Quattromani: il rituale dell’Argia domina la collezione del duo di stilisti

Ancora folklore sardo nella collezione autunno/inverno 2016-17 proposta dal marchio Quattromani e presentata nell’ambito dell’evento “New designer at Coin Excelsior” il 28 gennaio scorso.

Ecco che rituale dell’Argia, definito dall’antropologo Ernesto de Martino il “Tarantismo di Sardegna”, riprende vita attraverso i print disegnati da Massimo Noli e Nicola Frau per omaggiare tale tradizione. Il ragno, un insetto simile ad una grande formica scivola con le sue lunghe zampe su gonne a ruota, blousons, trousers e parka.

La collezione punta sul sapore neo-artigianale e su forme neo-seventies. Ciò trova conferma nella scelta dei tessuti, come la maglia a tubolari, la garza stampata e l’eco pelliccia.

Pencil skirts, pantaloni in panno, lunghi dress fluttuanti e impreziositi da un maxi fiocco sul collo, gonne-pantaloni in gabardine full print, bastano per incorniciare il défilé in una silhouette fasciante.

L’argia domina anche la scelta della palette di colori che non dissimula il vello del ragno: in una variegata scelta di tonalità come cammello, il blu, il rosa caramella, il bianco e l’azzurro, vincono il mostarda, il rosso e il nero per definire l’accordo cromatico della collezione.

 

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Pitti Uomo: Kinloch presenta la collezione “Salotto inglese”

Kinloch è il neonato brand di lusso Made in Italy, dedicato sia a lei che a lui, che mescola un design originale al gusto retro. Il marchio, seppur fondato di recente ha già conquistato i mercati internazionali, soprattutto quelli giapponesi.

L’esperienza e l’entusiasmo del team formato dalla milanese SUM Ventures di Davide Mongelli (Presidente del brand n.d.r.) prosegue la corsa senza mai arrestarsi, ottenendo i favori di una sempre crescente clientela che ama lo sfarzo e il glam.

 

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Kinloch presenta a Pitti Uomo 89 la collezione Salotto inglese
Kinloch presenta a Pitti Uomo 89 la collezione Salotto inglese

 

 

Kinloch è savoir-farire, lusso, tradizione. È cura nei dettagli e scelta di materiali di assoluto pregio.

La nuova collezione autunno/inverno 16-17 presentata durante la scorsa edizione di Pitti Uomo è il racconto di un viaggio ricco e sorprendente che per la prima volta in assoluto approda nella “snobbish” inglese lasciandosi alle spalle le mete esotiche esplorate in passato.

Cravatte, sciarpe, pochettes e foulards vengono decorati con patterns superlativi che disegnano preziosi vasi cinesi sulla seta, ispirati dalle residenze aristocratiche della “Old England”.

Una narrazione che tocca picchi importanti attraverso le “English Tales” nella quale simpatiche api, cani, lattughe, gatti e conigli sono i protagonisti assoluti di un dettaglio che conta.

 

Per saperne di più www.kinloch.it

Lo stile di Lauren Santo Domingo

Se l’eleganza avesse un corpo, sarebbe sicuramente il suo: sottile ed eterea, la figura slanciata capace di esaltare qualsiasi mise, i lunghi capelli biondi che incorniciano un volto dai lineamenti squadrati. Emblema dello stile wasp americano, Lauren Santo Domingo è uno dei volti più celebri del fashion biz.

Una carriera sfolgorante ed uno stile imitatissimo l’hanno consacrata influencer e trendsetter, mentre la sua eleganza l’ha portata ad apparire sulla Hall of Fame dell’International Best Dressed List stilata dalla rivista Vanity Fair lo scorso 2015.

Figlia di un imprenditore e filantropo americano, all’anagrafe Lauren Davis, la bionda imprenditrice ha sposato lo scorso 2008 il famoso discografico colombiano Andrés Santo Domingo, divenendo cognata di Tatiana Santo Domingo e Andrea Casiraghi. Il matrimonio, atteso come l’evento più glamour dell’anno, ha tenuto banco per mesi sui tabloid di mezzo mondo. Quarant’anni il prossimo 28 febbraio, cresciuta a Greenwich, in Connecticut, Lauren, algida e bionda, sarebbe piaciuta ad Alfred Hitchcock, con quella sua eleganza un po’ gelida.

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Lauren Santo Domingo è nata il 28 febbraio 1976
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All’anagrafe Lauren Davis, nel 2008 l’imprenditrice ha sposato Andrés Santo Domingo
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Lauren Santo Domingo è contributing editor di Vogue e co-fondatrice del sito Moda Operandi

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Cresciuta a Greenwich, in Connecticut, la bionda Lauren ha sempre amato la moda


Una carriera iniziata come modella per Sassy, magazine per teenager molto in voga negli anni Novanta. L’imprenditrice ha ammesso più volte di aver desiderato da sempre di lavorare nel mondo della moda. Dopo gli studi la bionda Lauren ha messo in curriculum anche un’esperienza come PR per Oscar de la Renta, tra i suoi designer preferiti. Poi la fondazione di Moda Operandi, nel 2010, in collaborazione con Aslaug Magnusdottir, e, da lì, la consacrazione a guru della moda.

Moda Operandi si è imposto in breve come uno tra i siti web più amati dai fashion addicted di tutto il mondo: l’idea le venne guardando le sfilate di moda e sognando, da fashionista che si rispetti, di poter indossare al più presto i capi visti sulle passerelle. Il sito si distingue infatti in quanto offre la possibilità di fare acquisti senza dover aspettare i lunghi tempi di consegna normalmente previsti. M’O ha aperto diverse sedi nelle principali capitali europee, a partire da Londra. Il sito offre un’ampia selezione di capi, accessori di lusso, come la celebre Birkin Bag di Hermès, e numerose collezioni di gioielli.

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Lauren Santo Domingo è un’imprenditrice, un’influencer ed un’icona di stile
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L’imprenditrice è stata inserita dal New York Observer tra le 100 newyorkesi più influenti degli ultimi venticinque anni
Lauren Santo Domingo in pelliccia Marco de Vincenzo
Lauren Santo Domingo in pelliccia Marco de Vincenzo
Lauren Santo Domingo indossa un top Johanna Ortiz
Lauren Santo Domingo indossa un top Johanna Ortiz
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Nel 2010 Lauren Santo Domingo ha fondato Moda Operandi insieme ad Aslaug Magnusdottir

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Trench, jeans e ballerine: la quintessenza dello stile


Nel 2005 la bionda Lauren torna a far parte della redazione di Vogue, dove aveva iniziato anni prima a lavorare come editor: con la sua rubrica “APT with LSD” entra negli appartamenti delle donne più influenti del fashion biz, affermandosi anche come una delle firme più seguite e apprezzate della celebre testata.

Presenza fissa sulle riviste patinate come anche nei front row delle sfilate e nel parterre degli eventi più glamour ed esclusivi, Lauren Santo Domingo secondo il New York Observer è una delle cento newyorkesi più influenti degli ultimi venticinque anni. La bionda fashion editor e il marito Andrés formano una coppia molto glamour e sono spesso paparazzati negli eventi mondani, come illustri esponenti di quel jet set internazionale che forse oggi apparirebbe annacquato senza icone della portata di Lauren. Il suo nome, divenuto celebre -quasi un logo vivente- viene spesso abbreviato come LSD.

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Lauren Santo Domingo è musa di stilisti del calibro di Proenza Schouler, Nina Ricci ed Eddie Borgo
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La bionda fashion editor è amante delle pencil skirt e degli abiti scultura
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Lauren Santo Domingo è considerata l’ultima icona wasp
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Gonna Derek Lam e giacca paillettata Salvatore Ferragamo

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La carriera di Lauren Santo Domingo è iniziata con uno stage come PR presso Oscar de la Renta


Da anni considerata tra le donne più eleganti del mondo, musa di stilisti del calibro di Proenza Schouler, Nina Ricci e Alexander Wang, Lauren Santo Domingo è una brillante trendsetter, capace di anticipare le tendenze e fiutare i futuri talenti, tra cui Delpozo, di cui ha spesso indossato le creazioni. Fotografata da nomi del calibro di Annie Leibovitz e Mario Testino, non c’è rivista patinata in cui Lauren Santo Domingo non sia apparsa, da Vogue Paris a Vogue Spagna, da Elle a Town & Country, da W a Vanity Fair.

La bionda editor viaggia spesso tra Londra, New York, Cartagena, in Colombia -paese di origine del marito- e Parigi, dove vive nel quartiere Saint Germain, in un lussuoso hôtel particulier. Mamma di due bambini, sublime incarnazione della più autentica lady dell’alta società americana, l’editor è da sempre in prima linea nel valorizzare i nuovi talenti. Tra i suoi designer preferiti spiccano Giambattista Valli, Oscar de la Renta, Charlotte Olympia, Dries Van Noten, Dolce & Gabbana e Josep Font di Delpozo. Il suo stile tradisce la sua vita cosmopolita e la sua indole raffinata e sofisticata. Icona di stile contemporanea dalle mise sempre apprezzate, Lauren Santo Domingo sfoggia uno stile sempre impeccabile, che indossi capi sartoriali o abiti da gran soirée. Una predilezione per le pencil skirt e per gli abiti scultura, dal sapore couture, il suo stile è tutto da imitare.

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Uno dei look più iconici dell’imprenditrice
Lauren Santo Domingo in Oscar de la Renta ai Met Gala 2014
Lauren Santo Domingo in Oscar de la Renta ai Met Gala 2014
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Lauren Santo Domingo in John Galliano vintage

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Lauren Santo Domingo in Giambattista Valli Couture



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Lo stile di Anna Wintour

Mattel rilancia la Barbie che somiglia alle donne vere

Era il lontano 9 marzo 1959 quando Mattel commercializza per la prima volta la Barbie: la bellissima icona plastificata, vestiva all’epoca un costume a righe e portava gli occhiali da sole modello butterfly indossati su una folta chioma raccolta in una lunga coda. Sono trascorsi ben 57 anni di successi spesso però oscurati dalle tante critiche mosse nei confronti dell’azienda perché commercializzava modelli di bellezza che non rappresentava totalmente la realtà.

 

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Sta di fatto che la Barbie è stata per molti anni considerata esempio da seguire per le ragazzine di tutto il mondo. In lei, oltre la chioma bionda e lucente, si apprezzava anche il fisico statuario e il suo status symbol. Il castello in cui abitava, la maggiolino che guidava e infine i suoi abiti, sempre di tendenza.

La notizia che oggi ha davvero del sorprendente e che siamo sicuri, farà felice tutte le donne del pianeta, è che Barbie non sarà più un modello irraggiungibile; quell’esempio che ha spinto molte adolescenti ad avere un rapporto malato con il proprio corpo spingendole nel tunnel buio dell’anoressia.

 

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Sette tonalità di carnagione, ventidue toni di occhi diversi, ventiquattro hairstyles proposti e quattro tipologie di corpi differenti.

La gamma meno stereotipata di bambole oggi presente sul mercato, rilancia il modello curvy e small per accontentare le bellezze latine e tall per aggraziare quella fetta di mercato sempre più crescente di donne altissime.

Evelyn Mazzocco, vice presidente e global manager di Barbie ha così commentato la scelta di incrementare la gamma di bambole: “Siamo convinti di avere la responsabilità nei confronti di ragazze e genitori di riflettere una visione più ampia della bellezza.

 

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THE HATEFUL EIGHT: LO SPAGHETTI WESTERN FIRMATO TARANTINO

Il Maestro è tornato, con il suo ottavo capolavoro, celebrazione assoluta dello stile tarantiniano in versione western. Ed è già cult.

Attesa finita: il Maestro del cinema pulp è tornato e, come ormai di consueto, ha fatto centro. Questa volta più che mai. Torna Quentin Tarantino e lo schermo si ritinge di quel rosso puro che non solo è l’emblema del suo “fare cinema” riempiendo la pellicola di scene crude e ricche di quel sangue rosso vivo, ma bensì anche di quel rosso associato alla passione, la stessa che il regista riesce con ogni suo lavoro ad infiammare in un pubblico che ormai lo ha consacrato a mito, un regista ribelle capace di trasformare lunghe scene di violenza in veri e propri cult.

 

Lo aveva fatto agli esordi con il mitico Pulp Fiction, con Le Iene, con Kill Bill e via dicendo e quest’anno lo ha riconfermato portando sul grande schermo il suo ultimo grande lavoro: The Hateful Eight. L’ottavo film di Tarantino, proiettato in anteprima solo in tre sale in tutta Italia (il Teatro 5 di Cinecittà, il Cinema Arcadia di Melzo (Mi) con super tecnologia audio firmata Doldy e realizzata da Sangalli Tecnologie di Bergamo e il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna) è già stato definito dalla critica come la consacrazione del genere “spaghetti western” alla Tarantino. Se già con Jango Tarantino si era addentrato in questo “terreno” da lui tanto amato, con The Hateful Eight è riuscito a riproporre in tutto e per tutto un film che non solo ha tutto il sapore di quei film wester tanto amati dal cinema americano, ma in più ha inserito tra i mm di questa pellicola tutto il suo stile inconfondibile.

 

E parlando di mm non si può non porre l’attenzione sulla scelta del Maestro di portare sul grande schermo un film in 70 mm, formato di pellicola deluxe quasi in disuso, costoso ma dalla resa extra luminosa e dalla dinamica del colore imbattibile. Una scelta che porta lo spettatore quasi ad entrare direttamente nel film, proiettandosi in ogni singola scena. Il risultato è a dir poco stupefacente, amplificato da un’altra chiave di volta alla Tarantino, le musiche, sempre intense, profonde, incisive e ovviamente in antitesi con la scena proiettata.

 

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E se poi si conclude dicendo che ogni singolo pezzo è siglato dal grande Ennio Morricone… non serve andare avanti. Ogni nota buca lo schermo e si fonde con esso per rendere vivida e profonda ogni sequenza. E così dallo scenario innevato delle montagne del Nord America si apre The Hateful Eigth, il cui svolgimento, in contrasto con molti altri miti di Tarantino girati in ambienti che cambiano in un batter d’occhio, avrà come sfondo solo queste montagne e l’ Emporio di Mannie, che servirà ai protagonisti per ripararsi da una bufera di neve.

 

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Proprio in questo piccolo spazio il film troverà il suo compimento, in una sequenza di scene che, a differenza delle altre sette bobine del Maestro, non troveranno la velocità dell’azione ma bensì il lento scorrimento della trama. Effetto voluto ovviamente perché quello che Tarantino ha creato è un film da gustare con calma, scena dopo scena, in una prima parte quasi troppo lenta e senza sangue per essere un suo film. Ma nessun problema: il secondo tempo sarà una discesa senza freni verso il macabro, crudo e sanguinolendo stile tarantiniano. Con una nota in più: gli amanti del genere non potranno assolutamente mancare di notare come la stesura perfetta di questo copione richiami inesorabilmente gli enigmi di una delle più amate gialliste della storia, Agatha Christie (non a caso uno dei cow boy protagonisti si spaccerà per inglese e porterà un cappello che quanti hanno amato il celebre detective Hercule Poirot non potranno non avere notato?!).

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Sta di fatto che il richiamo a quei “10 piccoli indiani” che uno a uno moriranno in un gioco misterioso dove non sarà chiaro nè  l’assassino nè l’innocente vi è tutto. Cambia lo scenario, ovviamente, ma la logica che spingerà gli otto cacciatori di taglie protagonisti ad una eliminazione reciproca vi è tutta. Con un “… e alla fine ne resterà solo uno” che non poteva però essere applicato da Tarantino. E qui, solo qui, piano piano, scena dopo scena, con salti temporali propri dello stile pulp, mixati a quel “mexicans standoff” (ovvero il “triello” nel quale tre personaggi armati di pistola si tengono sotto tiro l’un l’altro-tanto amato da Sergio Leone), il film ci svela tutti i suoi perché e la storia fitta di dialogi ben creati e sangue a più non posso consacra ancora una volta il mito di Tatantino. Un grande applauso al grande Maestro pulp quindi, che non ha deluso, anzi, ha riconfermato il suo genio e la sua maestria nel trasformare anche la scena più macabra in una sequenza cult. E se la grande Agatha fosse stata con noi in platea ieri sera, beh, siamo sicuri avrebbe abbozzato un sorriso. O così la vogliamo pensare.

 

 

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Santillo 1970 – l’amore per le tradizioni

Cosa manca ad alcuni “artisti” per essere definiti tali? L’amore. L’amore per quello che fanno, per il proprio mestiere, per il pennello che tinge la tela, per il soggetto che stanno fotografando. L’amore come elemento essenziale, come la mezza tinta che rende un quadro perfetto – questo è quello che non manca a Santillo 1970 – l’amore per la propria terra.

Ed è alla loro terra d’origine, la Calabria, che i fondatori  Santillo 1970 dedicano la  nuova collezione autunno-inverno 2016/17 e al progetto speciale Radici Project.

Radici Project pone come obiettivo quello di recuperare le antiche lavorazioni artigianali, utilizzando le materie prime del territorio. La ginestra calabrese, un bellissimo fiore dal giallo intenso, viene mescolata al lino e al cotone, rendendola così più morbida. Il risultato è un tessuto di gran qualità, successivamente lavorato attraverso antichi telai di inizio ‘900 restaurati.  Prodotti unici, autentici, che hanno una “vita da raccontare” quelli di Santillo 1970 – che racchiude, in questa capsule, le lavorazioni croquette per le cravatte “handmade”.

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lo showroom Santillo nel cuore di Milano


Nella collezione autunno-inverno 2016/17 ritroviamo il grande attaccamento di Gennaro e Saverio Santillo per la letteratura e i viaggi, capi dal sapore antico che ci riportano ai romanzi di J. R. R. Tolkien – e allora le sfumature saranno verdi come i boschi incantati, marroni corteccia, rosse come il fuoco e blu intense come i cieli di un paesaggio rurale.

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l’uomo Santillo è amante del buon gusto, dei viaggi, della cultura


Tutto è retrò, compreso lo showroom situato nel cuore di Milano, a Porta Venezia, dove tra i manichini risalta la forza del brand per l’attenzione ai dettagli – polsini, asole, colletti e rifiniture – sempre e rigorosamente realizzati a mano.

 

 

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la tecnica utilizzata per la creazione dei capi, trae ispirazione dalla sartoria napoletana


 

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sapori retrò allo showroom Santillo


Un viaggio dove la classe, l’eleganza e il buon gusto ritornano in auge, radici al passato, verso gli anni ’30 – ’40, anni che, secondo Gennaro Santillo, rappresentano la massima espressione dello stile.

 

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è agli anni ’30 e ’40 che trae ispirazione il guardaroba Santillo


La collezione FW 2016/17 è composta da dieci capi e si distingue per l’utilizzo delle mescole di pregiati filati quali flanella, cachemire, fustagno, cotone nelle due versioni “classic”, gli immancabili monofilo e brillanti come il drill, e “rough”.

New entry per questo nuovo progetto è il capo “daily use” ricercato ma versatile. Una camicia che non è più ancorata alle vecchie rigide regole del dress code. Sempre attuali sono i modelli “cult” dell’azienda calabrese, fra tutti la polo-camicia.

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la camicia Santillo


 

La storia di Santillo 1970 nasce nel secondo dopoguerra nella bella Napoli, e arriva a noi oggi grazie alla loro passione, alle tradizioni, all’ amore per la famiglia e per la propria terra, una storia dove l’etica e le pratiche sartoriali sono il “leitmotiv” del brand.

Santillo 1970 ha ancora molto da raccontare, è il libro che abbiamo appena iniziato a leggere e non vorremmo finisse mai.

 

YOUTH CULTURE : UN BRAND CHE GUARDA AL MEDIO ORIENTE – MALIBU 1992

E’ certamente bizzarro e incuriosisce che la collezione primavera estate 2016 uomo del brand Malibu 1992 sia pensata per gli uomini d’affari del Medio Oriente, come ad esempio Dubai.


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Malibu 1992 SS 16 Campaign



Si andrebbe dunque a collocare in spazi ipermoderni, dove si respira aria di multiculturalità.
Un’interessante evoluzione per il brand di Dorian Gray, designer che vive tra Londra e Milano, che è innanzitutto una fucina artistica: nato come gioielleria per millionaire parvenu che sembrano viaggiare su jet privati e trascorrere il tempo su spiagge di sabbia bianca e mare cristallino.


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Malibu 1992 SS 16 Campaign



Mentre le colonne dorate e i templi hanno caratterizzato la parte che riguarda la gioielleria, in un’emozionante tributo alle greche e alla iconografia di Versace ai tempi di Gianni, la collezione uomo primavera estate per l’uomo è un’indagine stilistica sull’estetica del petrolio. I capi sono impreziositi da ricami neri e placce d’oro metalliche realizzate artigianalmente. La giacca a prova di tempesta di sabbia protegge il volto, è doubleface ed è il capo più iconico di questa collezione di un brand che ha già conquistato le regine del rap/pop d’oltreoceano ( Iggy Azalea e Rihanna, per citarne due).

Ispirazione bizantina per l’Alta Moda firmata Valentino

Le dee di Valentino incedono sicure e a piedi nudi, leggiadre e su petali di rosa e ranuncoli, su una passerella che racconta un passato fastoso e mai dimenticato.

Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri si lasciano suggestionare dalle danzatrici predilette dallo stilista Mariano Fortuny y Mazadro (noto come Mariano Fortuny, figlio del celebre pittore catalano Mariano Fortuny y Marsal) per celebrare una donna che prende le sembianze di una straordinaria divinità greca. Dello stilista recuperano non solo l’estetica, ma anche le fogge di alcune eterei vestiti adorati dallo stilista spagnolo. Rivive così l’abito Delphos disegnato per la prima volta da Fortuny: leggero, dalla lunghezza totale e, soprattutto, plissettato.

La ricchezza dei ricami, una firma ormai certa nelle collezioni di Valentino, crea un ponte creativo tra l’Occidente moderno e l’Oriente bizantino; ed ecco come mirabili tuniche si fregiano di trame d’oro rivedendo in chiave odierna sfarzosi pannelli desunti, presumibilmente, dalla pittura parietale di “Teodora e il suo seguito” presenti all’interno della chiesa di San Vitale, a Ravenna.

Il broccato, recuperato dall’archivio Fortuny e lavorato sapientemente dalle mani abili degli artigiani in atelier, viene esaltato attraverso l’applicazione di effetti in 3D ottenuti da farfalle in volo e fiori sbocciati, che esaltano a loro volta la tramatura originale del tessuto.

Il fluttuare di abiti che librano nell’aria, trame di fili orditi con dovizia che appesantiscono i broccati delle tuniche, eleganti velluti che costruiscono affascinanti abiti peplo e i pavoni (simbolo di vita eterna nell’arte bizantina), conferiscono alla collezione un viaggio intrinseco di arte, sapere e lusso.

E mentre propizianti serpenti scivolano sui capi delle modelle, lussuosi calzari ci ricordano che l’Oriente e il suo folklore non sono mai stati così vicini come nella collezione Haute Couture primavera/estate 2016 di Chiuri e Piccioli per Valentino.

 

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Per non dimenticare

La deportazione e lo sterminio degli ebrei. Un evento tanto tragico quanto assurdo ed incomprensibile, che non va e non deve essere dimenticato. Proprio in questo senso, il cinema giunge in soccorso, attraverso la riproposizione del tema dell’Olocausto. Oggi vi proponiamo due tra le più significative pellicole riguardanti il periodo della Seconda Guerra Mondiale. La prima è datata 2006, mentre la seconda 2013. Andiamo nel dettaglio.

Black Book

Il primo film di cui vi parliamo è Black Book (letteralmente “Libro nero”), un’opera che mostra un fronte forse leggermente più sconosciuto, quello della resistenza olandese al dominio nazista.

La storia è ambientata nel settembre 1944 e vede come protagonista Rachel Stein, una ragazza che di mestiere fa la cantante di varietà. Fuggita dalla Germania per trovare rifugio in Olanda, la giovane ritrova la sua famiglia nelle zone liberate dall’invasione. La gioia tuttavia è fugace: a causa di un’imboscata tedesca, la giovane perde tutti i suoi cari. L’unica che riesce a sopravvivere all’esecuzione di massa è proprio Rachel, che ottiene asilo presso un gruppo di uomini appartenenti alla resistenza olandese con al comando Kuipers. La nostra eroina decide così di schierarsi con loro e di sfruttare la sua bellezza estetica. Dopo aver cambiato identità (il suo nuovo nome è Ellis De Vries), infatti, Rachel s’insinua nelle stanze del potere con l’incarico di sedurre l’ufficiale delle SS Muntze, finendo poi per innamorarsene. Nonostante ciò, la donna non perde di vista la sua missione: piazzare una microscopia per ottenere informazioni top secret. Ma un altro uomo vorrebbe fare breccia nel cuore di Rachel: Hans Akkermans, un medico della resistenza. Una notte, a seguito di un’improvvisa irruzione, molti partigiani vengono barbaramente uccisi e Rachel viene accusata di alto tradimento. Ma la verità è un’altra…

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Black Book

Il regista del film è l’olandese Paul Verhoeven (reso celebre per lavori quali RoboCop, Basic Instinct e L’uomo senza ombra), che inscena un dipinto realistico della resistenza olandese, inglobando gli stilemi tipici del melodramma. Nel delicato passaggio dalla dittatura alla libertà, Black Book si sviluppa attraverso l’ausilio di una serie di personaggi dallo sguardo ingannevole e dagli atteggiamenti torbidi e sibillini, presunti eroi pronti a divenire impostori e a svelare la loro naturale inclinazione alla sopraffazione. Inutile dire che su tutti spicca la protagonista Carice Van Houten (Rachel Stein), una figura femminile ammaliante e dispensatrice di erotismo. Ogni uomo, dal più spietato ufficiale delle forze armate tedesche (Muntze) al medico della resistenza (Hans), non desidera altro che possederla. La memoria di Rachel verrà racchiusa da Israele, lo Stato creato dalle Nazioni Unite nel 1948 per accogliere l’incredibile esodo della popolazione ebraica.

 

Corri ragazzo corri

La seconda pellicola che vi proponiamo proviene direttamente dalla cinematografia polacca e s’intitola Corri ragazzo corri.

Il film racconta la storia di Srulik, un bambino ebreo di 8 anni fuggito con l’aiuto del padre dal ghetto di Varsavia, fingendosi un orfano polacco per sfuggire alle truppe naziste in presidio. Anche in questo caso, il protagonista cambia identità, divenendo Jurek. Con il suo nuovo nome, il bambino si armerà di coraggio e attraverserà intere foreste pur di trovare una casa o una fattoria in cerca di cibo in cambio del proprio lavoro. La sua fuga verso la libertà non avrà sosta, anche quando sarà consegnato ai nazisti, da cui riuscirà incredibilmente a fuggire in maniera fortunosa. In attesa della fine della guerra, Srulik proseguirà il suo incessante cammino, incontrando lungo il suo percorso persone che lo aiuteranno ed altre, invece, decise ad ucciderlo.

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Corri ragazzo corri

Il regista Pepe Danquart (vincitore di un Premio Oscar per il cortometraggio Schwarzfahrer del 1993) inscena il progressivo e graduale allontanamento dalle proprie origini di un bambino che ha promesso solennemente al padre di sopravvivere. Tratto dal best seller omonimo di Uri Orlev, il film eleva il suo giovane protagonista a paladino della libertà e dell’intelligenza, le uniche armi in grado di contrastare e sconfiggere l’incubo nazista. Man mano che Srulik si trasforma in Jurek il suo passato viene costantemente cancellato, così come la sua religione e la sua reale identità, accompagnato dal dolore per non avere diritto ad un posto nel mondo.

L’incessante fuga per libertà, contrassegnata dalla volontà di sopravvivere, può essere interpretata come una metafora del popolo ebraico, verso il quale Srulik non crede più di appartenere, fino al momento in cui realizzerà concretamente in che modo tutto ebbe inizio.

Siamo perciò dinanzi ad un’autentica odissea, in cui un bambino di soli 8 anni continuerà a lottare pur di mantenere la promessa fatta al padre. Un’infanzia violata che solo il coraggio e la forza di volontà potranno far tornare a galla.

La trasgressione in chiave couture di Jean Paul Gaultier

Il fumo di una sigaretta offusca l’aria di una gelida notte parigina; due mani si sfiorano, tra risate sommesse e sguardi furtivi, che fanno capolino sotto il make up pesante. Lo smoking lascia intravedere la linea gentile del punto vita, mentre il tacco dodici reclama la sua parte in questo gioco seduttivo; gli occhi di lui sembrano spogliare quei fisici scultorei nascosti sotto veli di chiffon; occhi a mandorla dalle lunghe ciglia sembrano tremare mentre le mani bramano carezze sempre più audaci. La mente vaga senza fermarsi, e l’inaspettato ménage à trois apre la porta a giochi proibiti e segreti inconfessabili. Quella è la notte giusta, la notte in cui osare, in cui la Ville Lumière riserva dolci sorprese e promesse d’amore. Basta un’occhiata complice, e le due donne entrano insieme nel locale dall’aria invecchiata, mentre l’insegna al neon recita un nome indimenticabile.

La collezione haute couture Primavera/Estate 2016 di Jean Paul Gaultier inizia così, con un tributo alla libertà sessuale e allo stile degli indimenticabili anni Settanta, incarnati in Edwige Belmore, regina del punk scomparsa lo scorso anno, protagonista indiscussa della nightlife parigina fino agli anni Ottanta. Le atmosfere audaci rivendicano una voglia di perdizione in chiave patinata, in bilico tra le paillettes e i lustrini di un cabaret e le suggestioni sadomaso di un club privé.

E quale migliore location iconografica se non Le Palace, tempio della musica e della vita notturna parigina, dove, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, si potevano trovare tutti: da monsieur Yves Saint Laurent, fedelmente accompagnato dalle sue muse Loulou de la Falaise e Betty Catroux, a Paloma Picasso; lì dove Bianca Jagger ballava sui tavoli e Grace Jones improvvisava striptease. Un’intera generazione che non temeva gli eccessi, ricordata come Generation Palace. Jean Paul Gaultier ripropone sulla passerella la stessa atmosfera di promiscuità sessuale, rigorosamente in chiave chic, che si respirava in quella che era la versione francese del celeberrimo Studio 54.

Le mannequin che calcano la passerella aspirano il fumo da sigarette e bocchini anni Trenta, e, tra baci saffici e risate, sorseggiano flûte di champagne. Ambigua e androgina, la donna Jean Paul Gaultier è perfettamente a suo agio nell’atmosfera dei nightclub; un vero animale notturno, ricorda una Katherine Hepburn fasciata in smoking nero impreziosito da fusciacca rigida chiusa da nappine in seta, che diviene quasi una sorta di corsetto ad alto tasso erotico. Misteriosa come le dive dei film anni Quaranta, eccentrica ed iconica, si muove sinuosa tra cristalli e abiti paillettati, che esibisce distrattamente sotto blazer dal taglio sartoriale distrattamente appoggiati sulle spalle. Trionfo di glitter tra jumpsuit e pigiami da sera metallizzati, da indossare sotto trench che ricordano vestaglie. I leggings vengono sdoganati praticamente ad ogni uscita, sia in pelle nera che in fantasie a righe, mentre sono nude le gambe sotto alle piume di marabù bianco; il pinstripe diviene la fantasia prevalente, per capispalla in raso di seta, più simili ad un négligé, mise perfetta per questa diva dell’avanspettacolo in chemisier dorate, strizzata in corsetti e tute in lurex, tra elementi circensi e chinoiserie da bordello cinese.

Polvere di stelle nelle tuniche preziose indossate sotto al biker d’ordinanza dalle suggestioni punk e trompe-l’oeil che fa capolino tra gli omaggi a David Bowie e al glam rock: la donna Jean Paul Gaultier indossa abiti a sirena tempestati di paillettes sotto boleri dai colori fluo e dal piglio ribelle. Nel front row spiccano Fergie, Christian Louboutin, Farida Khelfa e Amanda Lear, che si esibisce alla fine del défilé.

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Tanti auguri Elijah Wood

Vi ricordate quel ragazzino di 8 anni con la maglietta rossa intento ad osservare il protagonista di Ritorno al futuro: Parte II giocare ad un videogioco? Quel bambino oggi compie 35 anni. Stiamo parlando dell’attore statunitense Elijah Wood, alias Frodo Baggins, lo hobbit della celebre trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli diretta da Peter Jackson.

In occasione del suo compleanno, vi proponiamo un suo breve ritratto, menzionando le sue principali apparizioni sul grande schermo.

Nato a Cedar Rapids (Iowa) il 28 gennaio 1981, Elijah Wood debutta come protagonista a fianco di Mel Gibson nel film Amore per sempre del 1992, mentre l’anno successivo è affiancato da Macaulay Culkin (Mamma ho perso l’aereo) nel thriller L’innocenza del diavolo. Nel 1996, invece, è la volta della pellicola intitolata Flipper, mentre nel 1998 di Deep Impact.

Uno dei film più noti che vede tra i protagonisti Elijah Wood è sicuramente Hooligans – Green Street, datato 2005. Uno spaccato crudo e realistico della realtà ultrà dell’Inghilterra, con particolare riferimento all’antica e mai sopita rivalità sulle sponde del Tamigi tra i tifosi del West Ham e quelli del Millwall.

Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans - Green Street, con Elijah Wood
Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans – Green Street, con Elijah Wood

Nello stesso anno interpreta il ruolo dello spietato cannibale dagli artigli affilati Kevin in Sin City.

Sin City, Elijah Wood nei panni dell'assassino cannibale Kevin
Sin City, Elijah Wood nei panni dell’assassino cannibale Kevin

Nel 2007, invece, diventa protagonista del film Oxford Murders – Teorema di un delitto, coadiuvato da John Hurt. Due anni più tardi, il 25 maggio 2009, si aggiudica il Midnight Award al San Francisco International Film Festival, premio conferito ad un giovane attore che abbia contribuito allo sviluppo e alla promozione del cinema indie.

Infine, nel 2012 compare in un cameo celebrativo nelle vesti di Frodo in Un viaggio inaspettato, il primo capitolo della trilogia de Lo Hobbit, nonché prequel de Il Signore degli Anelli.

 

Ogni cosa è illuminata

Evidentemente il 2005 è stato l’anno più florido per Elijah Wood, dato che, oltre ai già citati Hooligans – Green Street e Sin City, in quel lasso di tempo fu protagonista anche di un’altra opera: Ogni cosa è illuminata, diretta dall’attore statunitense Liev Schreiber (di cui ricordiamo The Manchurian Candidate, Defiance – I giorni del coraggio e X – Men le origini – Wolverine), al suo debutto dietro la macchina da presa.

Ogni cosa è illuminata
Ogni cosa è illuminata

La pellicola racconta la storia di Jonathan Safran Foer (Elijah Wood), un ebreo americano che narra a sua volta di uno studente, Jonathan, anch’egli americano, in viaggio per l’Ucraina in cerca della donna che salvò la vita di suo nonno strappandolo all’abominio nazista. È proprio in virtù di tale decisione che nell’arco dei 106 minuti di durata lo spettatore può ricostruire la memoria e la realtà del piccolo villaggio di Trachimbord, uno dei tanti shtetl bruciati e gettati nell’oblio nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Stiamo parlando di una comunità che ha purtroppo smesso di esistere dal punto di vista geografico, ma che ha saputo rinascere e ricrearsi nell’animo di quelle persone che hanno scrupolosamente e laboriosamente conservato le sue tracce, fino ad arrivare ad una sorta di collezione di ricordi.

Jonathan inizia così il suo lungo peregrinare armato di una fotografia del nonno immortalato in compagnia della sua salvatrice Augustine. Il ragazzo sarà accompagnato durante il suo viaggio da un altro nipote, Alexander Perchov, la voce fuori campo del film, nonché da un altro nonno ebreo sopravvissuto alle stragi naziste, un uomo scorbutico che si finge cieco dietro ad un paio di grossi occhiali scuri e accompagnato da un cane guida piuttosto bizzarro.

Il personaggio di Alexander è interpretato da Eugene Hutz, noto dj e cantante del gruppo musicale dei Gogol Bordello. Egli è altresì un attore (statunitense, ma di origini sovietiche), di cui ricordiamo pellicole quali Wristcutters – Una storia d’amore del 2006 e Sacro e profano del 2008.

Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata
Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata

Ogni cosa è illuminata è un film incentrato sia sull’universalità dei canonici registri appartenenti al filone tragico, sia sui tempi e le modalità della cultura della comicità yiddish.