Se ne andava tragicamente il 31 agosto 1997, a causa di un incidente automobilistico avvenuto sul tunnel dell’Alma, a Parigi, Lady Diana Spencer.
La principessa triste, così come viene ricordata, è stata il simbolo di un’epoca. Bella ed infelice, è stata a lungo al centro delle cronache per il suo matrimonio con il principe del Galles. È una favola al contrario, quella di Diana. Lei, fine aristocratica, sposando giovanissima Carlo diviene futura regina di un regno che sembra non appartenerle. Dalla bellezza assai più delicata rispetto alla rivale Camilla Parker Bowles, Diana è stata un’icona di stile tra le più ammirate degli anni Novanta. Una sensualità castigata che forse quel matrimonio infelice tendeva a reprimere; ma bastava un tubino ed il suo sex appeal veniva fuori.
Amata da Versace e Valentino, Diana si è distinta anche nel sociale: numerose le sue opere di beneficenza. Struggenti le note di Elton John che hanno accompagnato la cerimonia funebre. Resteranno sempre impressi nella nostra memoria quei versi originariamente dedicati a Marilyn Monroe, altra diva tormentata e fragile, poi cambiati in onore della Rosa d’Inghilterra, prematuramente scomparsa.
Lo stile di Lady D. era figlio dei tempi: una principessa moderna, dalla grande personalità, e forse per questo in triste contrasto con l’etichetta imposta alla corte della rigida Elisabetta. Da film il suo ballo alla Casa Bianca con John Travolta, durante una cena ufficiale. Immortalata per Vogue da Mario Testino, la principessa è stata oggetto del gossip più sfrenato, durante gli ultimi mesi di vita, a causa della sua relazione con Dodi Al-Fayed, scomparso con lei nel medesimo incidente avvenuto a Parigi.
Bellissima in jeans e camicia, indimenticabile il buffo abito da sposa, in perfetto stile Eighties, sontuoso, quasi una meringa, stemperato dalla dolcezza dei lineamenti della principessa triste. Tante le mise con spalline, must-have degli anni Ottanta. Una linea perfetta che rendeva la principessa impeccabile in tailleur, nonostante la bulimia che l’attanagliava. Perfetta in LBD, come nel celebre modello Valentino. Famosa la sua predilezione per Tod’s, di cui era solita indossare il modello passato alla storia come D-Bag, e per la Lady Dior, spesso paparazzata tra le sue mani.
Numerosi sono gli outfit di Diana citati dalla nuova principessa, Kate Middleton, dal 2011 sposa di William. Un’eredità pesante che forse trova il più naturale sbocco nell’affetto sincero che il popolo britannico sembra provare nei suoi confronti.
La stagione A/I 2015/2016 ci riporta indietro nel tempo, fino agli indimenticabili anni Settanta. Un trend che non è mai stato così amato, tanto da divenire ora protagonista assoluto delle passerelle per la prossima stagione invernale.
Un tripudio di stampe paisley, su lunghi abiti in impalpabile chiffon dalle suggestioni boho-chic. Lo stile bohémien conquista sempre più imponendosi come trend incontrastato per l’inverno 2016. Uno stile che piace perché sta bene a tutte e perché dona uno charme particolare.
La donna proposta dagli stilisti nelle collezioni A/I è una moderna hippie chic che indossa pantaloni a zampa d’elefante, monili etnici e outfit in pieno stile festival. Largo a caftani da giorno e da sera, da indossare con gilet o giacche in montone, stivali in camoscio o sandali da schiava. Fiori intrecciati tra i capelli o foulard usati alla stregua di turbanti completano il look gipsy.
Trionfa su tutto il caftano, capo simbolo della cultura hippie, da indossare con gioielli antichi dal sapore etnico, frange e accessori di ispirazione folk: questo autunno dimenticatevi di essere nel 2015, la moda parla inequivocabilmente Seventies.
Armate di flower power ci aggingiamo a vivere una stagione all’insegna di suggestioni antiche ma mai dimenticate. Erano gli anni dell’amore libero, della fratellanza universale e delle maxi gonne che tutte, da bambine, abbiamo visto nel guardaroba della mamma. Una moda fresca e colorata, capace di dare vita anche al più grigio degli inverni.
È una luxury hippie quella proposta da Burberry Prorsum, tra maxi poncho e dettagli shabby-chic. Pregiati velluti e broccati di seta sono stati i protagonisti assoluti della sfilata di Alberta Ferretti, in una collezione in cui notevoli sono i rimandi folk ed etnici, quasi un tributo alla famosa Russian Collection proposta da monsieur Yves Saint Laurent nel lontano 1976.
Richiami etno chic anche da Dries van Noten, in cui si respira piena atmosfera boho-chic. Valentino propone un excursus attraverso gli anni Sessanta e Settanta, spaziando dal mood optical alle suggestioni quasi fatate di abiti che ricordano la magia di Ossie Clark e Thea Porter. Note floreali da Giambattista Valli, sebbene prevalga anche qui un mood swinging che rimanda al decennio precedente.
Protagonista delle passerelle è uno stile wild, che predilige lunghezze maxi e tessuti svolazzanti come lo chiffon di seta. Largo alle stampe, in primis cachemire e paisley, rivisitate nei toni più caldi e nei colori più accesi. E se Dsquared ripropone il mood andino di un genio della moda quale è stato Giorgio di Sant’Angelo, la donna vista da Anna Sui è una santona di lusso direttamente presa in prestito alle comuni anni Settanta.
Il bohémien trova come sempre un valido rappresentante in Roberto Cavalli, che propone dettagli in pieno stile gipsy. Di netta ispirazione etno-chic anche Paul & Joe e Chloé, che propongono capispalla in montone, poncho patchwork e gilet portati sopra abiti svolazzanti dalle proporzioni Seventies.
Il “festival” è un trend che ha preso piede già dal 2014: sdoganato da eventi come il Coachella e il Glastonbury Festival, adorato da icone del jet set internazionale come Sienna Miller e Kate Moss, lo stile boho-chic ha rivoluzionato il guardaroba femminile. Colori accesi, rimandi ad altre culture, evidenti ad esempio nelle stampe batik, la moda anni Settanta è un crogiolo di idee e suggestioni che si mixano mirabilmente, lasciando anche spazio per fornire un’interpretazione personale del mood prevalente.
Jeans scampanati indossati sotto un cardigan a motivi aztechi e un maxi poncho, fino a completare il look con un cappello a tesa larga in feltro di lana, che conferisce un tono intellettuale, e una borsa con le frange: tutto ci parla di Seventies. Anni di piombo vissuti sempre col sorriso, anni che hanno cambiato per sempre il corso della moda e che rappresentano come poche altre tendenze un vero e proprio evergreen dello stile.
Stampe patchwork e ancora montoni visti da Stella Jean. Delicate e romantiche le stampe floreali proposte invece da Gucci, mentre il patchwork è protagonista della collezione Etro, che fa sfilare abiti in tessuti preziosi che sanno di Oriente, e arruola come testimonial un guru dello stile bohémien come Kate Moss.
Jaeger-LeCoultre ha deciso di rendere omaggio alla propria dedizione decennale al cinema e agli artisti che hanno contribuito con originalità allo sviluppo della cinematografia moderna, con una mostra fotografica esclusiva, allestita al Lido di Venezia presso la lounge Jaeger-LeCoultre all’Hotel Excelsior, in occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che si svolgerà dal 2 al 12 settembre 2015.
La mostra, Behind the Scenes, offre una panoramica del processo creativo cinematografico di artisti molto diversi, quali Takeshi Kitano, Abbas Kiarostami, Agnès Varda, Sylvester Stallone, Mani Ratnam, Al Pacino, Spike Lee, Ettore Scola e James Franco, che hanno contribuito allo sviluppo e all’evoluzione dell’arte della cinematografia.
Ogni anno il premio Glory to the Filmmaker, viene infatti assegnato da Jaeger-LeCoultre in collaborazione con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Daniel Riedo, CEO di Jaeger-LeCoultre, ha evidenziato che “la Haute Horlogerie e il cinema condividono valori comuni: entrambi, infatti, ricorrono alla maestria estetica e tecnica per dare vita ai sogni e creare stupore. Jaeger-LeCoultre si avvale del talento dei suoi numerosi artigiani per realizzare segnatempo d’eccezione, proprio come accade nel mondo del cinema, dove i migliori sceneggiatori, registi, attori e tecnici lavorano insieme per produrre veri e propri capolavori cinematografici. Due mondi diversi, pervasi della stessa ingenuità creativa“.
Vincitori del premio Glory to the Filmmaker di Jaeger-LeCoultre
2007 Takeshi Kitano, Glory to the Filmmaker!
2008 Abbas Kiarostami, Shirin
2008 Agnès Varda, Les Plages d’Agnès
2009 Sylvester Stallone, I mercenari – The Expendables
Nasceva cento anni fa l’attrice Ingrid Bergman. Moglie del regista Roberto Rossellini, madre di Isabella, l’attrice svedese è stata una delle più famose dive di Hollywood a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
Fascino svedese che ha incantato il maestro del brivido Alfred Hitchcock, che le affida il ruolo di protagonista in Notorius, l’amante perduta, sarà però l’interpretazione nel celebre film Casablanca a decretarne il successo mondiale, in una struggente love story con Humphrey Bogart sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale.
Il suo volto perfetto rigato di lacrime incorniciato da un Borsalino in quell’addio così struggente, con la promessa di rivedersi a Parigi, è divenuta immagine simbolo degli anni Quaranta.
Vincitrice di tre premi Oscar, al centro delle cronache rosa per il triangolo con Roberto Rossellini e Anna Magnani, Ingrid Bergman aveva la bellezza algida del Nord e lo charme tipico degli anni Quaranta.
Elegantissima in Gattinoni nel film Europa ’51, splendida in Notorius-L’amante perduta al fianco di Cary Grant, con i costumi della celebre Edith Head, Ingrid Bergman è stata nominata nel 1999 dall’American Film Institute la quarta attrice più grande della storia del cinema. Una bellezza ingombrante che però non mise mai in secondo piano il suo talento, la Bergman aveva quella forza e quella modernità tipica dello stile Forties. Perfetta in Casablanca, con i costumi del mitico Orry–Kelly, il film che ne decretò la fama mondiale, rendendola una diva.
Timidissima per sua stessa ammissione, da bambina restò incantata di fronte al mestiere dell’attore, che decise di intraprendere, studiando con dedizione e con una buona dose di stakanovismo.
Un volto espressivo come pochi davanti alla macchina da presa, un’eleganza innata e una grande intelligenza. “Il segreto della felicità è avere buona salute e cattiva memoria” è una sua massima storica.
Incarnazione della bellezza nordica, perfetta per interpretare l’eroina tormentata, la sua sensualità era un sapiente mix di algido e torrido che fece perdere la testa a Roberto Rossellini, da cui l’attrice ebbe tre figli, le gemelle Isabella e Isotta e Roberto Jr.
Dopo una lunga battaglia contro un cancro al seno, l’attrice si spense nel 1982, proprio nel giorno del suo compleanno. L’edizione di quest’anno del Festival del Cinema di Cannes le ha reso omaggio. Il carisma- come dichiarava la stessa diva- era il suo tratto distintivo, insieme all’indipendenza, che ne fece una donna moderna. Il fascino senza tempo di una vera diva.
Per la prima volta al MICAM il nuovo brand di JOSHUA FENU
Il designer italiano Joshua Fenu presenta il nuovo progetto JF LONDON, in occasione della Fiera milanese MICAM, dal 1 al 4 settembre 2015 (HALL 3, STAND E35).
Il nuovo brand Made in Italy, che vede la direzione artistica del celebre creativo, si articola in una produzione diversificata proponendo calzature e accessori Uomo/Donna di altissima qualità, oggetti di culto glamour e ricercati nel design.
Un logo con una stella a cinque punte e delle iconiche suole pink sono il perfetto biglietto da visita per questi nuovi accessori che si affacciano sul mercato carichi del know-how di un direttore creativo come J. Fenu, già consulente creativo per alcune delle maggiori Maison di moda internazionali.
La collezione donna JF LONDON vanta una moltitudine di modelli, da evergreen decolletè e chanel, a vertiginosi e futuristici sandali per ogni occasione, tronchetti open toe fino a praticissime slippers logate in suede. Per l’uomo una rilettura eccentrica di ankle boots in suede e anfibi in pelle nera con dettagli fluo.
Icona del brand la celebre Union Jack, proposta sia per le calzature che per le borse e un’ eccentrica saetta metallizzata.
SNEAKERS
Una varietà sorprendente di sneakers uomo/donna, di pregiata manifattura italiana, arricchite da frange, borchie, pelle pitonata, zip e vernice fluo; in perfetto accordo con lo stile Joshua Fenu.
SIGNATURE COLLECTION BY FENU
Una collezione di calzature uomo che rispecchia l’attenzione al dettaglio e la manifattura italiana tradizionale.
Una rilettura dei classici modelli Oxford e mocassini in vera pelle e suede, da giorno e arricchiti da swaroski, coccodrillo e pelle metallizzata per la sera.
A meno di un anno dal voto il dibattito para-politico su Napoli è bloccato, fermo sostanzialmente a quattro anni fa. Ma se fosse solo “fermo” sarebbe probabilmente meglio di quando – come adesso – il dibattito è essenzialmente “chiuso”, tra gruppi e posizioni che hanno una loro visione e che fanno pronostici fondati letteralmente sul nulla, se non il proprio autoconvincimento.
È un modo “antico” di fare politica, soprattutto a sinistra, che però ha tappe macroscopiche di cui sarebbe bene tenere traccia e memoria. A Bologna si vince comunque, qualsiasi sia il candidato. Poi vinse Guazzaloca. A Napoli si vince comunque, e nella peggiore delle ipotesi si va al ballottaggio. E vinse De Magistris. Parma dopo gli scandali deln centrodestra è si-cu-ra. E vinse Pizzarotti. A Venezia non può che vincere il pd. Livorno rossa la si vince anche se non si candida nessuno. E ha vinto il Movimento 5 Stelle. Possiamo mica perdere la Liguria con la Paita, e (solo) per colpa della “sinistra sinistra” ha vinto Toti, ci mancherebbe. E l’elenco potrebbe anche continuare, semmai con un “De Luca stravince con otto punti di vantaggio” (il giorno prima) che il giorno dopo è diventato una vittoria sul filo di lana di meno di 40mila preferenze. Ecco, dircele queste cose e ricordarcele non guasterebbe. Perchè l’umiltà in politica è una gran bella cosa. Soprattutto aiuta – tutti – a restare coi piedi per terra. Aiuta anche a ricordare che ci si candida e fa politica on per fare l’ultras che esulta per uno scudetto, ma per amministrare il bene comune. Non ci sono coppe da portare a casa, ma un lavoro serio che dopo la campagna elettorale andrebbe svolto tutti insieme, o quanto meno col contributo di tutti. Io sulla mia città in questo mese ho detto poche cose. E mentre è costume della politica che l’affermazione del giorno prima venga sovente ripensata il giorno dopo, mi accorgo che le cose che ho cercato di dire restano quelle. Per questo le metto qui, tutte insieme, in ordine cronologico. È il mio contributo a questo dibattito, che si affanna ancora sui totonomi e che non lascia trasparire alcun contenuto.
All’indomani dei dati della Svimez provai a declinare in satira… [la riflessione seria la trovate qui] Contro questi piagnistei meridionalisti sarebbe una cosa buona chiudere la Svimez. Si perchè ultimamente va molto di moda questo “pensare positivo”, guardare al bello, parlare dell’Italia che funziona. Se non lo fai, se non sei “ottimista”, sei un retrogrado, un gufo della solita sinistra piagnona e masochista che rema contro. Infondo la soluzione è semplice: se i problemi non li documenti non esitono. Nella retorica della comunicazione social alla domanda “e dove sta il link?” se non c’è ti inventi tutto, quindi meglio “togliere il link” e amen. Potremmo però risolvere tutto, e non solo i problemi del sud, con questa logica stringente: se facciamo emigrare tutti i disoccupati cancelliamo la disoccupazione. Pensiamoci bene. Potremmo risolvere la fame nel mondo, il problema dei malati e delle “diverse abilità” in maniere simili… Forse se smettiamo di parlare del debito pubblico (mai così alto nella storia repubblicana) anche quello per miracolo e da solo svanisce. Tempo fa De Magistris a Napoli, nella mia città del resto disse “basta parlare di blatte per strada, le blatte non ci sono, chi ne parla sarà querelato” (vero che spuntarono foto di blatte ovunque e non si ha notizia di querele sindacali, ma accadde anche questo). Sono i tempi bellezza. Sono quelli del #menefrego in trend-list su twitter e di quelli che fanno ironia dicendo “mi aspettavo anche i treni in orario”. Ma quale ironia, i treni sono in orario: sei tu che sei gufo e ci hai anche l’orologio rotto. E dato che la crisi non c’è, puoi anche smettere di fare il taccagno e compratene uno nuovo, che il paese ringrazia.
Meno satirico è quello che scrissi due giorni dopo.
Mentre si dipana il dibattito sul sud, che pare funzionare anche come novello sempreverde tormentone estivo (insieme agli immigrati), e si sentono citare e piovere (nonostante il caldo, o proprio come effetto collaterale del caldo) cifre di ogni tipo genere e dimensione, io ne vorrei citare solo due. Che nel loro piccolo riguardano soldi già disponibili e che riguardano entrambe Napoli.
La prima cifra è 156milioni di euro, e sono i soldi per dragare il porto e per l’ammodernamento delle banchine di attracco. Soldi che il 31/12 torneranno all’Unione Europea perchè – dato che la politica cittadina e quella regionale non si sono messe d’accordo per la nomina di un presidente dell’autorità portuale, la progettazione e realizzazione delle opere non è stata fatta. Alla stessa data tornerà in Europa anche la seconda cifra. Questa volta 101milioni di euro. Che sono i fondi per la riqualificazione del centro antico e storico di Napoli, dopo che queste aree sono rientrate nel partimonio mondiale dell’Unesco. Messe insieme queste due cifre sono 257 milioni (e spicci). A ben vedere hanno tra loro anche una coerenza straordinaria, perchè andrebbero a finanziare l’enorme risorsa-volano dell’economia cittadina: il turismo. Ecco. Seppure 257 milioni vi sembran pochi, cosideriamo che li abbiamo persi. Ma per una volta, senza forche e senza populismi di piazza, sarebbe un bel segnale di rinascita del sud se, pacificamente, semplicemente, chiedessimo tutti conto e che qualcuno rispondesse di questo che – prima di tutto – è un atto di irresponsabilità verso la città e verso il bene e il patrimonio comune.
Fu poi la volta di quando De Magistris divenne “sindaco di Facebook” che commentai così dalle colonne del Roma:
Dopo essere stato sindaco rivoluzionario, sospeso, di strada, reintegrato, oggi De Magistris lancia definitivamente la sua campagna elettorale con un lungo post su Facebook. Che fosse social lo sapevamo, ma stavolta il suo post è con un vero e proprio manifesto politico delle cose fatte e di attacco al pd renziano. Tra le molte accuse “a firma” del sindaco di Napoli ce ne solo alcune difficilmente attribuibili a Matteo Renzi come “Mafia Capitale, inchieste Expo, Venezia Mose”: tutte vicende semmai esplose sotto la sua segreteria e cui lui è chiamato a mettere una pezza. L’atto che da oltre un anno fa infuriare De Magistris è la sua estromissione dalla gestione dell’affaire Bagnoli. “Renzi, dopo anni ed anni di omissioni, sprechi, affari e crimini, invece di dare alla Città le risorse per la bonifica ha deciso di commissariare. Vuole mettere le mani sulla città con le stesse logiche di potere che hanno distrutto parte del nostro Paese.” Su Bagnoli lo scontro è ampio e forte, e ne sentiamo parlare da tempo. Come i nomi ballerini dei presunti super commissari con poteri da superuomo, così come le cifre da capogiro che potrebbero abbattersi (letteralmente) sulla città, e su cui i soliti presuntamente grandi imprenditori e finanzieri anche loro si vogliono letteralmente abbattere per pasteggiare alacremente. Quello che manca sulla questione Bagnoli è una risposta chiara ad una domanda che dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi cifra e nome commissariale: qual è il progetto per Bagnoli? Soldi e nomi per fare che? Realizzare cosa? Quando fai questa semplice domanda si solleva la nebbia, come se Bagnoli fosse in val padana. Nel lungo articolo il sindaco di Napoli fa un elenco di cose fatte, che sono cose vere, almeno parzialmente. Molti sono progetti ereditati dal passato (come le stazioni della metropolitana da lui inaugurate a ripetizione), così come è innegabile l’aver ereditato un bilancio a dir poco disastroso e del quale nessuno degli assessori degli ultimi vent’anni è stato chiamato a rispondere. Spiccano però due elementi. Il primo è che un sindaco che il PD considera decotto e condannato alla sconfitta abbia ricevuto in meno di sei ore oltre 2.000 condivisioni e 3.500 “like”, cui si sommano oltre 1.500 tra commenti e repliche. Indice di una città viva e di un sostegno al sindaco che molti sembrano ostinarsi a non vedere. Dall’altro il vuoto delle repliche del partito democratico, che vanno dalla ilarità all’attacco diretto, senza alcuna proposta nel merito. L’alzata di scudi “a difesa del segretario” a livello nazionale ci sta, ma a livello locale appare decisamente poco credibile, laddove ad un anno dal voto il PD non solo non ha nomi alternativi da proporre, ma non ha un progetto politico, non ha un programma, e nemmeno un’idea di percorso per arrivare ad averne. Il post del sindaco fa discutere e fa schierare. Apre il dibattito sulla città e sull’amministrazione. Tutto questo è comunque politica. Al momento degli altri partiti non si può dire nemmeno questo: nemmeno uno status programmatico o analitico che faccia discutere.
E sempre sul Roma però mi toccava ricordare che
esattamente un anno fa Matteo Renzi venne a Napoli. Era da poco diventato premier ed era il tempo del “giro d’Italia”, delle scuole, delle regioni del sud. Esattamente un anno fa sottoscriveva a Bagnoli un accordo di programma per quell’area: accanto a lui Luigi De Magistris e Stefano Caldoro. Già, esattamente un anno fa: politicamente un’era geologica. Una politica che va sempre più veloce ma che qui al sud resta archelogica. Non sarà un caso quindi che le uniche novità riguardano gli scavi di Pompei: nuove scoperte e qualche nuovo ennesimo crollo. Un anno fa era prima della “fonderia” – sempre a Bagnoli – prima delle primarie in casa Pd per la scelta del candidato governatore, prima dell’elezione di Mario Oliverio in Calabria, di Marcello Pittella in Basilicata, della vittoria di misura di De Luca alle primarie e di meno di 40mila preferenze alle elezioni regionali. Il PD che vince al sud è tutto meno che nuova classe dirigente, ed anche quande quando vince un candidato renziano come Michele Emiliano in Puglia certamente non lo si può definire un “leopoldino”. Un anno fa a Napoli, a Bagnoli, sembrava tutto possibile e imminente, realizzabile – almeno per una volta – in sinergia e accordo tra locale, regionale e nazionale. Le elezioni del “rinnovamento” (almeno auspicato e certamente auspicabile) della classe dirigente sono state la cassazione del dato che qui i signori delle tessere che migrano da una maggioranza interna all’altra la fanno da padroni e dettano tempi, modi e condizioni. Ed ecco che mentre un nuovo scavo ci regala un’altra meraviglia di Pompei, e mentre Carditello si avvia al recupero avviato dal coraggio di un ex ministro come Bray (che tutti si chiedono ancora perchè non sia stato confermato), Bagnoli resta la pietra angolare dello scontro politico, amministrativo, finanziario. Ma resta anche come monumento e cartina di tornasole dell’interesse concreto e tangibile per temi come recupero ambientale, occupazione, sviluppo, attenzione al sud, investimenti, riqualificazione… E allora ad un anno esatto da quella visita, da quella firma, da quegli annunci, resta un decreto ancora vuoto, parziale, senza alcuna nomina, senza un progetto, senza un’idea. E Bagnoli diventa il metro che misura la distanza tra la velocità della politica e la concretezza del cambiamento. La politica, e la comunicazione politica, possono anche essere velocissimi ed efficaci. Ma la concretezza passa per le cose che cambiano. O quanto meno che si muovono. Stavolta però la responsabilità non è dell’amministrazione comunale, regionale, e nemmeno del premier. Semmai della classe dirigente locale del suo steso partito che evidentemente non riesce ad essere efficace nel far comprendere le urgenze, o peggio, che intende, ancora una volta, usare l’ipotesi di un passo in avanti su Bagnoli per la costruzione della campagna elettorale delle prossime amministrative.
Ad oggi tutti pensano che la vittoria sia scontata: centro destra, PD, il sindaco e il M5S. Almeno se ci si ferma a discuetere ed ascoltare. La realtà è ben diversa. Ad oggi il PD non ha un candidato e non ha un prcorso chiaro per individuarlo, e probabilmente si ricorrrerà ad una scelta calata dall’alto, ennesima pietra lapidaria su una classe dirigente sempiterna.
De Magistris ha un suo zoccolo duro non inferiore al 20-25%. Il Movimento 5 Stelle ha un suo bacino abbastanza definito non inferiore al 20-25%. Il centro destra unito ha il suo storico, consueto 35-37%. Ciò che resta è il PD. Meno qualche punto percentuale ad una sinistra con cui non si vuole né può alleare. E meno le sempiterne e sempre presenti liste civiche, candidati di opportunismo e opportunità, varie ed eventuali. La domanda è: qualcuno davvero oggi può dire chi e come vincerà a Napoli? L’umiltà, come dicevo all’inizio, è una bella virtù. In politica appare un pò desueta. Rivalutarla non farebbe male. E aiuterebbe a fare scelte più costruttive e opportune.
Il fascino dell’Oriente lo aveva nel DNA, essendo nata a Gerusalemme e cresciuta tra Siria e Libano. Una visione unica della moda, vissuta come uno dei più autentici piaceri della vita, unita ad un’esistenza trascorsa all’insegna del cosmopolitismo, Thea Porter è stata colei che ha introdotto lo stile boho-chic nell’Inghilterra degli anni Sessanta.
Dorothea Noelle Naomi Seale nasce il 24 dicembre 1927 a Gerusalemme, in una famiglia di missionari cristiani. Il padre Morris S. Seale è un teologo e la madre una missionaria franco-tunisina.
Cresciuta a Damasco, la giovane Thea sviluppa una predilezione per i tessuti preziosi, che costituiranno la cifra stilistica delle sue creazioni. È in buona parte a lei che dobbiamo le suggestioni orientali sfoggiate nella moda dell’Inghilterra degli anni Sessanta.
Mentre lavora nella biblioteca dell’ambasciata britannica a Beirut conosce Robert Porter, il suo futuro marito. I numerosi viaggi della coppia, tra Giordania, Iran, Italia e Francia, arricchiscono ulteriormente il patrimonio visivo e culturale della giovane Thea, che vive pienamente la rivoluzione di quegli anni, trascorrendo le sue serate nei night club e collezionando stuoli di abiti, come lei stessa ha dichiarato.
Amante della pittura e dell’interior design, dopo la separazione dal marito si trasferisce a Londra, nel maggio del 1964. Qui lavora come interior designer per Elizabeth Eaton e due anni più tardi, nel 1966, inaugura a Soho il suo primo negozio il Thea Porter Decorations Ltd., al numero 8 di Greek Street, indirizzo divenuto celebre grazie a lei.
Thea nel suo negozio vende decorazioni esotiche, monili antichi, tappeti e mobili in stile etnico, rivisitati dal suo gusto e avvolti in stoffe pregiate.
Sono i favolosi Swinging Sixties e Londra, da sempre capitale del melting pot, sviluppa un particolare gusto per l’esotico. Il piccolo negozio di Thea appare quasi come un bazar delle meraviglie e diviene in breve meta prediletta di hippie, musicisti famosi, attori e curiosi di ogni genere.
Ben presto si impone la richiesta da parte della clientela femminile di poter vestire di quelle stoffe così raffinate e particolari, ed è così che Thea diviene designer. I tessuti damascati importati dall’Oriente, i broccati di seta, i velluti di tradizione ottomana, il gusto particolare nel confezionare i capi fanno di Thea Porter l’iniziatrice del boho-chic.
Il capo principe che la rende famosissima in appena un anno è il caftano. La particolare veste, di origine orientale, era stata sdoganata in Inghilterra da Elizabeth Taylor, che aveva indossato un abito di Gina Fratini simile a un caftano per il suo secondo matrimonio con Richard Burton.
Ma nelle creazioni di Thea Porter le suggestioni orientali si mixano ad un modo nuovo di concepire la moda: le stampe indiane, i materiali antichi che sanno di Mediterraneo, il mood gipsy sono elementi che affascinano la Swinging London, che ama vestire esotico e respirare un’aria internazionale. Già nel 1967 la sua attività cresce in modo esponenziale e arriva all’estero, fino alla Grande Mela, grazie all’opera di Diana Vreeland, celebre fashion editor di Harper’s Bazaar, che si innamora perdutamente delle sue creazioni e le dedica copertine e servizi di moda.
Tra i suoi clienti più affezionati ci sono esponenti del jet set internazionale e dell’intellighenzia, come anche teste coronate: da Talitha Getty, che adorava i suoi caftani, a Lauren Bacall, da Bianca Jagger e Mick Jagger a Cat Stevens e Pete Townshend, da Liz Taylor e Barbra Streisand a Baby Jane Holzer e Jutta Laing, da Lady Amanda Harlech alla scrittrice Edna O’Brien, da Veronique Peck alla Principessa Margaret fino alla principessa Inaara Aga Khan.
Thea Porter veste i Beatles e i Pink Floyd e ottiene centinaia di migliaia di cover e di servizi, da Vogue ad Harper’s Bazaar, fino alla conquista di Hollywood.
Il successo è tale che nel 1971 il marchio Thea Porter apre uno store a New York, grazie ai finanziamenti di Michael Butler, il produttore del musical di Broadway “Hair”, e nel 1977 apre un secondo negozio a Parigi.
Anche dopo la chiusura dello store londinese la designer continua ad ottenere consensi, e nel 1986 inizia un’attività con la principessa Dina di Giordania in un negozio più piccolo di nome Arabesque. Da lì in poi si perdono le sue tracce, non senza grande dispiacere da parte di coloro che ne avevano amato lo stile. La stilista muore a Londra il 24 luglio 2000 dopo aver combattuto a lungo con l’Ahlzeimer.
Riconosciuta antesignana della moda hippie chic, venerata post-mortem per le sue creazioni bohémien, che includevano caftano, turbanti, pantaloni a zampa, i capi di Thea Porter costituiscono oggi un’importante fetta di mercato di moda vintage e sono tra i più ambiti dai collezionisti. Capi dal sapore antico e dalle suggestioni folk, amati da celebrities ed icone di stile, come Kate Moss, che ha indossato spesso creazioni vintage di Thea Porter.
Particolarmente costosi, anche in virtù della qualità pregiata dei materiali di fabbricazione, i capi di Thea Porter sono tra i più venduti nelle boutique specializzate in vintage. Inoltre il genio della designer è stato recentemente celebrato a Londra, con una mostra presso il Fashion and Textile Museum che si è conclusa lo scorso maggio.
Nasino alla francese e bocca a cuore, grande fotogenia e personalità ribelle: Charlotte Casiraghi si è imposta sempre più come un’icona di stile tra le più ammirate.
La bellezza della mamma Carolina e il fascino senza tempo della mitica nonna Grace Kelly si incontrano in lei in modo mirabile. Ventinove anni compiuti lo scorso 3 agosto, una laurea in Filosofia alla Sorbona, Charlotte Marie Pomeline Casiraghi è la secondogenita della principessa Carolina di Monaco.
Blasonata it girl dallo stile copiatissimo, la principessina appena sedicenne è stata inclusa dalla rivista Vanity Fair nella Lista delle donne meglio vestite al mondo.
Seguitissima dai giornali di gossip per le sue vicende sentimentali, provetta amazzone e mamma di Raphaël, avuto dall’attore Gad Elmaleh, il viso pulito e la bellezza acqua e sapone hanno fatto della principessina un’icona di bellezza. Il suo stile piace e affascina, a partire dalle uscite ufficiali della giovane, che ammette che, sebbene ami cambiare spesso d’abito, non ne ha mai fatto un’ossessione.
La principessa sfoggia nella vita di tutti i giorni uno stile fresco e giovane. Suggestioni grunge in certe mise sfoggiate dalla Casiraghi in giro per Parigi si alternano a linee pulite ed essenziali. Uno stile sofisticato ed una grande femminilità messa in risalto dai tacchi vertiginosi e dai lunghi abiti da sera indossati nelle occasioni ufficiali, come il Ballo della Rosa, che la vede da anni protagonista indiscussa.
Tanti i look bon ton sfoggiati da Charlotte, che veste spesso Chanel: indimenticabile è la mise rosa baby con veletta nera sfoggiata al matrimonio di Alberto di Monaco e Charlene Wittstock.
Mood sporty chic in Gucci, che ha reso omaggio all’equitazione, la passione preferita di Charlotte, amazzone a livello agonistico. Bella anche senza un filo di trucco addosso, la gravidanza non ha cambiato il suo fisico atletico, messo in evidenza anche in un outfit semplice come jeans e camicia.
Un volto dai tratti fanciulleschi e dalla sensualità appena accennata che Gucci ha saputo mirabilmente mettere in evidenza, volendola a tutti i costi come testimonial.
Apparsa più volte sulla cover di Vogue, fotografata -tra gli altri- da Mario Testino e Peter Lindbergh, Charlotte è camaleontica e versatile: quasi una diva per l’obiettivo di Testino, che ne immortala lo charme blasonato, intellettuale e sofisticata nelle foto che la ritraggono per Vogue UK di luglio 2013.
Una preferenza per i look bohémien, come il lungo abito Zara sfoggiato recentemente alle isole Borromee, location scelta dal fratello Pierre per il suo matrimonio con Beatrice Borromeo, la Casiraghi ha gusto e personalità da vendere. Eclettica e glamour in Missoni, sempre per il matrimonio del fratello, ha incantato tutti indossando per il ricevimento un lungo abito floreale. Uno stile da copiare.
E’ ufficiale la notizia dell’ abbandono del mondo della moda di Cara Delevingne.
La modella londinese, a soli 24 anni ha già calcato le passerelle di tutto il globo arrivando ad essere una delle top model più pagate, testimonial di brand e campagne.
La motivazione pare essere lo stress, che ha portato la Delevingne a dichiarare: “Mi sentivo vecchia. Sono arrivata a odiare il mio corpo, a rifiutarmi da sola.”
A peggiorare la situazione instabile della modella, una psoriasi che le ha creato imbarazzo anche nei camerini, durante la posa make-up, dove truccatori avevano iniziato ad usare dei guanti per non toccarla.
Cara Delevingne confessa di aver iniziato ad odiare il suo corpo, sempre sotto i riflettori e sotto giudizio, cosa che ha aggravato il suo malessere e intaccato la sua estrema sensibilità.
Già a 15 anni infatti la modella ha sofferto di depressione, forse a causa di una situazione difficile in ambito familiare: pare che la madre facesse uso e abuso di eroina.
Ma la modella più ribelle della moda non si fermerà qui, nei suoi piani futuri c’è il cinema, chissà che non le serva da medicina.
Caleb è un giovane programmatore che si aggiudica la possibilità di trascorrere una settimana nell’in montagna di Nathan Bateman, il CEO della società per cui lavora, BlueBook, scoprendo presto di essere stato scelto per diventare una pedina di un esperimento ambiziosissimo del suo capo: testare una macchina umanoide dotata di una intelligenza artificiale e aspetto femminile. I rapporti fra i tre diventano subito torbidi, e il gioco del non detto, delle bugie inconfessabili e della manipolazione porterà ad un vortice dagli esiti non calcolati.
Il film è per certi versi sicuramente interessante, anche a prescindere dalla splendida motion graphic affidata ai Pinewood Studios di Londra (già noti alle cronache per aver curato, uno su tutti, gli effetti speciali del pluripremiato Gravity). Il regista Alex Garland, già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle, alla sua prima prova con un lungometraggio sa dosare acceleratore e il freno, creando la quiete prima della tempesta e alzando il ritmo quando serve. Forse non una regia estremamente personale, ma funzionale e tutto sommato godibile, coronata da una sceneggiatura con sprazzi gustosi.
Mentre in Her, forse il film più vicino a Ex-machina per tematica, c’è una delicata attenzione nel suggerire un mondo credibile in cui si inserisce la vita dei personaggi, qui abbiamo un laboratorio sperduto e un triangolo di individui in guerra fredda fra loro: un microcosmo che ci libera da questa esigenza. Una buona idea, produttivamente parlando, ( il minor numero di setting riduce i budget e concentra le energie altrove), che non lascia tuttavia completamente appagato lo spettatore, il quale vorrebbe vedere di più, molto di più. Uscendo dalla sala si ha l’impressione che non tutto il potenziale dell’idea sia stato espresso, a partire dalla figura di Nathan Bateman (Oscar Isaac), carismatico e visionario, e che si potesse scavare molto di più nella natura di attrazione-repulsione dei protagonisti per le creature umanoidi, così distanti ma così vicine.
La riflessione che viene portata avanti su come la conoscenza in 2D attraverso i codici binari di un monitor non possa appagare davvero l’uomo ( o in questo caso, la macchina) è interessante ed evidentemente attualissima, nell’era degli Hikikomori, ma poco o nulla aggiunge rispetto a quanto cinema e letteratura già non abbiano detto.
Ex machina è l’ultimo parto di un filone sci-fi che il cinema ha da sempre cavalcato, quello della interazione fra macchina senziente e uomo, e quasi sempre in chiave distopica. Un filone che dai poetici 2001-Odissea nello Spazio (1968) a Blade Runner (1982), passando per i super blockbuster Terminator (1984), Matrix (2000) e relativi sequel, fino a Her (2013) ha sempre riflettuto sul tema di cosa sia “il proprio” dell’essere umano, la scintilla che lo renda inequivocabile umano. La domanda intorno a cui gira la pellicola è semplice, quella del celebre Test di Touring: quando una intelligenza artificiale non viene percepita come tale da un umano, dove inizia uno e dove finisce l’altro? La risposta, meno.