Intervista a LUCA ARGENTERO: L’ANTIDIVO CHE NON TI ASPETTI

Luca Argentero ovvero il divo italiano della porta accanto. Perché ti capita di guardare una sfilata o un evento mondano e lo vedi comparire al fianco di vip del calibro di Leonardo di Caprio, Tom Cruise o Cate Blanchett e la suggestione è immediata.

Un giorno fortunato succede però che hai il privilegio di intervistarlo e così, a tu per tu, scopri come “semplicità” e “gentilezza” siano le parole che più gli si addicono nonostante gli oltre 20 film girati e una carriera in continua ascesa.

Luca sei reduce da un film nelle sale “Noi e la Giulia” e uno appena terminato di girare. Come è andata?

“Sì, ho appena terminato questa commedia romantica alla “Harry ti presento Sally” (che tra le altre citiamo proprio nel film). E’ la storia d’amore tra un terapista di coppia ed un avvocato divorzista che all’inizio della vicenda continuano a litigare ma che alla fine si innamorano. Come sempre l’amore vince!”.

Commedie e fiction, in base a cosa scegli un copione?

“La risposta potrebbe essere una sorta di fraintendimento nel senso che, pur avendo la fortuna di lavorare con una certa continuità, devo ammettere che in questo periodo nel nostro settore l’offerta non è poi così alta. Quindi l’impossibilità di scegliere ti mette un po’ in condizioni di affidarti alla fortuna e dire pochi no”.

Tu ne hai mai detti nella tua carriera?

“No, forse sarà perché faccio sempre cose che mi fanno divertire. Questo è il segreto. Anche se in effetti spesso sono impegni di diversa natura come cinema, teatro o televisione. Su quest’ultima amici che gravitano nel mondo del cinema o “addetti ai lavori” mi hanno sempre consigliato di non farne, ma come dicevo prima quando mi coinvolgono in un lavoro che mi piace mi dico sempre: perché no? Credo che a volte ci si prenda un po’ troppo sul serio e questo rappresenta un grande limite”.

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Cosa ti piace della televisione?

“Secondo me è ancora oggi lo strumento con il quale ci si avvicina alle persone. Se il cinema è una scelta precisa ovvero devi prendere un biglietto ed uscire di casa, la tv fa l’opposto e ti permette anche di convincere una persona a venirti a vedere al cinema. Quindi indirettamente ha dei vantaggi non indifferenti”.

A proposito di cinema, dal 2006 ad oggi 20 film. Quale ti è rimasto nel cuore?

“Una domanda da un milione di dollari, è come chiedere ad un papà qual è il figlio preferito. Forse, dovendo proprio scegliere, per affetto, per il personaggio e per dove è stato girato dico –Solo un padre– “.

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Hai sempre sognato di fare questo mestiere?

“No, nonostante la mia passione per il cinema. Ai tempi facevo il barman per 50 euro a serata, mi dissero che con il Grande Fratello avrei racimolato parecchi soldi e così vi partecipai, ma senza grandi aspettative. Ed invece, eccomi qui…”


Insieme a tua moglie Miriam Catania, hai fondato anche la casa di produzione Inside Production. Una scelta coraggiosa di questi tempi: come sta andando?

“Conseguenza della passione per questo lavoro direi. Sono affascinato da tutto ciò che sta dietro la macchina da presa, il set, la troupe, l’idea di investire tempo ed energia su di una storia, non tanto dal risultato finanziario ottenuto a fine anno. Ognuno ha le sue passioni chi il calcio, chi le macchine sportive: io produco documentari. E l’auto neanche l’ho (ride)”.

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Quando ti rivedi in un film che pensi?

“Lo devo guardare più volte: la prima penso a un sacco di cose, tipo cosa è successo il giorno che ho girato quella scena, se potevo farla meglio o anche solo ai dettagli come il perché ho alzato il braccio sinistro e non il destro. Dopo due/tre volte, forse, lo gusto da spettatore”.

Una domanda più “rosa” per le nostre lettrici: come hai conquistato tua moglie?

“In reatà ha fatto tutto lei, è una ragazza intraprendente! Scherzi a parte, anche io ci ho messo del mio, anche se è stato un po’ un amore a prima vista e, infatti, ci siamo subito fidanzati e dopo tre mesi vivevamo già insieme”.

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Il segreto della vostra unione è…

“Non vederci tanto?!!!No scherzo, anche se un fondo di verità c’è perché la nostra vita è così movimentata che spesso non ci vediamo per giorni. Ma poi l’entusiasmo di ritrovarci e parlare di tutto non ha prezzo. Questo è il nostro modo di vivere: perdersi per poi ritrovarsi”.


Oltre a lavoro e vita di coppia sei attivo anche nel sociale con Un CaffèOnlus. Di cosa si tratta?

“Dopo tanti anni in cui mi chiedevano di aderire a gruppi come Save the Cildren o Amnesty ho pensato che, nonostante l’importanza delle loro azioni, avrei preferito portare avanti un’iniziativa più “tarata” su territorio. Ecco perché con un gruppo di amici storici di Torino abbiamo riadattato in modalità sociale l’abitudine napoletana di lasciare un caffè pagato, declinandola però su coloro che davvero ne hanno bisogno come famiglie, anziani del territorio. Quindi noi cosa facciamo? Offriamo un caffè ogni giorno e poi invitiamo le persone ad aiutarci. Un piccolo importante gesto quotidiano!”

Tornando al cinema, c’ è un modello al quale ti ispiri?

“Non ne ho uno in particolare ma cerco di cogliere da tutti qualche sfaccettatura interessante, anche in relazione al tipo di film che devo girare. Posso passare da attori come Jack Lemmon, per i film anni ’60 a Kim Rossi Stuart, il più bravo attore della nostra generazione”.

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Tra i film girati hai anche lavorato al fianco della grande Julia Roberts in “Mangia, prega, ama”. Com’è stato?

“Io sono da sempre innamorato del cinema e in quanto tale poter lavorare a tu per tu con un’icona credo sia stata un’esperienza unica. In realtà però, vista dalla parte di attore, è stata un’esperienza di formazione altissima in quanto lei è una vera professionista, esigente ma fonte di consigli. Una persona stupenda, senza dubbio”.

Un sogno nel cassetto?

“Una famiglia allargata, come avviene un po’ per tutti nel percorso di una coppia. Noi abbiamo corso per anni, spesso costretti a stare lontani ma come coppia abbiamo costruito tanto per cui potrebbe anche essere arrivato il momento giusto”.

“That’s Pitticolor!”, Il FASHION FILM di Pitti Uomo 88 firmato da Luca Finotti

Torna dal 16 al 19 giugno 2015 a Firenze, l’evento internazionale della moda maschile: Pitti Immagine Uomo 88.

Una manifestazione volta a captare i nuovi scenari in tema di moda e stile, un luogo business oriented dove si incontrano i negozi e department store più importanti del mondo, tra personalità dandy e gli occhi attenti della stampa.

Una grande novità di Pitti Immagine è la collaborazione con una serie di talentuosi registi che hanno realizzato dei progetti di digital art ispirati ai temi dei saloni.

Qui, Luca Finotti interpreta “That’s Pitticolor!” con la sua riconoscibile ironia.

Il video è stato realizzato in collaborazione con Ministero dello Sviluppo Economico e Agenzia ICE.

Credits:

Director: Luca Finotti @AtomoManagement
Art director: Stefano Roncato
Models: André Bona @Elite – Bianka @Women
Hair : Gabriele Trezzi @closeup milano
Make-up: Giorgia Pambianchi @AtomoManagement
Stylist: Agnes Schulz @AtomoManagement

Ecco il video:

Chiara Biasi indossa “Junkfood”, la nuova capsule collection Bikini Lovers

In anteprima, la nuova capsule collection Bikini Lovers, qui indossata dalla testimonial d’eccezione Chiara Biasi, volto e “corpo” del brand di costumi più divertente del momento.

Bikini Lovers ci regala, con quel tocco di magica ironia, costumi dalle stampe food: pizze, cioccolato, marshmallows, ciambelle, ce n’è per tutti i gusti.

Dalle splendide spiagge di Ibiza, Chiara Biasi posta le foto in anteprima. La collezione sarà disponibile online dal 10 giugno.

Stay tuned!

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Guarda la gallery:

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio filosofico

Parte I


Nella storia delle riflessione umana, il pazzo è apparso non solo come una persona «fuori dal mondo», ma come uno che vede il mondo da un punto di osservazione diverso rispetto a quello dei più. In sostanza, la follia mette in risalto i limiti stessi della ragione, indicandole che, per parafrasare Hegel, «non tutto ciò che è reale è razionale» e, in modo particolare, non tutto ciò che esiste può essere contenuto nei limiti della ragione.

Già Platone aveva affrontato il tema, in modo specifico nel Fedro, uno dei suoi dialoghi più celebri, composto intorno al 370 a C. Il grande filosofo si pone la questione se sia più credibile colui che è in preda all’esaltazione oppure chi ne è privo. Egli vede nella «mania» un momento prelogico, che si esprime in quattro forme di follia, cioè l’arte divinatoria, il rapimento mistico, il furore poetico e l’amore. L’uomo, ovviamente, deve superare queste esperienze per tendere alla conoscenza. Tuttavia avverte quasi una forma di nostalgia per una rivelazione della verità che venga non dall’umano ragionamento ma come da una illuminazione dall’alto. «I più grandi doni» – scrive – «ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino». Platone porta tre esempi: le sibille, i guaritori e, soprattutto, i poeti e conclude con un’asserzione folgorante: «La saggezza proviene dagli uomini, la follia da Dio», in quanto essa è impulso originario e naturale, indipendente dall’arbitrio umano.


In Platone, dunque, la follia si presenta non come una forza distruttrice, ma come un’ispirazione divina e un amore alla vita.

Un’eco di questa interpretazione forse è possibile riscontrarla anche nel pensiero cristiano. Nel Nuovo Testamento, infatti, San Paolo presenta la vicenda di Gesù Cristo come «la follia di Dio» che si è manifestata più sapiente della sapienza degli uomini. Culmine della vita spirituale, perciò, non sarà la visione razionale del filosofo, ma la condivisione del cammino di Gesù.

Il Medio Evo cristiano, a sua volta, oscillerà tra questi due atteggiamenti: da una parte la ricerca di una grande impostazione razionale, che culminerà nelle Summae teologiche e filosofiche di un Tommaso d’Aquino, di un Bonaventura da Bagnoregio e di un Giovanni Duns Scoto; dall’altra la consapevolezza che non tutto il reale è riconducibile al controllo della ragione, per cui si darà ampio spazio alla credenza nei miracoli, alla potenza delle vere o presunte reliquie dei santi, alle «feste dei folli», al ricorso alla stregoneria e così via.


Con la luce del Rinascimento, proprio quando la razionalità trionfa nella scienza e nell’arte, il tema della follia tornerà a interessare i pensatori. Uno dei più celebri tra loro, Erasmo da Rotterdam, ne farà oggetto di riflessione nell’Elogio della Follia, opera talmente brillante da costituire uno dei simboli dell’intero periodo. Nell’opera, che vide la luce nel 1511, la Follia esalta se stessa e si presenta come una componente indispensabile dell’esistenza umana: senza di essa, la vita non sarebbe pensabile nelle sue molteplici sfaccettature. Erasmo prospetta una tagliente satira contro le condizioni religiose e sociali del suo tempo, mettendo alla berlina la presunta saggezza dei monaci e dei teologi. In campo morale, poi, la follia tende alla santità perché essa, nel senso di Platone e di San Paolo, si eleva al di sopra delle apparenze e tende alla semplicità di una vita vissuta nella fede e nella carità.

A distanza di un secolo Giordano Bruno riprende il tema di un approccio alla realtà che non si risolva unicamente nella dimensione razionale. Egli vede nell’«eroico furore» una forma più alta della razionalità: esso è uno sforzo consapevole, un impeto di conoscenza e un dinamismo di amore. Chi è preso da un tale furore è il vero sapiente, colui che va oltre i limiti del finito, si libera dai legami che lo tenevano avvinto alle cose contingenti e può giungere ad amare l’infinito, cioè Dio, e in Dio ama nel contempo tutte le cose.


La vera follia, dunque, è la pretesa del razionalismo di poter dominare tutto con la ragione, perché facilmente dal razionalismo si passa all’ideologia che è una pretesa onnicomprensiva. Bisogna perciò contemperare ragione e «follia», intelletto e sentimento, perché, secondo l’intuizione di Blaise Pascal, la ragione non è l’unico strumento conoscitivo: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende».

Questa problematica ritornerà sempre nel corso della storia. Tappe importantissime della cultura, ad esempio, saranno il Romanticismo, che riflette sul momento oscuro ed estatico dell’originario atto creativo, e, in tempi più recenti, la psicoanalisi di Freud, che scruta nelle profondità dell’animo umano quell’abisso oscuro e magmatico che sfugge alla consapevolezza.

Sei la mia vita – il nuovo e appassionante memoir di Ferzan Ozpetek

Ho per Ferzan Ozpetek una grande ammirazione e soprattutto devozione. I suoi film si legano a molti ricordi, alcuni condivisi con le mie amiche di sempre, le donne della mia vita, materne, a volte drammatiche, ironiche, pragmatiche, insostituibili.

Mi sono sempre circondato da varia ed eccentrica umanità e le pittoresche tavolate delle Fate Ignoranti, le ho vissute anch’io, anch’io ho condiviso con le mie anime fragili, lunghe cene intrise di drammi e melodrammi ma anche di spensierate chiacchiere che solo amici devoti possono regalarti.

Il tempo passa inesorabile, ma le amicizie vere, quelle allacciate in anni spensierati rimangono, sono quelle che aiutano a combattere i momenti difficili che spesso arrivano, lasciandoti smarrito di fronte al da farsi.


Con Ferzan il concetto di famiglia si allarga, non ha vincoli di sangue ma legami empatici intrisi di solidarietà e generosità.

Le sue storie lasciano il segno, non solo sullo schermo ma anche sulla carta: in questi giorni è uscito per Mondadori, la sua ultima fatica letteraria, Sei la mia vita, un vero e proprio memoir che ripercorre la sua vita, ma soprattutto il suo arrivo a Roma, negli anni ’70, quando era un giovane studente di cinema.

Il suo presente, il suo passato e il suo futuro hanno inizio in Via Ostiense, in un vecchio palazzo un po’ fané, all’ombra di un gasometro, abitato da un mondo variopinto di emarginati.

“Li ho nutrito i miei sogni, ho provato ogni tipo di emozione, ho capito chi ero davvero e che cosa desideravo fare della mia vita”.


Sei la mia vita – il nuovo e appassionante memoir di Ferzan Ozpetek


La sua famiglia d’adozione romana, anime candide ma esperte di vita, ciascuna con la sua solitudine da offrire, è il fil rouge di questo tenero libro autobiografico che si legge tutto di un fiato per poter scoprire aneddoti e spunti che hanno reso immortali alcune delle scene dei suoi film.

Ed ecco che arriva, da subito, nella sua nitidezza il ricordo dei pranzi domenicali sulla terrazza che è entrato nell’immaginario collettivo grazie alle Fate Ignoranti.

“Non so nemmeno io quanto è cominciata. L’abbiamo organizzata una volta e poi, senza bisogno di darsi appuntamento o mettersi d’accordo, la domenica dopo eravamo di nuovo tutti qui”.

Regina indiscussa di quei convivi era Vera, la trans più estrosa e richiesta di Roma. La regina delle drag-queens capitata per sbaglio in un film neorealista.


Quel personaggio interpretato poi, nel film dalla mia straordinaria amica Lucrezia Valia, è pieno di tenerezza, esagerazione, drammaticità e divismo. Quel divismo vintage che raccoglie in sé l’allure di un tempo che non tornerà. Dive che lasciano, dietro di loro, scie voluttuose di Madame Rochas.

Come non ricordare gli altri commensali di quei convivi così pittoreschi: Bruno, soprannominato la postina di Monteverde, Ernesto, centralinista ed attore fallito in perenne contestazione con il mondo e soprattutto con una soubrette televisiva ai tempi sua compagna di studi al Centro Sperimentale di Cinema, Rossella, che cerca un figlio ma non vuole un compagno e che sceglierà un lungo e difficile percorso per coronare il suo sogno di madre e ancora la portinaia Rosita, una donna grassissima e molto gioviale e amante delle arie di Verdi e in modo particolare della Traviata e del Nabucco.

“Fra un boccone e l’altro, un sorso di vino, mi ero conquistato un po’ di spazio in quel magico circo, composto da checche, travestiti, donne di spirito, amanti infedeli e cacciatori di farfalle”.

Come non riconoscere, tra le pagine, il fantasma che ha dato vita al personaggio di Massimo Girotti nel film La finestra di fronte con Giovanna Mezzogiorno e Raoul Bova.


“Quando t’imbatti nel fantasma del tuo passato felice, la consapevolezza di quanto hai perduto ti sommerge con un’ondata quasi insopportabile di rimpianto. Allora vuoi solo nasconderti in un luogo sicuro a leccarti le ferite, perché la tua anima è come un animale domestico, che il dolore ha reso selvatico”

Massimo, era un signore anziano, molto distinto, indossava un cappotto dal buon taglio sartoriale e non ricordava nulla del suo passato e del suo presente; si aggirava su Ponte Sisto come un esule di una grande battaglia, nella fredda notte romana.

Ferzan e il suo compagno di allora lo ospitano a casa cercando di ricomporre il puzzle della sua vita ormai dimenticato e ricevono insieme ai loro amici la prima lezione sull’amore del libro: “Chi importa chi amiamo? Io ho amato, e questo deve bastare. Voi amate, e questo ci rende uguali. Uniti nell’amore. Abbiamo baciato, accarezzato, abbracciato, consolato, atteso con folle felicita un suo s’. Perché l’amore condiviso è la forza che ci rende migliori. Anche quando è sfiorito, anche quando ci ha lasciato, anche quando è un ricordo che brucia con la sua assenza. Noi viviamo d’amore”.


Sei la mia vita – il nuovo e appassionante memoir di Ferzan Ozpetek


Sei la mia vita è soprattutto un libro che parla d’amore. Un racconto che la voce narrante dedica al suo compagno, ripercorrendo passo dopo passo la loro storia d’amore ma soprattutto del suo mondo prima di lui.

La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà la “nostra. Sono un sopravvissuto a un disastro: Il disastro che sarebbe potuta diventare la mia vita se non ti avessi incontrato”.

Ed ecco che arriva la seconda lezione sull’amore: ”Oggi so che l’amore ti cerca, spetta a te farti trovare. Per questo occorre lasciare aperte tutte le porte: non sai mai chi potrebbe entrare, cosa ti potrebbe portare. Amo i colpi di scena. Mi è sempre piaciuto sperimentare, avventurarmi lungo strade sconosciute. E poi ho incontrato te, il più inatteso degli imprevisti”

Intraprendiamo con Ferzan e il suo compagno, un lungo viaggio che permetterà al lettore di conoscereuna storia intrisa di tenerezza, confidenza, complicità ma anche di una Roma lontana, decadente e magica, libera e tollerante.


Rivediamo le scene più salienti della vita del regista come se fossimo seduti al buio di una sala cinematografica: la memoria non è in digitale, gira come una vecchia pellicola, si consuma. E le immagini troppo amate si bruciano.

In questo lungo Amarcord non possono mancare le estati, quasi tutte interamente trascorse al Buco, una spiaggia incontaminata, lungo il litorale di Ostia.

Il mare, la sabbia fine, le passeggiate sul bagnasciuga, le confidenze sotto all’ombrellone ascoltando Alan Sorrenti e le dive della musica italiana.

Capitava di far tardi guardando il tramonto con lo scrittore Goffredo Parise e la sua compagna, o di conversare con Piero Tosi, il costumista preferito di Luchino Visconti, premio Oscar alla carriera nel 2013.


“Quando ci incontravamo al Buco ed io ero ancora un ragazzo di belle speranze, Piero non mi spronava affatto a darmi da fare per costruire il mio futuro. Al contrario mi esortava a prendermela comoda. “Divertiti! Nella vita questo è l’importante!”

I pomeriggi passavano più in fretta ascoltando i suoi aneddoti come quello sulla leggendaria rivalità tra Visconti e Fellini, o ancora le storie del cinema di una volta di cui Ozpetek era e continua a essere un appassionato estimatore. E non ci meraviglia scoprire che tra i due sia nata una solidale amicizia e che lo stesso Tosi abbia suggerito una scena del film Magnifica presenza, che vedeva imprigionati dei fantasmi – una compagnia di attori tragicamente morti durante la seconda guerra mondiale, in una splendida casa a Monteverde.

Mai suggerimento fu più prezioso e nella scena finale del film, vediamo i fantasmi prendere il tram per andare a recitare la loro ultima pièce al Teatro Valle.


Su quel set Ferzan diviene amico di Anna Proclemer – icona del teatro e del cinema italiano, scomparsa nel 2013. Una vera diva che il regista avrebbe voluto dirigere di nuovo sul set del suo ultimo film Allacciate le cinture. Di lei, ammette qualche anno dopo, gli mancheranno per sempre le lunghe telefonate e le conversazioni intime tra amici.

Non mancano riflessioni profonde, come quelle legate all’Aids e sulla malattia.

“Dagli Stati uniti e dalla grande comunità gay Di San Francisco ci giungevano notizie allarmanti. Qualcuno stava giocando con noi alla roulette russa, decidendo il nostro futuro: Tu sei salvo, tu presto ti ammalerai, tu sei già morto..

Il virus si è insinuato nelle nostre vite a poco a poco. Ciò che sembrava una delle tante leggende metropolitane, è diventato una realtà”.


Arriva così come un pugno nello stomaco la vera storia che ha ispirato una delle scene cult della Fate ignoranti, quella che vede in primo piano Gabriel Garko nel ruolo di Ernesto, malato terminale di Aids. Per tutti gli amanti di quel film quella storia era una semplice finzione letteraria. Leggendo il libro si scopre, invece, la verità. Un uomo che vuole dal suo compagno malato, tutto di lui, compresa la malattia. “Perché l’amore non ubbidisce ad alcuna logica umana”.

Adriano, occhi dal taglio orientale e profondissimi, zigomi alti e labbra carnose. Sembrava un pirata. Bello da mozzare il fiato. Piaceva a tutti, uomini e donne. Pur conducendo una vita molto movimentata aveva una storia da molti anni con Sergio, un architetto, un po’ più vecchio di lui. Quando Sergio scopre di essere ammalato, Adriano si sente morire dentro. Teme di averlo infettato per colpa dei suoi numerosi incontri extra. Ma non è stato lui, il suo test risulta negativo. Da allora fa di tutto per condividere, il dolore, l’annichilimento, la morte del suo adorato compagno.


E quando il referto risulta positivo, diviene raggiante. E’ riuscito nel suo intento.

Per fortuna di fronte alla tragedia, il regista, col suo piglio da narratore navigato, sa riprendere in mano la situazione, e ci riporta nella commedia, raccontando il doppio coming out di Mine Vaganti, realmente accaduto ad un suo amico a San Paolo in Brasile.

Marcelo, interpretato poi da Riccardo Scamarcio al cinema,è figlio di un industriale in Brasile. Ama la musica e arriva in Italia per realizzare il suo sogno, ma soprattutto per vivere liberamente la sua omosessualità.

Torna poi nel suo paese per mettere ordine nella sua vita e soprattutto per dire tutta la verità ai suoi, ma viene preceduto dal fratello Ricardo che confessa di essere gay a dei parenti stralunati, durante un festoso pranzo della domenica.

I pranzi della domenica sono uguali nel mondo e nascondono sempre finali surreali alla “parenti serpenti”.


Da quel momento Marcelo rinuncia a se stesso per sempre e per non deludere la famiglia si sposa e allontana da sé la sua vita di prima.

“Ma è proprio necessario che ti sposi?

“Si perché devo avere dei figli, i miei ormai se lo aspettano…non parlano d’altro”.

Da ragazzo Marcelo aveva saputo aspettare l’onda giusta. Era riuscito a cogliere il momento più opportuno per prendere il largo dalla famiglia e realizzare i suoi sogni. Ma poi si era arenato.

“La vita non è mai esattamente come la vogliamo: ci offre sempre delle sorprese, più siamo capaci di adattarci ai cambiamenti di programma, meglio è. L’importante, però, e non tradire mai se stessi. Perché se ci intestardiamo a non ascoltare l’amore, siamo perduti”.


Ozpetek sa giocare con le emozioni, sa calibrare le sfumature dell’amore, e dell’amicizia. Nonostante sia diventato uno dei personaggi più importanti del nostro paese, è rimasto fedele a se stesso, a quel ragazzo innamorato del cinema italiano e dei grandi maestri come Francesco Rosi, Pietro Germi, Vittorio De Sica, Antonio Pietrangeli, quel ragazzo che cercava un posto nel mondo, lasciando intatta la sua voglia di emozionarsi e di emozionare.

Il successo non ha minimamente intaccato la sua integrità. Ed è per questo che continua a mietere consensi.

“Il successo segue leggi misteriose: non va mai dato per scontato. E’ proprio quando pensi di avere tutte le carte vincenti, che resti a mani vuote. Io credo che il segreto per riuscire in ciò che fai è continuare a coltivare fino all’ultimo quella naturale insicurezza che ti assale ogni volta che metti in gioco tutto te stesso e andare avanti, con i tuoi dubbi, gli attacchi d’ansia, i ripensamenti”.

Angelica Kenova, la ragazza Barbie

Una vita fatta di diete, vestiti rosa confetto, palestra, obblighi e divieti, quella di Angelica Kenova, la ragazza-Barbie.

Angelica vive ancora con i genitori, che controllano ogni minimo movimento della figlia, a partire da una dieta segretissima grazie a cui ha raggiunto i 38 chili di peso e i 50 centimetri di girovita. Nega di aver mai subito interventi di chirurgia estetica, ma le forme così prosperose del seno lasciano molti dubbi a riguardo.

Oltre al lavoro di modella, dove posa per servizi fotografici in tema con la sua immagine, Angelica si dedica alla danza classica e al lavoro: è una psicologa infantile. Una psicologa con una quinta di reggiseno, controllata a vista dai genitori – che le scelgono anche gli abiti ridicoli da indossare – che non può uscire con un ragazzo se non dopo l’approvazione del capofamiglia e rigorosamente accompagnata dalla madre!

Forse è il caso che cambi mestiere!

Sandali per l’estate FABIO RUSCONI

Un’estate all’insegna del colore, dei bagliori del laminato e del fashion comfort che ci regalano i nuovi sandali platform.

La collezione spring/summer 2015 di FABIO RUSCONI è un concentrato esplosivo dei nuovi trend di stagione rieditati in sandali e zeppe.

Ormai must have di ogni guardaroba estivo le zeppe oggi guadagnano i primi posti nel podio dei best della stagione. Il segreto del successo è nella loro declinazione in diversi mood, dai modelli più hippy anni ‘70, con fondo sughero, agli sporty con pelli mat e platform esagerate, a quelli da gheisha, anche in versione meta.

Suola massiccia e attitude decisamente sportiva, i sandali più cool della primavera/estate hanno alti fondi in gomma e si abbinano con pelli dagli effetti laminati, glitter o dettagli borchiati.

Guarda qui tutta la collezione:

Jurassic Park, il più grande spettacolo dopo il giurassico

«Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo, due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?» 


Il vero messaggio di Jurassic Park è tutto qui, nelle parole di Alan Grant (Sam Neill), il paleontologo convinto da John Hammond (Richard Attenborough) a visitare il più grande parco dei divertimenti, un parco in cui torneranno in vita le creature più affascinanti che la storia della terra abbia mai conosciuto: i dinosauri. Le perplessità di Alan Grant sono confermate da Ian Malcolm (Jeff Goldblum): «La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui mi sconvolge», dice. «Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un bambino che gioca con la pistola del padre.» Un pericolo autodistruttivo, insomma. La natura ha le sue leggi e se i dinosauri e l’uomo non hanno vissuto nella stessa era, questo era dovuto alla loro evidente incompatibilità.


Grant e Malcolm non saranno affatto smentiti quando si ritroveranno a dover fuggire da un Tirannosaurus Rex, liberato grazie all’interruzione del sistema di sicurezza. In realtà le recinzioni del parco sarebbero state sicure se Dennis Nedry non avesse disattivato l’impianto e rubato gli embrioni per venderli a un pezzo grosso della concorrenza. E la notte in cui Nedry tenta la fuga è una notte apocalittica, metafora della rabbia della natura per l’uomo ribelle, reo di aver tentato di stravolgere le sue regole o piuttosto di barare. Jurassic Park, per la fama e il successo che ha raccolto nel corso degli anni, non ha nemmeno bisogno di essere raccontato. Divenuto uno dei maggiori incassi della storia del cinema, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, permise a Steven Spielberg di superare gli incassi di E.T. – L’extraterrestre. Il 1993 fu un anno fortunatissimo per il regista, che sfornò, oltre a Jurassic Park, anche Schindler’s List, film che lo consacrò tra i grandi del cinema e che gli permise di aggiudicarsi due Oscar, miglior film e miglior regia. Dopo quella fortunata doppietta, però, Spielberg non è stato più quello di una volta (a parte l’Oscar per Salvate il soldato Ryan) e sebbene si sia sempre impegnato ad alternare film commerciali (come il quarto, deludente, Indiana Jones e La guerra dei mondi) a film d’autore (come Munich o War Horse), l’apice lo ha raggiunto tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, proprio con Jurassic Park.


Un film che, al di là di tutto, riprende le tematiche topiche dei suoi film, come l’infanzia, già centrale in E.T., Indiana Jones e il tempio maledetto, L’impero del sole e Hook – Capitan Uncino. Il sapore del film spielberghiano è palese anche grazie allo splendido accompagnamento musicale di John Williams, non nuovo a lavorare con il regista. Se uno dei temi cari a Spielberg è l’infanzia, non potevano mancare due giovani protagonisti come Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards), nipoti di John Hammond, che accompagnano Alan Grant, la dottoressa Sattler (Laura Dern) e Ian Malcolm nella visita al parco. Tim è un fan sfegatato del dottor Grant, mentre Lex è una giovanissima hacker (non a caso sarà lei a ripristinare l’elettricità). Proprio il dottor Grant dimostra di non provare molta simpatia per i bambini quando, nel prologo del film, un ragazzino, mentre Grant rinviene un fossile, paragona un Velociraptor a un grosso tacchino e il paleontologo fa di tutto per spaventarlo descrivendogli che cosa può capitare se dovesse trovarsi di fronte un animale primitivo così pericoloso. Ma nel corso della visita, Grant si trova da solo con i due ragazzi: le macchine che li avrebbero accompagnati durante la visita sono state distrutte dal T-Rex e loro sono costretti a tornare alla base a piedi, attraversando l’intera isola con la speranza di non imbattersi in Velociraptor o altre specie aggressive.


Sono proprio gli incontri con i predatori, però, a rientrare tra le scene da cineteca. La prima è la comparsa del T-Rex, con un primo piano del suo occhio illuminato appena dalla torcia di Lex; un occhio che è il simbolo del male, proprio come lo era quello dello squalo, sempre di spielberghiana memoria. E questo sarebbe un altro tema che ritorna: la lotta fra l’uomo e la natura (lì lo squalo, qui i dinosauri), una natura sempre più maligna e terrificante, ma questa volta figlia dell’uomo stesso. I dinosauri sono come il mostro di Frankenstein: John Hammond ha cercato di riportare in vita qualcosa che doveva essere morto, di cui la natura stessa aveva decretato la morte; qualcosa che si è rivoltato contro il suo stesso creatore perché si è ritrovato in un’epoca sbagliata e in un contesto sbagliato. Altra scena da antologia è l’inseguimento in cucina dei Velociraptor, con Lex e Tim nascosti e i due predatori che riescono ad aprire la porta, fino all’epico grido di Lex mentre uno dei due dinosauri l’attacca, stroncato da un vetro infranto poiché l’immagine a cui andava incontro il dinosauro era soltanto il riflesso della ragazza.


Il finale di Jurassic Park, con il T-Rex che salva, involontariamente, Grant, la dottoressa Sattler e i due ragazzi dall’assalto dei Velociraptor, e la bandiera del parco che crolla al ruggito del Tirannosauro, era abbastanza aperto per lasciare allo spettatore le conclusioni su una possibile ribellione dell’uomo alle leggi di madre natura. Proprio per la sua grandezza e per la spettacolarità delle animazioni – nonché per la sostanziale novità del tema – il secondo capitolo del franchise, Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), anch’esso diretto da Spielberg, uscirà sempre sconfitto da ogni confronto con il primo. D’altronde le possibilità narrative offerte da un materia simile non sono tantissime, e il rischio che si correva – trappola in cui è poi caduta la sceneggiatura – era riproporre qualcosa di già visto sfruttando l’onda del successo, ma senza quel valore aggiunto che era stata la vera arma segreta di Jurassic Park.


Quattro anni dopo gli incidenti avvenuti sull’Isla Nublar, la società di John Hammond, la InGen, è fallita ed è Peter Ludlow, nipote di Hammond, ad avere ereditato la ditta. Oltre a Isla Nublar, Hammond aveva occupato un’altra isola, l’Isla Sorna, in cui i dinosauri crescevano prima di essere trasferiti a Isla Nublar al raggiungimento dell’età adulta. Ma Isla Nublar è stata abbandonata in seguito all’arrivo di un uragano, che aveva distrutto le strutture. I dinosauri, però, sono ancora lì. Proprio un incidente, occorso nel prologo, con una famiglia di turisti, la cui bambina si era imbattuta in un branco di Compsognathus, spinge Hammond a richiamare il dottor Malcolm, che nei quattro anni successivi alla disavventura nel Jurassic Park aveva cercato di denunciare le mostruosità nascoste nell’Isla Nublar. Hammond vorrebbe che Malcolm stendesse un rapporto sull’isola e sulle condizioni degli animali ma soprattutto che fermasse chi vuole catturarli per farne delle attrazioni in un parco di San Diego. Malcolm è scettico ma quando Hammond gli rivela che anche Sarah (Julianne Moore), la sua ragazza, è lì sull’isola, la missione scientifica si trasforma in una missione di salvataggio. A Malcolm si unirà, clandestinamente, anche la figlioletta Kelly.


Il resto sa molto di già visto: le aggressioni dei dinosauri, gli inseguimenti, la roulotte (al posto della macchina in Jurassic Park) sospesa nel vuoto, ma soprattutto l’arrivo del T-Rex a San Diego con la sua furia distruttrice, un richiamo evidente a icone della fantascienza catastrofica come King Kong e Godzilla, qualcosa che fa storcere non poco la bocca e rimpiangere l’immensità e la poesia di Jurassic ParkMa il fondo lo si tocca con il terzo film, Jurassic Park III. Al ritorno di Sam Neill e di Laura Dern corrisponde, però, un cambio in regia, Joe Johnston al posto di Spielberg. È inevitabile che la magia ormai si sia persa e che si rimpianga perfino Il mondo perduto, nonostante i limiti di essere un sequel senza tante grosse novità. Ancora un’azione di salvataggio, ma stavolta sarà Alan Grant, anziché Malcolm, a tornare a Isla Nublar. Gli effetti speciali non hanno più niente di speciale (si vede benissimo che i dinosauri sono finti!) e il soggetto è diventato un fiacco pretesto per allungare una trama che si è già diradata ben oltre le proprie possibilità. Di Jurassic Park è rimasto soltanto l’accompagnamento musicale, a rievocare qualcosa che non c’è più, ma questo non basta, tant’è che il film si era aggiudicato la nomination ai Razzie Awards del 2001 come Peggior Remake o Sequel.


Jurassic Park, rappresentando la novità (messa anche in prospettiva di un’epoca in cui il 3D era lontano anni luce), non poteva che suscitare incanto: i dinosauri di Spielberg giganteggiavano sullo schermo con un realismo mai visto prima; e a essi si univano azione, ironia, stupore (e l’entusiasmo immancabile di John Hammond). Il mondo perduto dimostrava già di essere una forzatura: la forza di Jurassic Park risiedeva anche nella simpatia del cast, da Alan Grant ai due ragazzini; dalla dottoressa Sattler al dottor Malcolm (l’unico recuperato, a parte le comparse di Hammond e dei nipotini cresciuti, ma solo nella parte iniziale). L’evocazione di Godzilla e di King Kong non avevano fatto che abbassare non soltanto la credibilità stessa del film ma di tutto il franchise, che ormai aveva virato verso stereotipi noiosi. Con Jurassic Park III, infine, c’è il ritorno di Alan Grant e della dottoressa Sattler (comunque marginale) ma non del tocco magico che Spielberg aveva saputo dare ai suoi primi dinosauri.


In Jurassic World ritornerà lo stesso Tirannosaurus Rex di Jurassic Park, arrabbiato come nel 1993 e pronto a fare nuove vittime. L’utilizzo massiccio del 3D, coadiuvato dal supporto della grafica digitale, renderanno l’apertura del parco dei dinosauri un vero e proprio evento mondiale.

EXPO 2015 Viaggio intorno al cibo: una sosta letteraria

Proprio per i suoi tanti significati materiali, spirituali e sociali, è ovvio che l’arte si è interessata fortemente al cibo.

Riflettendo sul rapporto tra arte e cibo, possiamo evidenziare tre tipi di arte:


1. l’arte del cibo: la gastronomia e la preparazione della mensa.

2. l’arte per il cibo: ad esempio la ceramica utilizzata per contenere gli alimenti.

3. l’arte sulcibo: il gesto del mangiare e tutto ciò che lo prepara, lo accompagna e lo segue e l’ambiente in cui ciò avviene diventano oggetto di descrizione nella musica, nella pittura, nel cinema e nella letteratura.


Riguardo a questo terzo punto, in tanti romanzi o nelle poesie ci sono scene e situazioni che si svolgono in rapporto al bere o al mangiare. In esse, però, il cibo è più occasionale che centrale: cioè i personaggi dicono o fanno altre cose mentre mangiano, ma non è il cibo il centro dell’interesse del’autore. In una breve commedia di Luigi Pirandello (1867-1936), invece, notiamo che un frutto è proprio l’elemento centrale della composizione, il nucleo intorno al quale si svolge il racconto. La commedia, Lumìe di Sicilia (lumìe significa limoni nel dialetto siciliano), risale al 1910 ed è la riduzione teatrale di una novella precedentemente pubblicata.


La trama è molto semplice. Micuccio Bonavino è un giovane campagnolo siciliano e suona nella banda del paese. Ha aiutato una sua compaesana, Teresina Marnis, nella carriera di cantante lirica e si è fidanzato con lei. Nel frattempo Teresina si è affermata e ora vive in una grande città dell’Italia settentrionale, dove ha conosciuto e frequentato altri uomini, dimenticandosi di Micuccio. Preso contatto con la madre di Teresina, il giovane, che aveva portato anche del denaro ricevuto in prestito durante una malattia, scopre l’amara verità.


I personaggi principali sono Micuccio, Teresina (che, trasferendosi al Nord ha abbreviato il nome in Sina) e la madre di lei. L’azione si svolge in un solo atto.

Pirandello nella didascalia iniziale presenta l’ambientazione:

«La scena rappresenta una camera di passaggio, con scarsa mobilia: un tavolino, alcune sedie. […] Attraverso la camera si scorge un salone splendidamente illuminato con una sontuosa mensa apparecchiata».


Abbiamo dunque due luoghi: uno modesto, l’altro ricco e sfarzoso, pronto per una cena. Qui già si incomincia ad accennare al tema che ci interessa, cioè il cibo e i suoi significati.

Entra in scena il cameriere Ferdinando seguito da Micuccio, il quale ha compiuto un viaggio di due giorni per incontrare la signora Marta, madre di Teresina; ma la chiama ancora con un’espressione tipica del paese: “zia Marta”. Ferdinando e la cameriera Dorina escludono che il giovane possa incontrare la signora, perché: «Vedete, caro. Ci sarà una gran festa. La serata d’onore […] Questa notte si cena. Ah! E che tavolata! Che luminaria!».


Dal dialogo tra Micuccio e i due inservienti veniamo a conoscere che la bellissima voce di Sina è stata scoperta proprio grazie all’affetto di Micuccio, suonatore di ottavino nella banda musicale di Palma Montechiaro. Alla domanda di Dorina circa i suoi sentimenti, Micuccio risponde:


«Io? A Teresina? Mi fate ridere! Mia madre pretendeva che la abbandonassi perché lei, poverina, non aveva nulla, orfana di padre … mentre io, bene o male, il posticino ce l’avevo, nella banda».

E questa povertà di Teresina si precisa anche nella mancanza di alimentazione. Infatti, quando Micuccio decide di impegnarsi per far studiare canto alla ragazza, aggiunge:

«Il pianoforte costava, le carte costavano … e poi Teresina doveva nutrirsi bene per aver forza di cantare. […] Carne, ogni giorno! Me ne posso vantare!».

Anzi, Micuccio fa molto di più:


«Quando un maestro sentì Teresina e disse che sarebbe stato un peccato, un vero peccato non farle proseguire gli studi in una città, in un gran Conservatorio … io presi fuoco: la ruppi con tutti; vendetti il podere che m’aveva lasciato, morendo, un mio zio sacerdote, e mandai Teresina a Napoli, al Conservatorio. […] Quattro anni la mantenni agli studi. Quattro».

E conclude amaramente: «Non l’ho più riveduta, da allora». Nel frattempo la carriera artistica di Teresina aveva preso il volo: Napoli, Roma, Milano, Spagna, Russia. E dunque è tempo di coronare con il matrimonio il sogno d’amore di Micuccio verso la cantante.

All’improvviso suona il campanello: arrivano la madre di Sina e numerosi invitati. Il contrasto tra gli abiti sontuosi indossati da zia Marta e la sua vecchiaia sottolinea la contraddizione che la donna sta vivendo: da una parte vorrebbe tornare alla vita semplice e ai valori del paese siciliano, dall’altra accompagna la figlia ed è costretta a condividerne le scelte. Questo contrasto si esprime nel dialogo che ha con Micuccio:

«MARTA: Adesso di là si cena, capisci? Ammiratori, l’impresario … La carriera, capisci? Ce ne staremo qua noi due. Dorina ci apparecchierà subito subito questo tavolino … e … ceneremo insieme, io e tu, qui, eh? Che ne dici? Noi due soli. Ci ricorderemo dei bei tempi»

E questa distinzione tra «di là» e «di qua» tornerà continuamente nelle parole della donna.

Naturalmente non è possibile andare avanti senza porre la domanda che indica lo scopo della visita del giovane:

«MICUCCIO: E … verrà, vi ha detto? Dico … dico per … per vederla, almeno …

MARTA: Ma certo che verrà! Appena avrà un momentino …».



I due interlocutori continuano a parlare di persone e fatti del paese di origine.

Finalmente anche Marta e Micuccio mangiano. Marta si sente libera di farsi il segno della croce, perché quando è con la figlia e i suoi ammiratori ciò non le è consentito. Così tra ricordi e malinconia trascorrono i minuti, mentre ogni tanto si sentono risate che provengono «di là» e producono in Micuccio un crescente scoraggiamento.

All’improvviso giunge Sina, «tutta frusciante di seta, parata splendidamente di gemme, nudo il seno, nude le spalle, le braccia, si presenta frettolosa». Micuccio «che aveva steso la mano al bicchiere, resta col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, abbarbagliato e istupidito, a mirare, come innanzi ad un’apparizione di sogno; balbetta il nome di Teresina». Ma lei è tutta sbrigativa e scappa via di nuovo per raggiungere i commensali.

Scende il gelo tra Marta e il giovane. È la presa di coscienza che il sogno di poter sposare la ragazza si è definitivamente infranto. In una tensione crescente che raggiunge il dramma, le parole di Micuccio e di Marta mostrano tutto il degrado morale in cui Teresina è sprofondata per «la carriera». Il giovane decide di andarsene:


«MICUCCIO: State tranquilla. Non le faccio niente. Me ne vado. Che sciocco, zia Marta! Non lo avevo capito … Non piangete, non piangete … Tanto, che fa?».

Ma proprio mentre riprende la valigetta e il sacchetto e si prepara a uscire, gli viene in mente che dentro il sacchetto ci sono i bellissimi limoni, che egli aveva portato per Teresina dal paese. «Oh, me ne scordavo: guardate, zia Marta … Guardate qua …»

«Scioglie la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versa sulla tavola i freschi frutti fragranti».

In quel momento giunge Teresina: «Oh! Le lumie! Le lumie!»


«MICUCCIO: (subito fermandola) Tu non le toccare! Tu non devi neanche guardarle da lontano! (ne prende una e la avvicina al naso di zia Marta) Sentite, sentite l’odore del nostro paese … E se mi mettessi a tirarle a una a una sulle teste di quei galantuomini là?

MARTA: No, per carità!

MICUCCIO: Non temete. Sono per voi sola, badate, zia Marta! Le avevo portate per lei … (indica Sina) E dire che ci ho pagato anche il dazio … (vede sulla tavola il danaro, tratto poc’anzi dal portafogli; lo afferra e lo caccia nel petto di Sina, che rompe in pianto). Per te c’è questo, ora. Qua! Qua! Ecco! Così! E basta! Non piangere! Addio, zia Marta! Buona fortuna!».


Ed esce definitivamente, mentre cala il sipario.

Come si può vedere, in questa commedia pirandelliana il cibo diventa occasione d’incontro e di tensione e soprattutto è un simbolo che indica molti significati. Tra i principali, potremmo notare:

a. il rapporto tra città e campagna: la tavola ricca, simbolo di vita artificiale e superficiale, e i bei limoni siciliani, ricordo di una vita semplice e genuina;

b. i valori morali della tradizione in contrasto con l’immoralità e l’egoismo della modernità;

c. rapporto tra presente e passato;

d. due mondi diversi si incontrano e si scontrano: chi dei due vincerà?

e. la nascente industria dello spettacolo, che non raramente corrompe e strumentalizza i sentimenti;

f. il rapporto educativo tra madre e figlia e il senso di fallimento avvertito dalla madre.

Tutto questo e molto altro si concentra intorno alle due cene e soprattutto intorno ai limoni, che in questa commedia diventano simbolo di un’intera visione della vita, che Teresina ha ormai rifiutato.

Dior lancia il fashion short movie Secret Garden IV – Versailles con protagonista Rihanna

Dopo una lunga attesa, Dior lancia finalmente la versione estesa del fashion short movie con una protagonista d’eccezione: Rihanna.

Lo spot della campagna Secret Garden IV – Versailles ha tutte le carte in regola per vincere: abiti merveilleux, luxueux location, il volto di una star – ma manca il fondamento – una trama!

Sotto le note della sua nuova hit Only If For A Night e al chiarore di Luna, Rihanna sfila tra i lunghi corridoi del Château di Versailles, su tacchi vertiginosi e con l’andatura di una sexy killer; nasconde una clutch Diorama dietro la schiena come fosse un’arma, imponenti statue fanno capolino nella grandi sale del palazzo.



Ad ogni scena, un cambio d’abito, capi della collezione Esprit Dior presentata a Tokyo lo scorso dicembre; la cantante si muove felina in un cat-walk tra lo scintillìo dei preziosi lampadari, inondati dal riverbero violaceo e dorato. Nell’abito rosso la cantante scappa, come sdoppiata, da lei stessa. E’ un’inseguimento, una lotta alla sopravvivenza, ma queste sono solo supposizioni fantastiche costrette da un video che lascia molto all’immaginazione.

Dai giardini, appare un’altra versione di Rihanna, quella maschile con bastone, ma in abiti femminile – obviously – che, sicura, incede lenta verso la reggia. Le luci si spengono come in un romanzo di Allan Poe, c’è chi scappa, si sente ansimare, i tessuti bianchi volteggiano come piccole luci nella notte. And that’s it!

Dior Secret Garden IV – Versailles – Long Version

“Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone

Diamo a Cesare quel che è di Cesare – Con “Tale of tales” Garrone va sicuramente premiato per il coraggio. Mettere in trasposizione una favola è compito assai arduo e molto ambizioso, e forse Garrone qualche punto lo ha segnato.

Dall’opera secentesca di Giambattista BasileLo cunto de li cunti”- una raccolta di 50 fiabe popolari in lingua napoletana rielaborate dall’autore,- Garrone ne estrapola 3: castelli, labirinti, draghi marini, incantesimi e maledizioni, foreste incantate, re e regine sono lo scenario di un fantasy-noir.

Una regina bellissima e sterile (interpretata da Salma Hayek) è posseduta dal desiderio di avere un figlio a tutti i costi, tanto da non accorgersi di quale sacrificio compie il suo amato, morendo per lei. Il re sarà costretto a lottare con un enorme drago marino, per portare il cuore alla regina che, mangiandolo, rimarrà incinta all’istante. Il cuore verrà cucinato da una vergine, in attesa, per incantesimo, di un figlio sosia dell’erede al trono; un povero contadino che frequenterà di nascosto il futuro re, il figlio tanto voluto ed ora soffocato dall’amore di una madre ossessiva e autoritaria.

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Garrone in questo episodio riporta l’egoismo femminile di chi desidera la maternità costi quel che costi, con una freddezza e una cupidigia rivelata nella scena in cui il corpo del re morto per amore della moglie, viene totalmente ignorato e sorpassato.

Sono ambientazioni fiabesche di luoghi reali, quelle scelte da Garrone per “Tale of Tales” – come le Gole dell’Alcantara che si trovano in Sicilia o il Labirinto del Castello di Donna Fugata a Ragusa. Scenografie e fotografia vincenti, pennellate di colori che a volte si trasformano in quadri rinascimentali, con citazioni a Vermeer o Cristofaro Allori e la sua “Giuditta con il capo di Oloferne“.

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L’apice dell’immaginario fiabesco e della poesia fatta a immagine si raggiunge con l’episodio di un re erotomane innamorato della voce di una fanciulla, che si scoprirà essere una vecchina dalla pelle rugosa e segnata dal tempo, una vecchina che lo ingannerà incollandosi letteralmente la pelle da farla risultare liscia e giovane. Il re si accorgerà dell’inganno, dopo una notte passata con l’intrusa – e la farà gettare dalla finestra, rifiutando la vecchiaia, la bruttezza, l’orrore di un corpo vizzo e molle. E’ a quel punto che l’anziana donna si accorge di non voler accettare i suoi anni, la giovinezza passata. Dopo aver succhiato il seno di una misteriosa donna in un bosco incantato, la vecchia si trasformerà in una bellissima donna dalla pelle bianca come il latte e dai capelli rossi come il fuoco.
La ricerca dell’eterna giovinezza cambia colori, secoli e costumi, ma rimane sempre una terribile malattia.

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Nella terza fiaba reinterpretata da Garrone incontriamo un re – Toby Jones quale attore – ottima interpretazione, d’altronde con un viso così non poteva essere più adatto a rappresentare la manìa, le stranezze, il possesso umano – il re nutre una zecca con bistecche e carne a volontà, tanto da farla crescere e assumere dimensioni umane – quando perderà il suo animaletto custodito da occhi indiscreti, non si accorgerà di aver abbandonato la figlia nelle mani di un orco, la cui testa tornerà tra le sue mani, insanguinate, come una Giuditta che si salva da un terribile Oloferne.

Paesaggi suggestivi, la voglia di girare l’Italia tra i luoghi magnifici e paesaggi naturalistici, un Garrone beethoviano nell’intento, ma forse uno scheletro fatto di sontuosi drappeggi, rossi velluti, barocche ambientazioni.

Qui il trailer in italiano: