Issey Miyake omaggia Ikko Tanaka con una capsule collection

Issey Miyake unisce il suo estro creativo alla visione estetica del genio del design Ikko Tanaka, creando una capsule collection che dimostra la sempre più stretta connessione tra design e fashion.

Il Giappone ripercorre un viaggio a ritroso e si rivela in tutto il suo splendore, nel presente.

 

Giacca Kimono ispirata dalle opere di Ikko Tanaka
Giacca Kimono ispirata dalle opere di Ikko Tanaka (fonte justemagazine.com)

 

La capsule collection coniuga design e fashion
La capsule collection coniuga fashion e design (fonte justemagazine.com)

 

 

Tanaka e Miyake rappresentano l’anima colorata e attiva di un’isola baciata dal sole, dove l’arte è frutto di un’ immaginazione eccelsa. Quello dello stilista, appare un omaggio ad un grande artista conosciuto negli anni sessanta, nato nel 1930 e scomparso nel 2002. Ikko Tanaka, non lasciò che le influenze di varie correnti artistiche, attecchissero la sua personale visione dell’arte.

 

Nihon Buyo (1981) è un manifesto per uno spettacolo di danza giapponese
Nihon Buyo (1981) è un manifesto per uno spettacolo di danza giapponese

 

 

Colore, luce e sintetismo puro, nascono come conseguenza di una vita radicata nel rapporto con la natura e che si riproduce, nelle opere, in funzione a valori estetici universali.

 

Grafica e colori, predominano la collezione di Issey Mikake in omaggio a Ikko Tanaka
Grafica e colori, predominano la collezione di Issey Mikake in omaggio a Ikko Tanaka (fonte justemagazine.com)

 

 

Seguendo l’estro creativo del grande maestro, Issey Miyake crea una collezione di pezzi unici, mantenendo vivida la sua concezione artistica. Nihon Buyo (1981), The 200th anniversary of Sharaku (1995), e Variation of Bold Symbols (1992) sono le stampe di Ikko Tanaka utilizzate dal fashion designer che, con un effetto tridimensionale, prendono vita su abiti con maniche a kimono, borse, top e hakama: tipico pantalone giapponese dalla linea abbondante.

 

 

Fonte cover plainmagazine.com

Bonnie Cashin: in uscita un libro sulla designer americana

Il nome di Bonnie Cashin probabilmente ai più dirà poco. Ma non agli amanti del vintage, che ne venerano l’incommensurabile talento. Secondo gli storici della moda è stata la designer più innovativa d’America. Un talento senza precedenti, innumerevoli riconoscimenti, Bonnie Cashin vestì icone del calibro di Marlene Dietrich e il suo stile lasciò un’impronta indelebile nella storia del costume. Finalmente un libro edito da Rizzoli ne celebra la grandezza.

Bonnie Cashin: Chic Is Where You Find It è il titolo del volume, scritto dalla storica Stephanie Lake, una delle voci più autorevoli nella storia della moda, nonché intima amica della stilista statunitense, scomparsa nel 2000. Dalla sua morte, Stephanie Lake ha trascorso i successivi 15 anni a studiarne lo smisurato archivio cartaceo e fotografico, cercando di ricostruirne la vita. Un libro concepito nel corso delle conversazioni quotidiane che lei e la designer, ormai anziana, erano solite intrattenere. Innovatrice, futurista, proiettata nel futuro, Bonnie Cashin viene dipinta con tutta la sua carica vitale e le sue idee sulla vita e la moda, alquanto progressiste.

Una voce fuori dal coro, in tempi in cui la ribellione non era concepibile, Bonnie Cashin spiccava per il suo individualismo. Pragmatica e realista, aveva il piglio della capitalista e da sola riuscì a mettere in piedi un impero. Le sue idee erano antitetiche a certa frivolezza tipica degli anni Cinquanta, decennio che consacrò la sua fama a livello mondiale. Pochi sanno che Bonnie Cashin è forse la designer più copiata in assoluto: il suo stile ha influenzato nomi del calibro di Phoebe Philo per Céline, Tom Ford, Chloé, Nicolas Ghesquière per Balenciaga, solo per citarne alcuni.

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Bonnie Cashin nacque il 28 settembre 1908 a Oakland, California


Dorian Leigh con una cappa Bonnie Cashin
Dorian Leigh con una cappa Bonnie Cashin


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La sua carriera iniziò negli anni Trenta e si concluse negli anni Ottanta


Nata il 28 settembre 1908 a Oakland, California, figlia di Eunice, sarta, e Carl, fotografo. La giovane Bonnie studiò alla Hollywood High School, alla Chouinard School of Art di Pasadena e alla Art Students’ League di Manhattan, ma non riuscì a conseguire alcun attestato. Considerata pioniera del ready-to-wear e madre dello sportswear, il suo approccio alla moda era di tipo intellettuale: per lei la moda era un’arte cinetica. Il comfort era quindi la parola chiave per i suoi capi: dal poncho alle tuniche fino ai cappotti e ai kimono di chiara ispirazione cinese. Innovativa anche la scelta dei materiali usati, tra cui pelle, mohair, tweed, cashmere, lana e jersey. La sua carriera iniziò a Manhattan, dove si trasferì nel 1933. Qui iniziò a lavorare come costumista al Roxy Theatre. La mole di lavoro era enorme e Bonnie da sola creava migliaia di costumi. Ad appena 19 anni fece già parlare di sé, e venne proclamata la più giovane designer ad avere lasciato un segno a Broadway.

Nella primavera del 1937 i suoi abiti apparvero su Harper’s Bazaar. Nel 1940 Bonnie Cashin fu protagonista indiscussa del primo numero della rivista che non prevedeva capi provenienti da Parigi, a causa della guerra. Carmel Snow, all’epoca direttrice della prestigiosa rivista, famosa per essere una talent scout ante litteram, restò fortemente colpita da quei capi che anticipavano lo sportswear. Fu lei a credere per prima nelle capacità di Bonnie, che non aveva credenziali né titoli di studio. Carmel Snow la mise in contatto con Louis Adler, che aveva una linea di capi e capispalla prestigiosi. Da lì nacque la collaborazione tra i due: dal 1937 al 1942 Bonnie disegnò cappotti e abiti per Adler & Adler.


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Nel 1943, tornata in California, disegnò i costumi di oltre 60 film della Twentieth Century-Fox, tra cui Laura, con la splendida Gene Tierney (1944). Nel 1949 tornò a New York. L’anno seguente, nel 1950, fu insignita del Neiman Marcus Fashion Award e del Coty Fashion Critic’s Award. I prezzi dei suoi capi andavano dai 14.95 dollari per un impermeabile in plastica fino ai 2,000 dollari per un kimono di pelliccia. Nel 1953 creò una società con Philip Sills, che importava pellami. Bonnie Cashin fu pioniera nell’uso della pelle per l’alta moda. Il suo stile di vita globetrotter la indirizzò nella creazione di un guardaroba flessibile, all’insegna della praticità, per moderne nomadi. Spirito gipsy, al centro delle sue ispirazioni vi era l’Oriente. Nel 1962 la designer lanciò Coach, un brand di borse e accessori femminili, insieme a Miles e Lillian Cahn, che creavano portafogli maschili. Disegnò inoltre per American Airlines, Samsonite, Bergdorf Goodman, White Stag e Hermès. Fu la prima designer americana ad avere una boutique da Liberty, a Londra.

Nel corso della sua lunga carriera si cimentò con successo nella maglieria, nella creazione di guanti, biancheria per la casa, ombrelli, impermeabili, cappelli e pellicce. Fu premiata con il Coty Award (precursore del CFDA Award) per ben cinque volte, entrando nella loro Hall of Fame nel 1972. Adorata tra gli altri da Diana Vreeland, che ne ammirava l’audacia, Bonnie Cashin creò un’azienda da sola, la cui unica dipendente fu la madre. Animata da grande integrità morale e da un carattere granitico; femminista anche litteram, era felicemente single, in un’epoca in cui chi non era sposata veniva guardata con sospetto.

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(Foto Harper’s Bazaar)


Cappa Bonnie Cashin, foto di Francesco Scavullo, 1966
Cappa Bonnie Cashin, foto di Francesco Scavullo, 1966


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Bonnie Cashin fu scoperta da Carmel Snow, direttrice di Harper’s Bazaar, che per prima ne intuì il talento


Dopo una lunga attività, iniziata negli anni Trenta, nel 1985 arrivò il ritiro, per dedicarsi alla pittura e alla filantropia. La stilista morì a New York il 3 febbraio 2000 per complicanze durante un intervento chirurgico al cuore. Una Fondazione ne conserva lo smisurato archivio: ed è proprio Stephanie Lake la persona designata per preservarne l’eredità. I capi di Bonnie Cashin sono conservati anche in alcuni musei, come il FIT, il Metropolitan Museum of Art e lo Smithsonian.

Bonnie Cashin: Chic Is Where You Find It è la prima monografia dedicata alla designer. Stephanie Lake ci accompagna in un viaggio attraverso la mente della stilista. Diretta, onesta, outsider nel fashion biz, iconoclasta. Attraverso materiale inedito ne riscopriamo l’immenso talento. 300 pagine ricche di aneddoti di vita vissuta tracciano un adorabile ritratto di una donna dalla personalità scoppiettante. “La moda è adesso. La moda è accettazione. La moda è popolarità. Buona parte del mio lavoro è anti-fashion. È il futuro. Non è stato ancora accettato”: così la stessa Cashin definiva il suo lavoro. Aspettiamo con ansia che il volume esca anche in Italia.

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Tweed, lana, mohair, jersey tra i materiali usati dalla stilista statunitense


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Femminista ante litteram, outsider nel fashion biz, Bonnie Cashin rivive nella monografia di Stephanie Lake


(Foto Harper's Bazaar)
(Foto Harper’s Bazaar)


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Bonnie Cashin è scomparsa nel 2000



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Che cos’è il Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale

Di SPID avevo già parlato ad agosto dell’anno scorso. È l’acronimo di “Sistema Pubblico per la gestione dell’Identità Digitale”. È sostanzialmente una creatura immaginata dall’AGID – l’agenzia per l’Italia digitale, delle cui vicende abbiamo abbondantemente parlato – che lo inserisce sul suo sito tra le “architetture e infrastrutture” digitali del paese
Si tratta di una “password personale unica” che da accesso ai servizi online della P.A, dal fisco alla sanità alla previdenza.


L’Agid aveva fissato i criteri per cui un provider poteva richiedere di diventare “gestore” di Spid.
E a meno di dieci giorni dal lancio ufficiale effettuato il 15 marzo scorso dal Ministro per la semplificazione Marianna Madia la quarta sezione del Consiglio di Stato presieduta da Sergio Santoro, pronunciando definitivamente il 24 Marzo sullo SPID, ha confermato la sentenza del Tar Lazio del luglio 2015, mettendo una pietra tombale sul modello privato prefigurato dalla Presidenza del Consiglio ed incentrato sulla presenza di pochissimi fornitori di grandi proporzioni economiche.
Il Consiglio di Stato chiarisce che SPID è un sistema essenzialmente basato su password e non può dunque essere equiparato alle modalità di identificazione forte quali la carta nazionale dei servizi e la firma digitale , conseguentemente non può richiedersi per la prestazione dei servizi di identificazione, criteri economici sproporzionati.


In sintesi per il Consiglio di Stato lo SPID è una password, e non si possono richiedere 5 milioni di capitale sociale.
Il Consiglio di Stato chiarisce che Spid è un sistema essenzialmente basato su password e non può dunque essere equiparato alle modalità di identificazione forte quali la carta nazionale dei servizi e la firma digitale: di conseguenza non possono richiedersi, per la prestazione dei servizi di identificazione, criteri economici sproporzionati.


“La Sezione, nel condividere gli argomenti della sentenza impugnata, ritiene che l’appello debba essere rigettato si legge nella sentenza – Non può condividersi infatti l’argomento invocato dall’appellante Presidenza del Consiglio dei Ministri, secondo cui l’elevato capitale sociale minimo di 5 mln di euro della società di capitali, alla cui costituzione debbono procedere i gestori dell’identità digitale nel sistema SPID, sarebbe indispensabile per dimostrare la loro affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria, e ciò solo perché l’attività di cui trattasi richiede un rilevante apporto di elevata tecnologia, la cui validità non può ritenersi direttamente proporzionale al capitale sociale versato. In questi termini, si evidenzia altresì l’illegittimità per irragionevolezza dell’impedimento all’accesso al mercato di riferimento, dovuto all’elevato importo del capitale sociale minimo richiesto con l’atto impugnato, trattandosi di scelta rivolta a privilegiare una finalità di incerta efficacia, a fronte della sicura conseguenza negativa di vedere escluse dal mercato stesso tutte le imprese del settore di piccole e medie dimensioni, quali appunto quelle rappresentate dalle associazioni ricorrenti”.
Restano sul tavolo tutte le solite questioni.


I servizi di PA digitale devono aumentare? assolutamente si.
Devono essere accessibili (economicamente e strutturalmente e infrastrutturalmente e “sintatticamente” – percorso e linguaggio)? assolutamente si.
La PA si deve semplificare e avvicinare al cittadino? Ovviamente si.
Nessuno, sano di mente, sosterrebbe il contrario.
Ora, si può discutere il come? perché non è sicuro e quando parli di dati sensibili “non sicuro” significa “pericoloso”.
E o hanno dimostrato molti casi simili e precedenti in altri Paesi.
Da noi il rischio è anche duplice, perché oltre a restare sul tavolo la questione della tutela della riservatezza di dati utili ad accedere ad atti ed informazioni personali, c’è anche il tema della concentrazione “in mano a pochi soggetti privati” di tutte le password di accesso di tutti i cittadini. 
Ed a parte il criterio patrimoniale (che il Consiglio di Stato ha rilevato non utile e insufficiente ed ha cassato) non esiste alcun criterio tecnico, parafrasando la sentenza “per dimostrare la loro affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria, e ciò solo perché l’attività di cui trattasi richiede un rilevante apporto di elevata tecnologia, la cui validità non può ritenersi direttamente proporzionale al capitale sociale versato.”

Alcune note da non trascurare:


1) il provider deve soddisfare caratteristiche di sicurezza non banali, per le fasi di identificazione, per il suo processo interno di gestione e per la consegna delle credenziali

2) la parte puramente tecnologica di affidabilità e sicurezza nella identificazione informatica

3) deve essere ed apparire “credibile” ovvero non deve accadere che si possa neanche pensare che qualcuno conceda l’accesso a terzi

. L’unico provider di identità di qualsiasi tipo per definizione non può che essere lo Stato.
 Pensiamoci. È tecnicamente come delegare a società private la redazione e consegna delle carte di identità o di passaporti… che lo Stato non delega nemmeno per la parte tecnica di stampa (che non a caso sono realizzati su carte e con inchiostri speciali dalla Zecca).


E allora dato che per simmetria parliamo della stessa cosa, e anzi proprio l’immaterialità dello strumento digitale rende anche più delicata la verifica, perché non applichiamo lo stesso principio?
Consideriamo poi il dettaglio che non esiste un modello di business per coprire investimenti e costi di questa azione da parte dei provider privati. Quindi: chi pagherà per tutto questo? Alla fine essendo un “servizio pubblico” avrà o un costo di gestione in termini di contratto di servizio (e nessuno ci ha detto a quanto e con quale gara) o avrà un costo per il cittadino richiedente, e non è chiaro chi stabilisca e secondo quali criteri e principi questo importo, e non è chiaro perché – se così fosse – non se ne parli prima dei decreti e degli affidamenti.
C’è poi un tema delicatissimo, che riguarda il riconoscimento della persona.
E su questo rinvio integralmente a quanto ha scritto su Linkiesta Paolino Madotto.

Daniel: il bimbo transgender che a tre anni ha deciso di diventare donna

È un gran vociferare. Un tabù. Un argomento ancora troppo caldo che insinua, molto spesso, insidie e giudizi velenosi.

Il mondo transgender è sempre più spesso sotto accusa perché il  “diverso”, spesso fa paura per chi è poco incline ad aprire la mente al mondo esterno.

La storia di Daniel, un bambino nato sette anni fa, a Strathspey, in Scozia, potrebbe essere da monito a tutti coloro che sono lontani dal coming out per paura di non essere compresi o, peggio ancora, giudicati ed emarginati dalla società.

Daniel, ha deciso per la sua vita. Daniel ha capito a soli tre anni, che il corpo in cui era costretto a vivere non gli apparteneva.

 

Daniel McFayden oggi si fa chiamare Danni ed è felice del suo cambiamento
Il piccolo Daniel oggi ha sette anni ed ha scelto di chiamarsi Danni

 

 

Appoggiato dalla madre Kerry McFadyen ha intrapreso un percorso tutto in ascesa, divenendo il primo bambino transgender che l’opinione pubblica europea sia mai venuta a conoscenza.

Tutto ebbe inizio un giorno, in un bagno qualunque di una cittadina qualsiasi. Daniel, gioca con il suo pene, prende un paio di forbici e cerca di reciderlo. La madre, preoccupata, analizza il comportamento del figlio e comprende che il gesto è legato ad un malessere interiore.

Quando uno specialista conferma che Daniel soffre di disforia di genere, i genitori assecondano la natura del figlio ed intraprendono una serie di cure mediche, a base di ormoni e farmaci che gli permetteranno di posticipare la sua pubertà  e che gli consentiranno, raggiunti i diciotto anni, di poter finalmente sottoporsi all’intervento chirurgico che lo renderà una donna.

Intanto, anche la scuola si è mobilitata in suo favore installando, nell’edificio, bagni completamente unisex per rendere il suo cambiamento, il meno traumatico possibile.

 

 

 

Fonte cover ilmessaggero.it

 

 

Italian Internet Day: 30 anni fa il primo collegamento via web

Matteo Renzi lo aveva annunciato un mese fa: oggi si celebra l’Italian Internet Day, a 30 anni di distanza dal primo click italiano sul web. Era il 30 aprile 1986 e dal Centro universitario per il calcolo elettronico del Cnr di Pisa (Cnuce) partiva il segnale che avrebbe raggiunto la stazione di Roaring Creek, in Pennsylvania. L’Italia fu il quarto paese al mondo a collegarsi ad internet. Chissà cosa hanno provato quegli studiosi entusiasti a sentirsi i pionieri di un nuovo mondo. Chissà come immaginavano quel futuro che in qualche modo stavano toccando con mano, e quanto è lontana la realtà di oggi da quelle fantasie.  Certo da quel giorno all’ingresso ufficiale di internet nelle case degli italiani sono passati anni. All’inizio tutto sembrava complicato: i collegamenti erano lentissimi e molto costosi. Basti pensare al fatto che bisognava scegliere se navigare o parlare al telefono, aspettare a lungo per scaricare un’immagine e ricordare di spegnere il modem per evitare bollette salate.


Oggi non si riesce a immaginare la vita in Italia senza il web. Ma la strada per una educazione digitale completa e profonda è ancora lunga. Ne ha parlato oggi il premier Matteo Renzi, in collegamento video durante i festeggiamenti dell’Italian Internet Day al Cnr di Pisa. «Trent’anni fa quel primo collegamento fu pioneristico, il quarto al mondo – ha dichiarato – Oggi dobbiamo recuperare quel posizionamento in Champions League». Parole considerate vuote da alcuni manifestanti – circa 500 – che hanno invaso la cerimonia contestando il premier. «Hanno diminuito i fondi alla ricercaaccusano i manifestanti, tra i quali si scorgono sigle e striscioni riconducibili a sindacati di base, centri sociali, collettivi e universitari e anche “vittime” del salvabanche – Le riforme che vengono fatte sono tutte contro di noi, lavoratori dipendenti e precari. Siamo qui all’esterno del Cnr per dire no alle politiche di questo governo». Alle contestazioni si è aggiunta la delusione per la promessa di Renzi sulla banda larga. Il Presidente del Consiglio aveva infatti annunciato che oggi sarebbe partita l’assegnazione dei contributi pubblici, ma la questione è ancora in sospeso. «Il bando sarà oggi al consiglio dei Ministri, anche se non c’è bisogno» ha spiegato il premier. 



In tutta Italia intanto si sono susseguiti festeggiamenti per l’Italian Internet Day. Una Vita da Social è il nome del progetto sviluppato dalla Polizia Postale e delle Telecomunicazioni insieme al Miur, presente nelle scuole di oltre 100 province con l’obiettivo di consentire agli utenti della Rete di navigare in piena sicurezza. «Oggi l´enorme portata tecnologica, storica e sociale di quell’evento appare evidente a tutti – ha spiegato Roberto Di Legami, Direttore del Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni in merito al primo collegamento italiano – come altrettanto lo è che le opportunità di Internet siano accompagnate da rischi anche seri. Con la diffusione della cultura della sicurezza, la Polizia Postale e delle Comunicazioni è divenuta nel tempo un punto di riferimento per tutti gli utilizzatori della Rete». Per Save The Children nell’anniversario di questo importante traguardo un pensiero va a chi è ancora “offline”. L’ong ha diffuso i dati sulla diffusione del web tra gli adolescenti: ben l’11,5% dei ragazzi italiani tra gli 11 e i 17 anni non ha mai usato internet. Numeri pesanti per quella che viene definita una generazione iperconnessa. Molti di questi ragazzi provengono da famiglie economicamente disagiate. «Spesso i ragazzi disconnessi da Internet sono tagliati fuori da altre opportunità educative e culturali, che li allontanano ancora di più dai loro coetanei, in una spirale che non fa altro che aumentare la povertà educativa» commenta Raffaela Milano di Save the Children.

Beetle House. Apre a NY il bar dedicato a Tim Burton

La scenografia è degna del nome di chi lo ha ispirato. Volti in tumefazione, teschi in bella vista, luce soffusa color purple e rose nere:  l’ambientazione gotica di Beetle House rende totalmente omaggio al geniale maestro Tim Burton.

 

Beetle House è un bar dedicato al regista Tim Burton
Beetle House è un bar dedicato al regista Tim Burton (fonte beetlehousenyc)

 

 

308 east 6th street  New York, NY: questo è l’indirizzo dove potreste degustare ottimi drink e mangiare piatti squisiti in una cornice degna delle migliori pellicole del regista come: “La Fabbrica di Cioccolato” o “Beetlejuice”, fatica cinematografica che ha dato il nome al locale.

Il menu è completamente dedicato ai film di Burton con riferimento, per quanto concerne le proposte, ai titoli o  alle citazioni dalle pellicole da lui create.

 

La scenografia del locale è degna dell'eclettico regista Tim Burton (fonte beetlehousenyc)
La scenografia del locale è degna dell’eclettico regista Tim Burton (fonte beetlehousenyc)

 

 

Un esempio? Il drink Alice’s cup of tea, si ispira al film Alice in Wonderland (2010) diretto dal regista, con protagonista Johnny Deep.

Beetlejuice, cocktail che prevede un mix di Tequila, mirtillo e lime, prende il nome dalla celeberrima pellicola del 1988 che si aggiudicò l’Oscar al miglior trucco del 1989 e che ispirò la serie televisiva animata “In che mondo stai Beetlejuice?”

Dal sito, inoltre, potrete dare un’occhiata all’intero menu e prenotare il vostro tavolo.

Rai: scorte di make-up in esaurimento

Allarme in casa Rai: le scorte di cosmetici sarebbero in esaurimento. Le forniture di trucco e make up sarebbero infatti bloccate, e gli ordini fermi da tre mesi. A denunciare la situazione il sindacato autonomo Snater, attraverso il segretario nazionale Piero Pellegrino. “Se non si trova subito una soluzione il risultato sarà che ospiti di fama mondiale, giornalisti e politici di turno andranno in onda senza un velo di cerone, proprio come mamma li ha fatti. Chi invece ci rimetterà davvero la faccia saranno i professionisti del trucco Rai”: queste le dichiarazioni rilasciate da Pellegrino a Repubblica.

Il make up non è un dettaglio di poco conto, tantomeno in un’azienda che da anni porta nelle case degli italiani personaggi famosi, ma anche giornalisti e professionisti, che certamente traggono benefici di natura estetica dalla professionalità dei truccatori e visagisti Rai. Ma ora tutto questo sarebbe divenuto incerto. Pare infatti che le ultime scorte di fondotinta, cipria, mascara e make up sarebbero quasi finite.

Alla base dell’incresciosa situazione vi sarebbero i tagli imposti dalla nuova dirigenza Rai. Si sarebbe infatti cercato di risparmiare a scapito però della qualità dei prodotti. La situazione è tale che i truccatori dell’azienda sono stati costretti a correre ai ripari acquistando i cosmetici di tasca propria, esponendosi in questo modo anche ad eventuali rischi. Viale Mazzini conferma: pare che il blocco sia dovuto alle nuove norme sulla trasparenza degli appalti sulle forniture. Intanto arrivano rassicurazioni: si sta infatti cercando una soluzione d’emergenza per garantire lo svolgimento dei palinsesti almeno fino all’estate. Successivamente si cercherà di trovare dei rimedi definitivi.


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Florence Welch: ecco chi è il nuovo volto di Gucci

È Florence Welch, frontwoman dei Florence and the Machine, la nuova testimonial Gucci per la linea di gioielli e orologi. Capelli rossi, anima dark e romantica, la cantautrice britannica è la nuova ambasciatrice scelta da Alessandro Michele per la campagna pubblicitaria Primavera/Estate 2016: l’annuncio della collaborazione è stato dato da Alexa Chung, preannunciato da un evento esclusivo che ha avuto luogo a Los Angeles.

Più che testimonial, vera e propria musa: tra Florence Welch e il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele è stato amore a prima vista: la cantante ha raccontato che nel corso del loro primo incontro hanno discusso per ore del Rinascimento e della gioielleria definita “memento mori”, raffigurante teschi. Una vera affinità elettiva, in nome dello stile. “Un principe shakespeariano”: è così che la cantante ha definito Alessandro Michele.

Uno stile barocco e psichedelico caratterizza l’artista inglese; una passione per stelle, cuori, croci e serpenti, Florence Welch non ha mai nascosto la sua predilezione per il vintage, altro elemento che la rende l’ambasciatrice perfetta per il brand italiano. La liaison tra lei e Gucci nacque già diversi anni fa: era il 2011 quando Frida Giannini creò in esclusiva per Florence i capi per il tour in America del Nord. Anche l’anno successivo la bella cantautrice scelse di vestire Gucci per il tour in USA, Messico ed Europa. Perfetta incarnazione dello spirito della maison, l’abbiamo vista splendida in un completo maschile in broccato dalle suggestioni Seventies firmato Alessandro Michele per Gucci. Inoltre la cantante ha anche calcato il red carpet ai Grammy Awards 2016, in lungo e romantico abito rosa baby impreziosito da fiocchi glitter e stelline.

(Foto Tom Beard)
Capelli rossi e anima dark e romantica per Florence Welch (Foto Tom Beard)

 

(Foto Vanity Fair)
La frontwoman dei Florence and the Machine è il nuovo volto di Gucci (Foto Vanity Fair)

 

A Los Angeles ha avuto inoltre luogo la presentazione del nuovo orologio G-Timeless e di alcuni pezzi di gioielleria della nuova collezione: Icon, Marché des Merveilles e Flora. Inoltre Florence Welch ha annunciato che vestirà Gucci nel suo nuovo tour “How Beautiful”, partito lo scorso 11 marzo da Bogotá.

(Foto Vogue)
Stile iconico e vintage per la bella cantautrice britannica (Foto Vogue)

 

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Uno scatto della campagna pubblicitaria Gucci

 

All’anagrafe Florence Leontine Mary Welch, la cantante è nata a Londra il 28 agosto 1986. La madre Evelyn Welch è professoressa di Storia Rinascimentale alla Queen Mary, University of London, il padre Nick Welch è un dirigente pubblicitario; il nonno di Florence era il satirista Craig Brown. Sarebbe stato proprio il padre della ragazza a contribuire in modo determinante alla sua formazione rock. Fin da piccola infatti la bella Florence era solita ascoltare il blues, il rock, il grunge e l’elettronica. Gruppi come i Nirvana e i Green Day alla base della formazione musicale della giovane cantautrice, che ha dichiarato la sua passione anche per Etta James, Billie Holiday, The Velvet Underground e gli Eurythmics.

 

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Florence Welch in completo maschile Gucci (Foto WWD)

 

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La cantante inglese in uno scatto per Vogue

 

Dopo gli studi alla Thomas’s London Day School Florence si è trasferita alla Alleyn’s School, nel Sud-Est di Londra. La cantante conseguì ottimi risultati negli studi nonostante le furono diagnosticate dislessia e disprassia. Dopo aver lasciato la scuola, ha studiato presso il Camberwell College of Arts, prima di ritirarsi per concentrarsi sulla musica. I Florence and the Machine cantano pezzi indie rock: i temi trattati nelle loro canzoni sono spesso malinconici e autbiografici. La rossa Florence ha anche ammesso pubblicamente di aver scritto alcuni pezzi dopo una sbornia. Spesso paragonata ad artiste femminili del calibro di Kate Bush, Patti Smith e Bjork, lo stile dei Florence and the Machine è stato definito dark e drammatico. Florence ha dichiarato di trarre ispirazione dagli artisti rinascimentali per trattare temi come l’amore, la morte, il tempo e la sofferenza, ma anche il paradiso e l’inferno. Un’estetica variegata ed affascinante che si riflette anche sul suo stile.

 

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Andrea Pompilio lascia Canali

La notizia circolava oramai da qualche giorno ed ora è ufficiale: Andrea Pompilio, direttore creativo di Canali, ha detto addio al marchio.

Questa decisione, presa di comune accordo da Canali e dal designer, coincide con la naturale scadenza del contratto. Dopo due anni e quattro collezioni, entrambe le parti concordano che sia arrivato il momento per intraprendere una nuova fase della propria storia”, si legge in un comunicato stampa atto diramare dall’azienda, per spiegare la decisione di non proseguire la collaborazione con Pompilio.

 

Canali collezione SS 16 by Andrea Pompilio (fonte thewild-swans.com)
Canali collezione SS 16 by Andrea Pompilio (fonte thewild-swans.com)

 

 

Per il momento, la maison ha fatto sapere che, durante la prossima settimana della moda uomo a Milano, prevista per giugno 2016, sarà presentata la collezione P/E 2017 disegnata dal team interno.

Pompilio, giovane e stimato designer italiano, sedeva sulla poltrona del marchio Canali dal 2015, dopo essersi affermato come designer  per le collezioni menswear da lui disegnate per il suo omonimo brand fondato nel 2010.

 

Andrea Pompilio durante la presentazione della collezione A-I 13-14 a Pitti Uomo 83 (fonte Pitti Immagine Uomo)
Andrea Pompilio durante la presentazione della collezione A-I 13-14 a Pitti Uomo 83 (fonte Pitti Immagine Uomo)

 

 

Nel 2013, fu chiamato da Giorgio Armani a sfilare nel suo Teatro, facendo il suo debutto nella settimana della moda milanese.

Il suo, è uno stile contemporaneo e 100% italiano, che coniuga influenze urban ai canoni estetici sartoriali.

 

 

 

Fonte cover canali.it

Federica Pellegrini portabandiera alle olimpiadi di Rio 2016

A Londra, nel 2012, la sera della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi Valentina Vezzali si prepara a portare la bandiera tricolore e rappresentare gli sportivi italiani. Federica Pellegrini si sta preparando per la gara del mattino successivo, la vede di sfuggita, si chiede come ci si senta ad avere una responsabilità e un onore così grande. Lo ha raccontato la stessa Pellegrini in un’intervista, e presto lo scoprirà. Ieri l’annuncio ufficiale: è lei l’atleta azzurra che rappresenterà l’Italia come portabandiera alle Olimpiadi di Rio 2016. Un’altra donna, un’altra bionda, un’altra sportiva dalla faccia pulita e dalla determinazione incrollabile. La Pellegrini, che ha vinto due medaglie olimpiche (argento ad Atene 2004 e oro a Pechino 2008) sarà la quinta donna portabandiera della storia italiana.


Emozionatissima, Federica vive questa possibilità come un onore immenso. Che arriverà, tra l’altro, il giorno del suo compleanno: la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Rio 2016 è prevista per il 5 agosto, quando la bionda nuotatrice compirà 28 anni. Che la scelta del portabandiera alle olimpiadi 2016 sarebbe ricaduta su di lei era nell’aria da tempo. “E’ stata una scelta a furor di popolo e mi scuso se ci siamo attardati fino all’ultimo per questa decisione ma volevo essere all’infinito sicuro che non poteva essere che lei ad avere l’onore di essere portabandiera – ha dichiarato il presidente del Coni, Giovanni Malagò – Sono molto felice perché anche se ci sono quasi 30 anni di differenza, Federica ha l’età delle mie figlie, siamo cresciuti insieme“. Lei invece in conferenza stampa ha commentato “Il mio nome è comparso tante volte fra le papabili ma per scaramanzia non ci ho mai fatto caso. Fino a ieri non ho voluto credere a niente. E’ un’emozione forte. La mia carriera è stata fatta di alti e bassi, non solo sportivi. Ho perso la strada, l’ho ritrovata, ho perso persone importanti ed altre ne ho trovate. A Rio porto la voglia di combattere sempre. Qualsiasi cosa succeda nella vita e nello sport“. Concetti ribaditi dall’atleta veneta anche sui social, che ha utilizzato come canale per festeggiare con i fan la grande notizia.

Il grande amore supera la morte: lo conferma la scienza

L’amore supera tutto, anche la morte: una di quelle frasi che si possono trovare in  un romanzo rosa, in una fiaba per bambini o nel bigliettino di un amante un po’ banale. Invece è il risultato di una ricerca scientifica appena pubblicata sulla rivista Psychological Science, condotta tra gli altri da Kyle Bourassa, ricercatrice in psicologia alla University of Arizona. Lo studio dimostra che l’influenza di un coniuge continua ad avere effetti positivi sulla vita dell’altro, anche dopo la propria morte. “Le persone che ci sono state vicino nel corso della nostra vita –  spiega Kyle Bourassa – continuano a influenzare la nostra qualità della vita anche dopo la loro morte. Abbiamo scoperto che la qualità della vita di un vedovo o di una vedova risente dell’influenza del coniuge deceduto proprio come se questi fosse ancora in vita“.


Lo studio è partito dall’osservazione dei dati forniti dallo Study of Health, Ageing, and Retirement in Europe (Share) analizzando 80 anziani di 18 Paesi europei. Ricerche precedenti avevano sottolineato come la qualità della vita di uno dei due partner influisca positivamente su quella dell’altro e sull’affinità di coppia. Il benessere fisico e psicologico di due persone che si amano sembra essere quindi interdipendente. In particolare uno studio della Routgers University pubblicato nel 2014 aveva dimostrato come il benessere della donna sia fondamentale nella vita del partner e nella stabilità della coppia, mentre non è stato dimostrato il contrario. Questa nuova analisi si è spinta più in là, scoprendo che anche dopo la morte di uno dei due il vedovo o la vedova ottiene un’influenza positiva dal grande amore del partner deceduto. I dati riguardano 546 coppie in cui uno dei partner era morto durante il periodo dello studio e 2566 coppie in cui entrambi i partner erano viventi. Il risultato è che l’affinità di coppia dopo la dipartita di uno dei due coniugi è scientificamente indistinguibile da quella tra due innamorati entrambi viventi, indipendentemente da età, stato di salute o anni di matrimonio.


Ciò che conta, a quanto pare, è solo un legame intimo, forte e indissolubile tra due persone: quello che, al di fuori delle ricerche scientifiche, chiamiamo semplicemente “amore“.