dei pantaloni lunghi a tubo, delle giacche da frac, delle cravatte bianche inamidate e delle vestaglie e giacche da camera. Non solo eleganza in società quindi, ma cura e ricerca estetica anche per la notte, la stessa cura che il brand Villa Delmitia valorizza per portare il lusso all’interno di casa.

Le collezioni Villa Delmitia sono destinate ad un pubblico esigente e ad una clientela dai gusti classici e raffinati. Capi destinati ad importanti brand quali Lanvin, Louis Vuitton, Christian Dior, Hermes.


Villa Delmitia utilizza materiali nobili quali la seta ed il cashmere ed è presente non solo in Europa ma in USA e Russia.

Il modo di vestirsi è la rappresentazione esteriore della nostra filosofia della vita.” Charles Baudelaire

Qui i capi Villa Delmitia:


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Robert de Montesquiou
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Oscar Wilde