Addio a Marta Marzotto, indimenticabile icona di stile

Si è spenta oggi, all’età di 85 anni, Marta Marzotto. Regina incontrastata della mondanità, ex modella, stilista ed indimenticabile icona di stile, la contessa Marta Marzotto ha vissuto una vita romanzesca, ricca di eccessi, amori tormentati e talvolta scandalosi, come la relazione con il pittore Renato Guttuso, di cui fu musa. La sua è la parabola di una giovane cenerentola che dalle risaie diviene regina del jet set internazionale. Una leggenda, un’istituzione: con lei se ne va un pezzo di storia.

L’annuncio della sua scomparsa è stato dato su Twitter dalla nipote Beatrice Borromeo. «Ciao nonita mia», queste le parole della nipote, che accompagnavano la foto di una giovane e sorridente Marta Marzotto. I figli e i nipoti la ricordano come una donna allegra e generosa fino alla fine.

All’anagrafe Marta Vacondio, era nata a Reggio Emilia il 24 febbraio 1931 in una famiglia umile: il padre è un casellante delle ferrovie, la madre una mondina. I primi anni della sua vita la bella Marta li trascorre in Lomellina: è qui che, ancora giovanissima, inizia a lavorare anche lei come mondina, proprio come Silvana Mangano in “Riso amaro”. Una giovinezza difficile, che Marta Marzotto non ha mai dimenticato, restando sempre umile malgrado il successo e andando sempre fiera delle proprie origini. «Mi fasciavo le gambe con le pezze per proteggermi dalle foglie taglienti del riso e dalle punture di zanzare. Le bisce d’acqua e i topi mi sgusciavano tra i piedi nudi affondati nella melma, ero terrorizzata», così ricorderà più avanti quel periodo della sua vita.

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Si è spenta oggi ad 85 anni Marta Marzotto


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La foto con cui la nipote Beatrice Borromeo ha detto addio su Twitter all’amatissima nonna


Marta Marzotto immortalata a Roma da Helmut Newton, 1986
Marta Marzotto immortalata a Roma da Helmut Newton, 1986


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Marta Marzotto era nata a Reggio Emilia il 24 febbraio 1931


Successivamente lavora come apprendista sarta e all’inizio degli anni Cinquanta debutta come mannequin, dapprima presso la sartoria delle sorelle Aguzzi, a Milano, prima di creare una propria griffe grazie ad un senso senso innato per lo stile. E sarà proprio grazie alla moda che la bella Marta nei primi anni Cinquanta conoscerà il conte Umberto Marzotto, vicentino di Valdagno, industriale laniero e tessile. Dopo due anni di fidanzamento i due convolano a nozze il 18 dicembre 1954. Dalla loro unione, durata 15 anni, nasceranno cinque figli: Paola (nata nel 1955, madre di Beatrice e Carlo Borromeo), Annalisa (nata nel 1957 e morta nel 1989 a causa della fibrosi cistica), Vittorio Emanuele (nato nel 1960), Maria Diamante (nata nel 1963) e Matteo (nato nel 1966).

Ma Marta è uno spirito libero; ribelle per natura, ripudia le convenzioni e non riesce a restare fedele al marito. L’incontro con Renato Guttuso sarà la miccia che farà esplodere il suo matrimonio. I due si incontrano nel salotto dei Marchi, a Milano. Tra lei e il pittore nasce una passione fortissima; Marta ne diviene la musa prediletta e viene ritratta in molte delle sue opere, come nella celebre serie delle Cartoline, 37 disegni che immortalano una donna seducente. L’amore tra i due durerà 20 anni. Poi arriverà Lucio Magri, all’epoca segretario del Partito di unità proletaria per il comunismo: la relazione tra i due durò 10 anni e lei lo definì «un rivoluzionario da salotto».

Marta Marzotto con Renato Guttuso
Marta Marzotto con Renato Guttuso


Marta e Umberto Marzotto
Marta e Umberto Marzotto


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Marta Marzotto è stata modella e stilista


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Nata Marta Vacondio, nel 1954 ha sposato il conto Umberto Marzotto


Anche dopo aver divorziato dal conte Umberto Marzotto, Marta continua ad usare il cognome dell’ex marito. Intanto è divenuta una vera leggenda. Incarnazione emblematica dello stile gypset, animatrice di salotti, donna di mondo ed imprenditrice, e ancora stilista e disegnatrice di gioielli, Marta Marzotto è stata una delle più copiate icone di stile. Irriverente come nessuna, amante della vita, il suo stile prediligeva i caftani, capo simbolo del suo guardaroba: dall’animalier alle stampe floreali, la sua eleganza rispecchiava la sua vita e la sua passione per i viaggi, come il suo gusto per l’avventura.

Dopo aver lavorato a lungo come mannequin Marta Marzotto creò diverse linee di abbigliamento ed accessori che portavano il suo nome. Abiti e accessori unici, per un’eleganza sontuosa e un po’ zingara, caratterizzata da un riuscito mix di elementi chic e popolari. E così era anche il suo stile, ricco di contraddizioni, caleidoscopici caftani tribali che lei mixava magistralmente a zibellini e gioielli importanti: croci, cammei e bracciali dal sapore etnico impreziosivano il caftano, passepartout declinato in chiave extra lusso ma anche casual, il suo capo preferito in assoluto, che le valse l’appellativo di “regina dei caftani”. Gioielli come monili preziosi per uno stile gipsy che, grazie a Marta Marzotto, si è imposto nel mondo.


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Donna bellissima e dalla personalità scoppiettante, conquistò centinaia di copertine e fu immortalata anche da Helmut Newton. Dal suo salotto romano con vista su Piazza di Spagna passarono intellettuali e politici, tra cui Moravia, Dario Bellezza, Sandro Penna, Alberto Arbasino. E la Città Eterna la salvò dalla depressione, dopo la morte della figlia Annalisa, scomparsa prematuramente a cause della fibrosi cistica.

Nella vita patinata di Marta Marzotto c’è stata anche una diatriba giudiziaria: la contessa venne infatti condannata in primo grado dal Tribunale di Varese a otto anni di carcere con il beneficio della condizionale per aver riprodotto alcuni quadri che la ritraevano e alcune serigrafie di Renato Guttuso, senza averne titolo. Tuttavia nel 2011 venne assolta con formula piena dalla Corte d’Appello di Milano.

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La contessa è stata una delle più amate icone di stile


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Figlia di un casellante delle ferrovie e di una mondina, Marta Marzotto iniziò a lavorare come mondina prima di fare la modella


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Marta Marzotto in uno scatto del 1969


Contraria alla chirurgia plastica, Marta Marzotto andava fiera delle proprie rughe e definiva orgogliosamente il proprio viso “una faccia da squaw”. Indimenticabili i suoi party esclusivi tra Roma, Cortina e Milano. Eccentrica eppure democratica, sorridente e genuina, indimenticabile fu la festa a cui invitò nel suo yacht in Costa Smeralda i vu’ cumprà della costa, che si presentarono dopo aver ricevuto regolare invito indossando i loro costumi tradizionali. Di Marta Marzotto ricorderemo la simpatia e l’umiltà di chi, al di là del lifestyle e della vita lussuosa, è sempre rimasta una donna semplice e genuina.

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Marta Marzotto prediligeva lo stile etnico


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Caftani e gioielli importanti nello stile di Marta Marzotto


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La contessa Marta Marzotto


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Marta Marzotto in Roberto Cavalli


Discorso di Gandhi alla Conferenza delle relazioni inter-asiatiche, New Delhi, 2 aprile 1947


Chi era Gandhi? Partire dalla risposta a questa domanda – che di per sé è complessissima – aiuta però a comprendere molto delle sue scelte e della sua visione, sia teorica che soprattutto pratica del mondo, e le sue scelte verso l’indipendenza dell’India.


Tutte le battaglie di Gandhi sono le battaglie di un avvocato che conosce il diritto, la sua forza e i suoi principi, e li usa, da persona colta, contro chi lo ha promulgato e ne chiede il rispetto.
La sua politica indipendentista si gioca su un principio fondamentale che verrà ripreso nelle lotte per i diritti civili in tutto il mondo, non solo dai movimenti indipendentisti e anti-coloniali.
Se un cittadino paga le tasse, deve rispettare le leggi, i codici civili e penali, sottostare alle procedure di quei codici, deve svolgere il servizio militare, deve adottare documenti e permessi governativi, allora deve anche poter votare.
Questo significava sostanzialmente che – per numero di cittadini – le potenze europee come Francia e soprattutto Inghilterra, avrebbero avuto parlamenti nazionali con membri in maggioranza provenienti dalle colonie. E all’inaccettabilità di questa ipotesi, fece corrispondere il rifiuto ad accettare tutti gli altri obblighi. Perché, per gli stessi fondamenti del diritto occidentale, non può esistere un principio giuridico che preveda solo obblighi senza diritti.


Mohandas Karamchand Gandhi nasce il 2 ottobre 1869 a Porbandar. La sua famiglia appartiene alla comunità modh, gruppo tradizionalmente dedito al commercio: il nome Gandhi significa infatti “droghiere”. Nei primi anni di scuola Gandhi viene poco apprezzato. Segue poi gli studi superiori presso Rajkot, dove il padre si era trasferito per ricoprire l’incarico di Primo ministro del locale principato.
All’età di diciotto anni, tre anni dopo la tragica morte del padre, parte per studiare da avvocato presso la University College di Londra. Considerando l’impossibilità di rispettare i precetti induisti in Inghilterra, la sua casta si oppone alla partenza. Gandhi parte nonostante le discordie e per questo viene dichiarato fuori casta dal capo della sua comunità.
A Londra Gandhi si adatta alle abitudini inglesi, vestendosi e cercando di vivere come un gentleman.
Due giorni dopo aver passato gli esami di giurisprudenza parte dall’Inghilterra, il 12 giugno 1891, per tornare in India: una volta sbarcato a Bombay apprende che la madre era morta. Con l’aiuto del fratello viene riammesso nella sua casta e inizia a praticare l’avvocatura; avrà però difficoltà ad esercitare la sua professione: le sue conoscenze sono soprattutto teoriche e non conosce ancora bene il diritto indiano. Inoltre è imbarazzato nel parlare in pubblico
Ritorna allora a Rajkot per lavorare con suo fratello, facendo il lavoro di avvocato. Due anni dopo, la ditta indiana Dada Abdullah & C., che commercia nel Natal, lo incarica di difendere una causa in Sudafrica.
In Sudafrica entra in contatto con l’apartheid (segregazione dei neri). Ma viene soprattutto a contatto con il pregiudizio razziale e con le condizioni di quasi schiavitù nelle quali vivono i suoi 150 mila connazionali. Questa situazione lo porterà a un’evoluzione interiore profonda. Diversi aneddoti sono stati raccontati direttamente da Gandhi a titolo di «esperienze di verità» e meritano di essere riportati per capire questo cambiamento: un giorno, in un tribunale di Durban, il magistrato gli domanda di togliere il turbante. Gandhi si rifiuta di obbedire e viene espulso dal tribunale. Si fa espellere anche da un treno a Pietermaritzburg, non avendo accettato di passare dal vagone di prima classe in quello di terza classe, dato che possedeva un biglietto valido per la prima classe. In seguito prende una diligenza ed il responsabile prima gli vieta di viaggiare all’interno con gli altri passeggeri europei e poi lo picchia perché si rifiuta di spostarsi sul predellino
Dopo aver lasciato definitivamente il Sudafrica nel 1914, giunge in Inghilterra al momento dello scoppio della guerra contro la Germania: offre il suo aiuto nel servizio di ambulanza, ma una pleurite mal curata lo costringe a ritornare in India. Vi giunge il 9 gennaio 1915: sbarca nel porto di Mumbai dove viene festeggiato come un eroe nazionale. Il leader del Congresso indiano Gopal Krishna Gokhale gli suggerisce un anno di “silenzio politico”, nel corso del quale è invitato a viaggiare in treno per conoscere la vera India: Gandhi accetta e decide di percorrere il paese in lungo e in largo, di villaggio in villaggio, per incontrare l’anima indiana e conoscerne i bisogni. Così per tutto il 1915, Gandhi viaggia per conoscere la condizione dei villaggi indiani il cui numero si eleva a 700.000.
Il 18 marzo 1919 viene approvato dal governo britannico il Rowlatt Act, che estende in tempo di pace le restrizioni di libertà entrate in vigore durante la guerra. Gandhi si oppone con un movimento di disobbedienza civile che ha inizio il 6 aprile, con uno spettacolare hartal, uno sciopero generale della nazione con astensione di massa dal lavoro, accompagnato da preghiera e digiuno. Gandhi viene arrestato. Scoppiano disordini in tutta l’India, tra cui il massacro di Amritsar (13 aprile) nel Punjab, durante il quale le truppe britanniche guidate dal generale Edward H. Dyer massacrano centinaia di civili e ne feriscono a migliaia: i rapporti ufficiali parlano di 389 morti e 1000 feriti, mentre altre fonti parlano di oltre 1000 morti. Il massacro genera un trauma in tutta la nazione accrescendo la collera della popolazione. Questo genera diversi atti di violenza a seguito dei quali Gandhi, facendo autocritica, sospende la campagna satyagraha.
Dopo questo massacro Gandhi critica sia le azioni del Regno Unito, sia le violente rappresaglie degli indiani esponendo la sua posizione in un toccante discorso nel quale evidenzia il principio che la violenza è malefica e non può essere giustificata.
Gandhi allarga il suo principio di non-violenza al movimento Swadeshi puntando all’autonomia e all’autosufficienza economica del paese, attraverso l’utilizzo dei beni locali, vedendola come una parte del più ampio obiettivo della Swaraj. “Swadeshi” significava “autosufficienza” dell’India dall’economia inglese, puntando sulla produzione interna alla nazione dei prodotti necessari alla popolazione. A questo proposito nell’agosto del 1931 Gandhi aveva affermato:
« Un paese rimane in povertà, materiale e spirituale, se non sviluppa il suo artigianato e le sue industrie e vive una vita da parassita importando manufatti dall’estero »
Inizia così il boicottaggio dei prodotti stranieri, in particolare di quelli inglesi; soprattutto un settore viene visto come essenziale, quello tessile
« I tessuti che importiamo dall’Occidente hanno letteralmente ucciso milioni di nostri fratelli e sorelle »
Nel marzo del 1930 intraprende una campagna contro la tassa del sale e il regime che l’aveva alzata. Inizia così la celebre Marcia del sale che parte con settantotto satyagrahi dall’ashram Sabarmati di Ahmedabadil 12 marzo e termina a Dandi il 6 aprile 1930 dopo 380 km di marcia. Arrivati sulle coste dell’Oceano indiano Gandhi ed i suoi sostenitori estraggono il sale in aperta violazione del monopolio reale e vengono imitati dalle migliaia di indiani unitisi durante la marcia.
Questa campagna, una delle più riuscite della storia dell’indipendenza non-violenta dell’India, viene brutalmente repressa dall’impero britannico, che reagisce imprigionando più di 60 000 persone. Anche Gandhi e molti membri del Congresso vengono arrestati. Diversi satyagrahi vengono inoltre picchiati dalle autorità durante i loro tentativi di razzia non-violenta di saline e di depositi di sale.




Signora Presidente e amici, non credo di dovermi scusare con voi per il fatto che sono costretto a parlare in una lingua straniera. Chissà se questi altoparlanti porteranno la mia voce fino ai confini di questo immenso pubblico. Quelli di voi che sono lontani possono alzare la mano, se sentono quello che dico? Sentite? Bene. Bene, se la mia voce non vi giunge, non è colpa mia, ma colpa degli altoparlanti.
Quello che volevo dirvi è che non devo scusarmi. Non oso, visti tutti i delegati che si sono riuniti qua da tutta l’Asia, e gli osservatori – ho imparato questa parola pronunciata da un amico americano che disse: “Non sono un delegato, sono un osservatore”. Di primo impatto con lui, vi assicuro, pensavo venisse dalla Persia, ma ecco davanti a me un americano e gli dico: “Sono terrorizzato da te, e vorrei che mi lasciassi stare”. Potete immaginare un americano che mi lasci stare? Non lui e, quindi, ho dovuto parlargli.
Quello che volevo dirvi è che il mio idioma per me madrelingua, non lo potete capire, e non voglio insultarvi insistendo su di esso. Il linguaggio nazionale, Hindustani, ci metterà tanto tempo prima di rivaleggiare con un linguaggio internazionale. 
Se ci deve essere rivalità, c’è rivalità tra francese e inglese. Per il commercio internazionale, indubbiamente l’inglese occupa il primo posto. Per discorsi e corrispondenza diplomatici, sentivo dire quando studiavo da ragazzo che il francese era la lingua della diplomazia e se volevi andare da una parte all’altra dell’Europa dovevi provare ad imparare un po’ di francese, e quindi ho provato ad imparare qualche parola di francese per riuscire a farmi capire. Comunque, se ci deve essere rivalità, la rivalità potrebbe nascere tra francese e inglese. Quindi, avendo imparato l’inglese, è naturale che faccia ricorso a questa parlata internazionale per rivolgermi a voi.
Mi chiedevo di cosa dovessi parlarvi. Volevo raccogliere i miei pensieri, ma lasciate che sia onesto con voi, non ne ho avuto il tempo.
Però ieri ho comunque promesso che avrei provato a dirvi qualche parola.
Mentre venivo con Badshah Khan, ho chiesto un piccolo pezzo di carta ed una matita. Ho ricevuto una penna invece di una matita. Ho provato a scarabocchiare qualche parola. Vi spiacerà sentirmi dire che quel pezzo di carta non è qui con me. Ma questo non importa, ricordo cosa volevo enunciare, e mi sono detto: “I miei amici non hanno visto la vera India, e non ci stiamo incontrando in una conferenza nel cuore della vera India”.
Delhi, Bombay, Madras, Calcutta, Lahore – queste sono tutte grandi città e quindi, hanno subito l’influenza dell’Occidente, sono state fatte, magari eccetto Delhi ma non New Delhi, sono state fatte dagli inglesi. Poi ho pensato ad un breve saggio – credo che dovrei chiamarlo così – che era in francese. Era stato tradotto per me da un amico anglo-francese, e lui era un filosofo, era anche un uomo altruista e diceva che mi aveva dato la sua amicizia senza che io lo conoscessi, perché lui parteggiava per le minoranze ed io rappresentavo, assieme ai miei connazionali, una minoranza senza speranze, e non solo senza speranze ma una minoranza disprezzata.
Se gli europei del Sudafrica mi perdonano per quello che dico, eravamo tutti “coolies” [lavoratore non qualificato a basso costo]. Io ero un insignificante avvocato “coolie”. A quei tempi non avevamo dottori “coolie”, non avevamo avvocati “coolie”. Ero il primo nel campo. Ma sempre un “coolie”. Magari sapete cosa si intende con la parola “coolie” ma questo mio amico, si chiamava Krof – sua madre era francese, suo padre inglese – disse: “Voglio tradurre per te una storia francese”. 
Mi perdonerete, chi di voi sa la storia, se nel ricordarla faccio degli errori qua e là, ma non ci sarà nessun errore nell’avvenimento principale.
C’erano tre scienziati e – ovviamente è una storia inventata – tre scienziati uscirono dalla Francia, uscirono dall’Europa alla ricerca della “Verità”. Questa era la prima lezione che mi aveva insegnato quella storia, che se bisogna cercare la verità, non la si trova su suolo europeo. Quindi, indubbiamente neanche in America.
Questi tre grandi scienziati andarono in parti diverse dell’Asia. Uno trovò la strada per l’India e diede inizio alla sua ricerca. Raggiunse le cosiddette città di quei tempi. Naturalmente, ciò avvenne prima dell’occupazione inglese, prima anche del periodo Mughal, così è come ha illustrato la storia l’autore francese, ma visitò comunque le città, vide la gente delle cosiddette caste alte, uomini e donne, fino a che non si addentrò in un’umile casa, in un umile villaggio, e quella casa era una casa Bhangi, e trovò la verità che stava cercando, in quella casa Bhangi, nella famiglia Bhangi, uomo, donna, forse 2 o 3 bambini (lo dico come me lo ricordo) e poi lui descrive come la trovò. Tralascio tutto questo.
Voglio collegare questa storia a quello che voglio dire a voi, che se volete vedere il meglio dell’India, dovete trovarlo in una casa Bhangi, in un’umile casa Bhangi, o villaggi simili, 700.000 come ci insegnano gli storici inglesi. Un paio di città qua e là, non ospitano neanche qualche crore [unità di misura indiana che equivale a 10 milioni] di persone. Ma i 700.000 villaggi ospitano quasi 40 crore di persone. Ho detto quasi perché potremmo togliere una o due crore che stanno in città, comunque sarebbero 38 crore.
E poi mi sono detto, se questi amici sono qui senza trovare la vera India, per cosa saranno venuti? Ho poi pensato che vi pregherò di immaginare quest’India, non dal punto di vista di questo immenso pubblico ma per come potrebbe essere. Vorrei che leggeste una storia come questa storia dei francesi o altre ancora. Magari, qualcuno di voi vada a vedere qualche villaggio dell’India e allora troverà la vera India.
Oggi farò anche questa ammissione: non ne sarete affascinati alla vista. Dovrete raschiare sotto i mucchi di letame che sono oggi i nostri villaggi. Non voglio dire che siano mai stati dei paradisi. Ma oggi sono veramente dei mucchi di letame; non erano così prima, di questo sono abbastanza certo. Non l’ho appreso dalla storia ma da quello che ho visto io stesso dell’India, fisicamente con i miei occhi; e io ho viaggiato da una parte all’altra dell’India, ho visto i villaggi, i miserabili esemplari dell’umanità, gli occhi senza vita, eppure sono l’India, e ciononostante in quelle umili case, nel mezzo dei mucchi di letame troviamo gli umili Bhangis, dove troverete un concentrato di saggezza. Come? Questa è una grande domanda.
Bene, allora voglio illustrarvi un altro scenario. Di nuovo, ho imparato dai libri, libri scritti da storici inglesi, tradotti per me. Tutta questa ricca conoscenza, mi spiace dire, arriva qui da noi in India attraverso i libri inglesi, attraverso gli storici inglesi, non che non ci siano storici indiani ma neanche loro scrivono nella loro madrelingua, o nella loro lingua nazionale, Hindustani, o se preferite chiamarli due idiomi, Hindi e Urdu, due forme della stessa lingua. No, ci riferiscono quello che hanno studiato sui libri inglesi, magari gli originali, ma attraverso gli inglesi in inglese, questa è la conquista culturale dell’India, che l’India ha subito.
Ma ci dicono che la saggezza è arrivata dall’Occidente verso l’Oriente. E chi erano questi saggi? Zoroastro. Lui apparteneva all’Oriente. Fu seguito dal Buddha. Lui apparteneva all’Oriente, apparteneva all’India. Chi ha seguito il Buddha? Gesù, di nuovo dall’Asia. Prima di Gesù ci fu Musa, Mosè, che apparteneva anche lui alla Palestina, ma verificavo con Badshah Khan e Yunus Saheb ed entrambi sostenevano che Mosè appartenesse alla Palestina, sebbene fosse nato in Egitto. Poi venne Gesù, poi Mohammad. Tutti loro li tralascio. Tralascio Krishna, tralascio Mahavir, tralascio le altre luci, non le chiamerò luci minori, ma sconosciute in Occidente, sconosciute al mondo letterario. 
In ogni modo, non conosco una singola persona che possa uguagliare questi uomini d’Asia. E poi cosa accadde? Il Cristianesimo, arrivando in Occidente, si è trasfigurato. Mi spiace dire questo, ma questa è la mia lettura. Non dirò altro al riguardo. Vi racconto questa storia per incoraggiarvi e per farvi capire, se il mio povero discorso può farvi capire, che lo splendore che vedete e tutto quello che vi mostrano le città indiane non è la vera India. Certamente, il massacro che avviene sotto i vostri occhi, mi dispiace, vergognoso come dicevo ieri, dovete seppellirlo qui. Il ricordo di questo massacro non deve oltrepassare i confini dell’India, ma quello che voglio voi capiate, se potete, è che il messaggio dell’Oriente, dell’Asia, non deve essere appreso attraverso la lente occidentale, o imitando gli orpelli, la polvere da sparo, la bomba atomica dell’Occidente.
Se volete dare di nuovo un messaggio all’Occidente, deve essere un messaggio di “Amore”, un messaggio di “Verità”.
Ci deve essere una conquista (applausi) per favore, per favore, per favore. Questo interferisce con il mio discorso, e interferisce anche con la vostra comprensione. Voglio catturare i vostri cuori, e non voglio ricevere i vostri applausi. Fate battere i vostri cuori all’unisono con le mie parole, e io credo che il mio lavoro sarà compiuto.Voglio lasciarvi con il pensiero che l’Asia debba conquistare l’Occidente. Poi, la domanda che mi ha fatto un mio amico ieri: “Se credevo in un mondo unico?”. Certo, credo in un mondo unico. Come posso fare diversamente, quando divento erede di un messaggio di amore che questi grandi, inconquistabili maestri ci hanno lasciato? Potete esprimere questo messaggio di nuovo ora, in questa era di democrazia, nell’era del risveglio dei più poveri dei poveri, potete esprimere questo messaggio con maggiore enfasi. Poi completerete la conquista di tutto l’Occidente, non attraverso la vendetta perché siete stati sfruttati, e nello sfruttamento voglio ovviamente includere l’Africa, e spero che quando vi rincontrerete in India la prossima volta ci sarete tutti: spero che voi, nazioni sfruttate della terra, vi incontrerete, se a quell’epoca ci saranno ancora nazioni sfruttate.
Ho forte fiducia che se unite i vostri cuori, non solo le vostre menti, e capite il segreto dei messaggi che i saggi uomini d’Oriente ci hanno lasciato, e che se veramente diventiamo, meritiamo e siamo degni di questo grande messaggio, allora capirete facilmente che la conquista dell’Occidente sarà stata completata e che questa conquista sarà amata anche dall’Occidente stesso. 
L’Occidente di oggi desidera la saggezza. L’Occidente di oggi è disperato per la proliferazione della bomba atomica, perché significa una completa distruzione, non solo dell’Occidente, ma la distruzione del mondo, come se la profezia della Bibbia si avverasse e ci fosse un vero e proprio diluvio universale. Voglia il cielo che non ci sia quel diluvio, e non a causa degli errori degli umani contro se stessi. Sta a voi consegnare il messaggio al mondo, non solo all’Asia, e liberare il mondo dalla malvagità, da quel peccato. 
Questa è la preziosa eredità che i vostri maestri, i miei maestri, ci hanno lasciato.

Consigli di stile: 3 outfit da indossare in casa

Per quale motivo rinunciare alla propria femminilità, con la scusa del “tanto sono a casa, chi vuoi che mi veda?!”

E se dovessi avere un malore? Vuoi che ti colgano impreparata, in disordine, senza trucco, con i capelli arruffati e con un terribile bisogno di fare tappa dall’estetista? Ricordatevi bene cosa diceva Marilyn Monroe: ”

Che vergogna quando arrivò l’idraulico. Io lì, tutta nuda nella vasca… e non avevo lo smalto sulle unghie!

Ecco quindi 3 outfit da indossare in casa, per le freelance, per le casalinghe, per chi semplicemente passa molto tempo tra le mura domestiche ma non vuole rinunciare allo stile.

Evitiamo vi prego babbucce o simili o pantofole De Fonseca con pelo, no ai maglioni logori dal tempo, con buchi sui gomiti, quelli che “non lo butto, lo uso per casa!” – optiamo per qualcosa di comodo, ma con dettagli sexy, che insomma ci ricordi che siamo donne e non sacchi di patate!

Sicuramente nell’armadio tutte avrete una t-shirt bianca e un pantalone tinta unita morbido, magari quello della tuta, un total white perfetto, facile e senza investimenti di denaro.

Per le femme fatale, feline anche a casa e con il desiderio di sentirsi libere, consiglio un body abbinato a maglione large – meglio se di una taglia in più, perfetto se maschile, – caldo, morbido che faccia quasi da vestito e lasci libere le gambe. Per le più freddolose dei calzettoni e si è subito Kim Basinger in “Nove settimane e mezzo“.

Uscite dal letto, volete coprirvi ma non avete sottovesti a portata di mano? Semplice, avete il permesso di rubare la camicia al vostro lui! E’ un indumento sexy, pratico e che vi lascerà il suo profumo addosso.

Unica regola: i capelli devono essere sciolti e ribelli, proprio come dopo una notte d’amore …

 



(foto David Bellemere – immagini dei capi @Trendfortrend)




(foto Helmut Newton – immagini dei capi @Trendfortrend)




(foto David Bellemere – immagini dei capi @Trendfortrend)

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La collezione swimwear di Stella McCartney

Pensata a tutte le donne di forme, taglie ed età diverse, la linea swimwear di Stella McCartney, sta riscontrando un notevole successo.

La designer londinese, dopo essersi cimentata con una linea di lingerie e nella collaborazione con il marchio Adidas ha pensato, infatti, di creare una collezione mare ispirata alla silhouette della maison, coniugando i suoi principi animalisti, che l’hanno contraddistinta, per la sua etica, da molti brand presenti sul mercato.

 

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(Fonte immagine stellamccartney.com)

 

 

La collezione, accontenta una fascia di clientela ampia: dal costume intero in neoprene ispirati ad un abito sagomato appartenente ad una collezione prêt-à-porter passata, ai due pezzi “agrumati”, colorati e divertenti; il bikini leopardato con reggiseno incrociato in vita, è stato progettato per chi ama essere al centro dell’attenzione ma con eleganza e il bikini rayé, composto da un bra e da una culottes a vita alta (rigorosamente a righe orizzontali e verticali), per chi ama vestire uno stile sporty-glam.

La linea mare di stella McCartney, come tutte le collezioni lanciate sul mercato, è sviluppata attraverso il concetto di ecosostenibilità. Il marchio, infatti, rispetta l’ambiente utilizzando solo cotone biologico nella produzione dei suoi capi, eliminando totalmente dalle collezioni, il PVC.

Per maggiori informazioni sulla linea www.stellamccartney.com

Au revoir Milano. Emporio Armani sfilerà a Parigi

Questa stagione, eccezionalmente, ho deciso di presentare la collezione Emporio Armani a Parigi. I restyling del negozio e dell’Emporio Armani Caffè di Saint-Germain sono stati l’occasione per ripensare il luogo e il momento dello show”.

E’ così, che Giorgio Armani, annuncia la decisione (anche se momentanea) di abbandonare la settimana della moda milanese, per approdare in quella francese.

 

(Emporio Armani. Fonte armani.com)
(Emporio Armani. Fonte armani.com)

 

 

Un ritorno, a distanza di ventotto anni, nella Paris Fashion Week, dopo la deludente esperienza parigina dove, Re Giorgio, incontrò le resistenze degli abitanti del quartiere e delle autorità competenti.

Intanto, il calendario della prossima settimana della Milano Fashion Week, non è ancora stato stilato, sintomo (forse) che una falla nel sistema si sta aprendo.

Per chi non ne avesse preso nota, durante la conferenza stampa in occasione della Moda Uomo di giugno, lo stilista espose tutta la sua amarezza nei confronti di una calendario sempre più scarno evidenziando la sua riluttanza al fatto che la sua griffe, sfilasse per ultima durante la kermesse meneghina.

E se questa decisione non fosse solo figlia del caso ma, al contrario, ci trovassimo di fronte alla fuga di Roi George verso la Ville Lumière?

 

 

 

Fonte cover fashiontimes.it

Jean Paul Gaultier firmerà una capsule collection per OVS

Cresce l’attesa per la capsule collection firmata da Jean Paul Gaultier in esclusiva per OVS. La collaborazione tra lo stilista francese e OVS prevede una collezione di abbigliamento ed accessori per lui e per lei.

“Jean Paul Gaultier per OVS” sarà il nome con cui verrà firmata la collezione, il cui lancio è atteso per l’autunno 2016. Si tratterà di circa 60 pezzi disegnati in esclusiva per OVS e disponibili da metà novembre in alcuni store e online sul sito ovs.it.

Tante sono le collaborazioni esclusive lanciate negli ultimi anni da OVS: da Elio Fiorucci a Costume National fino a Kristina Ti, solo per citarne alcuni. Ora tocca a Jean Paul Gaultier: lo stilista francese, che dalla sfilata Primavera/Estate 2015 ha preso congedo dal prêt-à-porter per dedicarsi all’haute couture e ai suoi storici profumi, è da sempre amatissimo per il suo stile inimitabile. L’ex enfant terrible della moda francese si prepara a stupirci ancora.

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Nuovo look per il packaging Louis Vuitton

Justine Mattera, l’erotismo e tutta la verità sulla sua vita privata

E’ bella da morire, emana un fascino erotico da femme fatale, ha 45 anni con un fisico da 20enne: Justine Mattera è l’icona sexy che ha fatto un patto con il diavolo.

L’abbiamo vista nei panni della sosia di Marilyn Monroe, sugli schermi televisivi accanto a Paolo Limiti, l’ex marito – oggi l’americana laureata in lingua e letteratura italiana a Stanford, si dedica al teatro, sua grande passione.

La commedia che ora la vede impegnata  nei teatri italiani  è “Miles Gloriosus” con Corrado Tedeschi ed Ettore Bassi, dove interpreta una cortigiana astuta e ingannatrice.

Sei così anche nella vita privata?

Nella vita privata sono fondamentalmente una buona, non ho mai fatto scelte calcolate, forse, stupidamente, ho sempre ascoltato il cuore.
Ho rinunciato a molte proposte di lavoro per dedicarmi alla famiglia, per stare accanto ai miei due figli, che ho voluto e desiderato più di ogni altra cosa al mondo. Loro, nella scala delle priorità, sono al primo posto.

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abito Luisa Beccaria


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abito Luisa Beccaria, sandalo gioiello Cerasella


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abito Luisa Beccaria, sandalo gioiello Cerasella




Che mamma sei?

Ansiosa, italiana direi (ride)-  Da quando vivo in Italia il mio approccio verso la famiglia è cambiato, non avrei creduto di diventare una mamma tanto protettiva; porto i figli con me ovunque posso, soprattutto in estate. E’ molto dura perché devo conciliare lavoro, orari e tempo da dedicare a loro. Gli spettacoli a volte finiscono a tarda sera e non sono certo orari consoni ai bambini, ma loro sono felici di stare con me e viceversa.

E’ vero che insegni inglese nelle loro scuole?

Sì, mi sono proposta gratuitamente, sono laureata in lingue e lavorare con i bambini mi da molte soddisfazioni . Mi piacerebbe moltissimo in futuro insegnare letteratura americana nelle scuole, chissà …


 

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abito scollato Amen


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abito nero Amen


Andando a scavare nelle tua quotidianità, scopriamo un lato materno e dolce; quello che esce dai social network invece è l’immagine di una donna provocante; quanta importanza ricopre l’erotismo nella tua vita?

Moltissima, come per tutti credo , solo che non tutti  hanno il coraggio di ammetterlo.

Le donne sono spaventate nel “mostrarsi”, lasciano intendere che una volta diventate mamme le priorità debbano cambiare, ma sanno benissimo che in primis siamo donne, mogli e compagne.
Io mi diverto moltissimo nel provocare, è nella provocazione che scateno dei pareri, positivi o negativi, ma che certamente non passano inosservati.
Prendo il bello della vita e lo faccio con gioia, divertendomi, i servizi fotografici stessi sono parte di questo mio lato e in fondo so bene che il mio corpo cambierà con il passare del tempo, quindi finché è bello, mostriamolo !

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reggiseno e culotte vita alta Triumph, reggicalze e calze velate Pierre Mantoux




Ma hai fatto un patto con il diavolo per avere il fisico di una 20enne? Qual è il tuo segreto di bellezza, ce lo sveli?

Sono una sportiva, da sempre, nuoto, corro e ho scoperto una nuova disciplina, la pole dance. Modella il fisico in ogni suo muscolo, compresi gli addominali superiori. Evito i lieviti negli alimenti perché sono allergica, bevo acqua e limone tutte le mattine, mi piace cucinare al vapore, anche per i miei figli, ma mangio un po’ di tutto e sono un’amante del buon vino. Ora sono in turnè ad Otranto, mi fanno assaggiare i prodotti locali, vuoi non abbinarci un buon Negro Amaro ?

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slip a vita alta Triumph, reggiseno farfalla Luisa Beccaria, jacket Space Style Concept, shoes Coriamenta


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Blusa Leitmotiv


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slip a vita alta Triumph, reggiseno farfalla Luisa Beccaria, jacket Space Style Concept, shoes Coriamenta




Ti vediamo sempre perfetta nei servizi fotografici; pur non avendone bisogno, cosa pensi dei fotoritocchi in Photoshop? 

Cerco di consigliare ai fotografi di evitarli, insomma come diceva la grande Anna Magnani ” Lasciami tutte le rughe, c’ho messo na vita a farmele !

Capisco che una donna superata un’età, voglia ancora piacersi e ricorra quindi alla chirurgia estetica, non sono contro se fatta con parsimonia, ma trovo di cattivo gusto il botulino eccessivo, oggi esiste un altro rimedio che la pelle riassorbe dopo qualche mese, con l’acido ialuronico. Ecco questo è un ottimo alleato delle donne, non deforma e se ci si pente, dopo qualche tempo sparisce.

Negare di ricorrere a questi piccoli accorgimenti è ridicolo, insomma sono una madre, ho allattato due figli, la forza di gravità e la natura non si possono fermare, quindi ho deciso di rifare il seno, l’ho fatto per me anzitutto, non per mio marito – è una decisione che mi fa stare meglio, mi piaccio di più e almeno non devo imbottire continuamente gli abiti di scena !

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abito Luisa Beccaria, reggiseno pois Bisbigli


 

 

starring: Justine Mattera 

photo: Adolfo Valente 

make up: Presiana

 

Thanks to: Palazzo Ca’ Vendramin Calergi – Casinò di Venezia

Nativa. Il viaggio onirico di Greta Boldini

Elegante, sofisticata ed incredibilmente garbata: Nativa, la collezione appena proposta dalla griffe Greta Boldini durante l’ultima edizione di Altaroma 2016, è un viaggio onirico atto a trasfigurare i lavori letterari del poeta-scrittore Dylan Thomas in un viaggio atemporale che stuzzica vista e sentimento.

Ecco, che vividi si fanno i toni dell’amata terra del Galles, sofferta durante le lunghe e gelide notti invernali, e che si veste, oltremodo, di colori forti e visivamente avvolgenti, appena il sole la sfiora, disincantandone l’immane bellezza.

La sua fonte d’ispirazione concreta, è legata prettamente all’arte, che sia figurativa o letteraria. Un studio certosino nelle origini dei Nativi d’America, popolo a cui viene dedicata la collezione primavera/estate 2017; ed è così, che l’estro creativo dell’artista Graham Sutherland e la sua l’opera “Western Hills”, s’insinuano nel progetto creativo del designer Alexander Flagella.

Capi raffinati, dalla silhouette attraente. La femminilità della donna Greta Boldini, si accentua con abiti leggeri movimentati da fitti plissé. Il lusso, in Nativa, viene scandito dall’utilizzo di materie prime di altissima qualità come i pizzi macramè, il satin, il georgette, il cady di viscosa, il cotone panama, il tutte e jacquard di cotone. L’alta sartorialità e allo stesso modo, la complessità della collezione, si arguisce dall’utilizzo delle piume di marabout, gallo e faraone che compartecipano alla voluttuosità della collezione assieme agli effetti 3D ricavati da ricami con paillettes di madre perlate e bacchette di puro vetro.

Stampe floreali (onnipresenti nei nelle collezioni del marchio Greta Boldini), sono state abbinate abilmente a geometrismi elaborati con intarsi di nastri, passamanerie e frange.

La palette di colori, è variopinta e viene scandita dai toni del bordeaux, grigio chiaro, rosa delicato, verde mente, corallo, blu cobalto e nero.

Per gli accessori, eleganti pochettes, si intervallano a borse con manici intrecciati “Cactus”. A completare, guanti in tulle e i gioielli firmati Voodoo Jewels.

 

 

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Alexander Wang alla corte di Adidas?

Il marchio Adidas, come tutti ben sapranno, è sempre incline a nuove collaborazioni. Dopo quelle oramai apprezzate e super richieste con Kanye West, Stella McCartney, Yohji Yamamoto, Rick Owens e Raf Simons, pare sia arrivato il momento per lo stilita Alexander Wang.

Quelle attuali, parrebbero momentaneamente, solo indiscrezioni, che potrebbero essere confermate solo più avanti e, sicuramente, in occasione della prossima sfilata prêt-à-porter, programmata per il prossimo 10 settembre 2016 durante la settimana della moda newyorkese.

Dopo la sfilata, inoltre, si attenderebbe un evento esclusivo che vedrebbe la partecipazione di un sentito parterre di celebs.

 

 

Fonte cover purple.fr

De Gasperi, Discorso alla Conferenza di pace di Parigi, 10 agosto 1946

Alcide De Gasperi si presenta alla conferenza di pace di Parigi, a un anno dalla fine della seconda guerra mondiale, da primo presidente del consiglio dopo il fascismo.
L’Italia è una paese duplice agli occhi del mondo. È un paese sconfitto dagli alleati, che fu tra i più fieri alleati di Hitler e del nazismo. Ma è anche un paese che in gran parte si è liberato da solo, con circa due anni di lotte partigiane: una seconda guerra mondiale nella seconda guerra mondiale. Non senza ferite laceranti che resteranno nella storia del nostro paese.
De Gasperi gode del rispetto personale dei leader presenti alla conferenza, e del prestigio che il mondo gli riconosce. Lui e gli altri ministri sono consapevoli che la solidità della situazione istituzionale Italia dipende anche e soprattutto dal risultato di questa conferenza di pace, per evitare che nuovi sentimenti revanscisti spingano ad estremismi di qualsiasi tipo in un paese a metà tra cattolici e comunisti sul confine mediano di un’Europa che si annuncia divisa e fragile.
Il peso sulle spalle di De Gasperi è enorme, ed è consapevole che questo sarà solo uno dei momenti topici che nei mesi successivi caricheranno su di lui e sul suo governo le fragili sorti dell’Italia.


De Gasperi nacque e si formò nell’allora Tirolo Italiano, ovvero Trentino, regione che all’epoca era parte dell’Impero austro-ungarico. Dopo la laurea entrò a far parte della redazione del giornale Il Trentino e in breve tempo assunse la carica di direttore, scrisse una serie di articoli con cui difendeva l’autonomia culturale del Trentino a fronte del Tirolo tedesco, ma non mise mai in discussione l’appartenenza di tutto il Tirolo all’Impero austro-ungarico.
Nelle elezioni del Parlamento austriaco del 13 e 20 giugno 1911 venne eletto tra le file dei Popolari: nel suo collegio elettorale di Fiemme-Fassa-Primiero-Civezzano, di 4275 elettori, ottenne ben 3116 voti. Il 27 aprile 1914 ottenne anche un seggio nella Dieta Tirolese di Innsbruck. Anche il suo impegno di Parlamentare fu legato alla difesa dell’autonomia delle popolazioni trentine. La sua attività propagandistica finì con l’essere tenacemente avversata dagli organi polizieschi in seguito al precipitare degli eventi internazionali: l’attentato di Sarajevo che determinò lo scoppio della prima guerra mondiale e soprattutto l’adesione dell’Italia allaTriplice intesa.
Inizialmente De Gasperi sperò che l’Italia entrasse in guerra a fianco dell’Austria-Ungheria e della Germania sulla base della Triplice alleanza.
Nel maggio 1918, quando ormai l’impero austro-ungarico stava crollando, fu tra i promotori di un documento comune sottoscritto dalle rappresentanze dei polacchi, dei cechi, degli slovacchi, dei rumeni, degli sloveni, dei croati e dei serbi. Il successivo 24 ottobre partecipò alla formazione del Fascio nazionale, comprendente popolari liberali trentini e liberali giuliani e adriatici.
Dopo il passaggio del Trentino all’Italia nel 1919, accettò e prese la cittadinanza italiana.


Nel 1919 aderì al Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo; solo nel 1921 venne eletto deputato a Roma, in quanto il Trentino fino a quell’epoca era stato sottoposto a regime commissariale.
Nel 1922 si sposa con Francesca Romani. Nello stesso anno il 16 novembre a seguito del discorso del bivacco votò la fiducia al governo Mussolini. Al tempo delle dimissioni di Don Sturzo da segretario del PPI De Gasperi era capogruppo alla Camera. Il 20 maggio 1924 assunse la segreteria del Partito popolare, carica che manterrà fino al 14 dicembre 1925.
Dopo l’iniziale sostegno del suo partito nella prima parte del governo Mussolini, tanto che nel 1923 i popolari cercarono inizialmente di trovare un compromesso sulla legge Acerbo, De Gasperi tenne un discorso alla Camera dei Deputati il 15 luglio 1923 esplicando il suo atteggiamento verso quella legge. Successivamente si oppose all’avvento del fascismo finché, isolato dal regime, fu arrestato alla stazione di Firenze l’11 marzo 1927, insieme alla moglie, mentre si stava recando in treno a Trieste. Al processo che seguì venne condannato a 4 anni di carcere e a una forte multa.
Dopo la scarcerazione, alla fine del luglio 1928, venne continuamente sorvegliato dalla polizia e dovette trascorrere un periodo di grandi difficoltà economiche e isolamento sia morale che politico. Senza un impiego stabile, provò a presentare domanda presso la Biblioteca Apostolica Vaticana nell’autunno 1928, contando sull’interessamento del vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, e di alcuni amici ex popolari. L’assunzione – come collaboratore soprannumerario – venne il 3 aprile 1929, dopo la firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929).
Nel 1942-43, durante la Seconda Guerra mondiale, compose, insieme ad altri, l’opuscolo Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana in cui esprimeva le idee alla base del futuro partito della Democrazia Cristiana di cui sarebbe stato cofondatore.
Una volta liberato il sud Italia a opera delle forze anglo-americane, entrò a far parte in rappresentanza della Democrazia Cristiana nel Comitato di Liberazione Nazionale. Durante il governo guidato da Ivanoe Bonomi fu ministro senza portafoglio, mentre dal dicembre del 1944 al dicembre del 1945 venne nominato ministro degli esteri.
Nel 1945 fu nominato presidente del Consiglio dei Ministri, l’ultimo del Regno d’Italia. Durante tale governo fu proclamata la Repubblica e perciò fu anche il primo capo di governo dell’Italia repubblicana, e guidò un governo di unità nazionale, che durò fino al 1947 quando il Presidente degli Stati Uniti Truman ordinò l’espulsione dei partiti socialcomunisti dai governi dell’Europa Occidentale.
Da ricordare che dall’esilio di Umberto II il 13 giugno del 1946, quando il consiglio dei ministri da lui presieduto aveva proceduto alla proclamazione della repubblica prima che la Corte di Cassazione ratificasse i risultati definitivi del referendum del 2 e 3 giugno, alla sua carica fu connessa la funzione accessoria di capo provvisorio dello Stato: in quelle ore si ebbe il drammatico scambio di battute con Falcone Lucifero, ministro della monarchia, in cui De Gasperi affermò: «O lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei». I poteri accessori della Presidenza del Consiglio ebbero termine contestualmente all’elezione di Enrico De Nicola come Capo provvisorio dello Stato il 28 giugno da parte dell’Assemblea Costituente.


Nel gennaio 1947 ebbe luogo la celebre missione di De Gasperi negli Stati Uniti, nel corso della quale lo statista conseguì un importante successo politico con l’ottenere dalle autorità americane un prestito eximbank di 100 milioni di dollari. L’apertura di un dialogo costruttivo tra i due paesi conferì a De Gasperi la motivazione e il sostegno necessari ad attuare l’ambizioso disegno di un nuovo governo senza le sinistre e con l’apporto di un gruppo di “tecnici” guidati da Luigi Einaudi. La formazione del quarto gabinetto De Gasperi contribuirà a ripristinare la credibilità dell’azione di governo, consentendo l’adozione della strategia antinflazionistica nota come “linea Einaudi”.
Nell’occasione fu il terzo italiano a essere onorato di una ticker-tape parade dalla città di New York, e sarà l’unico a ripeterne l’esperienza, nel 1951.


In un’Italia oberata dal ricordo di vent’anni di dittatura fascista e spaventosamente logorata dalla Seconda guerra mondiale, De Gasperi affrontò con dignità politica le trattative di pace con le nazioni vincitrici, che porteranno alla firma del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, riuscendo a confinare le inevitabili sanzioni principalmente all’ambito del disarmo militare (che con il tempo sarebbero state superate andando a decadere), ed evitando la perdita di territori di confine come l’Alto-Adige (riguardo il quale lo statista trentino firmerà anche il famoso Accordo De Gasperi-Gruber) e la Valle d’Aosta. Cercò inoltre di risolvere a vantaggio dell’Italia la questione della sovranità dell’Istria e di Trieste, ove però ebbe meno successo dovendo accettare la perdita della prima in favore della neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia guidata da Tito e l’istituzione delTerritorio libero di Trieste soggetto all’autorità anglo-americana nella seconda. Finanziò una rivista, Terza generazione, il cui scopo era di unire i giovani di là dai partiti e superare la divisione tra fascisti e antifascisti.


L’equilibrio del discorso qui riproposto sta nell’umiltà nel presentare ai vincitori le richieste per l’Italia e al contempo la dignità nel pretendere rispetto per un paese che ha combattuto il fascismo.
Una duplicità che tiene conto della contingenza storica, della verità storica, e della prospettiva di equilibrio in politica interna.
“Signori Delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. … vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.”



Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale
cortesia, è contro di me: e sopratutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare
come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro
conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno
spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?
Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del
mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche
come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che,
armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del
cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace
duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il
compito di stabilire.
Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in
quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente
duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione
internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita
del saio del penitente, nell’ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d’accordo nel proposito di
bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’art. 2 dello Statuto di
San Francisco) in base al « principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri», come è detto
allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente «l’integrità territoriale e
l’indipendenza politica», tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e
conforto. L’Italia avrebbe subito delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra
tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione
internazionale.
Si può credere che sia così?
Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio.
In un congresso di pace è estremamente antipatico parlar d’armi e di strumenti di guerra. Vi
devo accennare, tuttavia, perché nelle precauzioni prese dal trattato contro un presumibile
riaffacciarsi di un pericolo italiano si è andati tanto oltre da rendere precaria la nostra capacità
difensiva connessa con la nostra indipendenza. Mai, mai nella nostra storia moderna le porte di
casa furono così spalancate, mai le nostre possibilità di difesa così limitate. Ciò vale per la
frontiera orientale come per certe rettifiche dell’occidentale ispirate non certo ai criteri della
sicurezza collettiva. Né questa volta ci si fa balenare la speranza di Versailles, cioè il proposito
di un disarmo generale, del quale il disarmo dei vinti sarebbe solo un anticipo.
Ma in verità più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si rivela subito nel
preambolo. Il primo considerando riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritroverete tale
quale in tutti i trattati coi così detti ex-satelliti; ma nel secondo considerando che riguarda la
cobelligeranza voi troverete nel nostro un apprezzamento sfavorevole che cercherete invano
nei progetti per gli Stati ex-nemici. Esso suona: «considerando che sotto la pressione degli
avvenimenti militari, il regime fascista fu rovesciato…». Ora non v’ha dubbio che il
rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma
il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga
cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza
l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli
uomini dell’opposizione parlamentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi
rappresentanti) che spinsero al colpo di stato. Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2
agosto 1945 proclama: « l’Italia fu la prima delle Potenze dell’Asse a rompere con la Germania,
alla cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli Alleati nella
guerra contro il Giappone».
«L’Italia ha liberato se stessa dal regime fascista e sta facendo buoni progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche».
Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si
faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu protagonista? Forse che un
governo designato liberamente dal popolo, attraverso l’Assemblea Costituente della Repubblica,
merita meno considerazione sul terreno democratico? La stessa domanda può venir fatta circa
la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: « delle Forze armate italiane hanno
preso parte attiva alla guerra contro la Germania». Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina
da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del «Corpo Italiano di
Liberazione», trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e «last but not least» dei partigiani,
autori sopratutto dell’insurrezione del nord. Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima
e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza
contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti
caduti nella lotta partigiana.
Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi indietreggiarono
lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano
abbattuto.
Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill: «un uomo, un
uomo solo ha voluto questa guerra» e quanto fosse profetica la parola di Stimson, allora
Ministro americano della guerra: «la resa significa un atto di sfida ai tedeschi che avrebbe
cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze».
Ma è evidente che, come la prefazione di un libro, anche il preambolo è stato scritto dopo il
testo del Trattato, e così bisognava ridurre, attenuare il significato della partecipazione del
popolo italiano ed in genere della cobelliggeranza perché il preambolo potesse in qualche
maniera corrispondere agli articoli che seguono.
Infatti dei 78 articoli del trattato la più parte corrisponde ai due primi considerando, cioè alla
guerra fascista e alla resa: nessuno al considerando della cobelligeranza, la quale si ritiene già
compensata coll’appoggio promesso all’Italia per l’entrata nell’ONU; compenso garantito
anche a Stati che seguirono o poterono seguire molto più tardi l’esempio dell’Italia antifascista.
Il carattere punitivo del trattato risulta anche dalle clausole territoriali. E qui non posso negare
che la soluzione del problema di Trieste implicava difficoltà oggettive che non era facile
superare. Tuttavia anche questo problema è stato inficiato fin dall’inizio da una psicologia di
guerra, da un richiamo tenace ad un presunto diritto del primo occupante e dalla mancata
tregua fra le due parti più direttamente interessate.
Mi avete chiamato a Londra il 18 settembre 1945. Abbandonando la frontiera naturale delle
Alpi e per soddisfare alle aspirazioni etniche Jugoslave, proposi allora la linea che Wilson aveva
fatto propria quando, il 28 aprile 1919, nella Conferenza della Pace a Parigi invocava «una
decisione giusta ed equa, non già una decisione che eternasse la distinzione tra vincitori e
vinti».
Proponevamo inoltre che il problema economico della Venezia Giulia venisse risolto
internazionalizzando il porto di Trieste e creando una collaborazione col porto di Fiume e col
sistema ferroviario Danubio-Sava-Adriatico.
Era naturalmente inteso che si dovesse introdurre parità e reciprocità nel trattamento delle
minoranze, che Fiume riavesse lo status riconosciuto a Rapallo, che il carattere di Zara fosse
salvaguardato.
Il giorno dopo, Signori Ministri, avete deciso di cercare la linea etnica in modo che essa
lasciasse il minimo di abitanti sotto dominio straniero: a tale scopo disponeste la costituzione
di una Commissione d’inchiesta. La commissione lavorò nella Venezia Giulia per 28 giorni. Il
risultato dell’inchiesta fu tale che io stesso, chiamato a Parigi a dire il mio avviso il 3 maggio
1946, ne approvai, sia pure con alcune riserve, le conclusioni di massima. Ma i rappresentanti
iugoslavi insistettero, con argomenti di sapore punitivo, sul possesso totale della Venezia
Giulia e specie di Trieste. Cominciò allora l’affannosa ricerca del compromesso e, quando
lasciai Parigi, correva voce che gli Anglo-Americani, abbandonando le linee etniche, si
ritirassero su quella francese. Questa linea francese era già una linea politica di comodo, non
più una linea etnica nel senso delle decisioni di Londra, perché rimanevano nel territorio slavo
180.000 italiani e in quello italiano 59.000 slavi; sopratutto essa escludeva dall’Italia Pola e le
città minori della costa istriana occidentale ed implicava quindi per noi una perdita
insopportabile. Ma per quanto inaccettabile, essa era almeno una frontiera italo-jugoslava che
aggiudicava Trieste all’Italia. Ebbene, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso durante
il giugno, perché il 3 luglio il Consiglio dei Quattro rovesciasse le decisioni di Londra e facesse
della linea francese non più la frontiera fra Italia e Jugoslavia, ma quella di un cosiddetto
«Territorio libero di Trieste» con particolare statuto internazionale? Questo rovesciamento fu
per noi una amarissima sorpresa e provocò in Italia la più profonda reazione. Nessun sintomo,
nessun cenno poteva autorizzare gli autori del compromesso a ritenere che avremmo assunto
la benché minima corresponsabilità di una simile soluzione che incide nelle nostre carni e mutila
la nostra integrità nazionale. Appena avuto sentore di tale minaccia, il 30 giugno telegrafavo ai
Quattro Ministri degli Esteri la pressante preghiera di ascoltarmi dichiarando di volere
assecondare i loro sforzi per la pace, ma mettendoli in guardia contro espedienti che sarebbero
causa di nuovi conflitti. La soluzione internazionale, dicevo, com’è progettata, non è accettabile
e specialmente l’esclusione dell’Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita insopportabile
alla coscienza nazionale italiana.
La mia preghiera non ebbe risposta e venne messa agli atti. Oggi non posso che rinnovarla,
aggiungendo degli argomenti che non interessano solo la nostra nazione, ma voi tutti che siete
ansiosi della pace del mondo.
Il Territorio libero, come descritto dal progetto, avrebbe una estensione di 783 kmq. con
334.000 abitanti concentrati per 3/4 nella città capitale. La popolazione si comporrebbe,
secondo il censimento del 1921, di 266.000 italiani, 49.501 slavi, 18.000 altri. Lo Stato
sarebbe tributario della Jugoslavia e dell’Italia in misura eguale per la forza elettrica,
comunicherebbe col suo hinterland con tre ferrovie slave e una italiana. Le spese necessarie
per il bilancio ordinario sarebbero di 5 a 7 miliardi; il gettito massimo dei tributi potrebbe
toccare il miliardo. Trieste e il suo porto dall’Italia hanno avuto dal 1919 al 1938 larghissimi
contributi per opere pubbliche e le industrie triestine come i cantieri, le raffinerie, le fabbriche
di conserve, non solo sono sorte in seguito a facilitazioni, esenzioni fiscali, sussidi (anche le linee
di navigazione), ma sono vincolate tutte ai mercati italiani. Già ora il trattato proietta la sua
ombra sull’attività produttiva di Trieste perché non si crede alla vitalità della sistemazione e
alla sua efficienza economica. Come sarà possibile, obiettano i triestini, di mantenere l’ordine in
uno Stato non accetto né agli uni né agli altri, se oggi ancora gli Alleati, che pur vi mantengono
forze notevoli, non riescono a garantire la sicurezza personale?
Il problema interno è forse il più grave. Ogni gruppo etnico chiederebbe soccorso ai suoi e le
lotte si complicherebbero col sovrapporsi del problema sociale, particolarmente acuto e violento
in situazioni come quelle di un emporio commerciale e industriale. Come farà l’ONU ad
arbitrare e ad evitare che le lotte politiche interne assumano carattere internazionale?
Voi rinserrate nella fragile gabbia d’uno statuto i due contendenti con razioni scarse e copiosi
diritti politici e voi pretendete che non vengano alle mani e non chiamino in aiuto gli slavi,
schierati tutto all’intorno a 8 chilometri di distanza, e gl’italiani che tendono il braccio
attraverso un varco di due chilometri?
Ovvero pensate davvero di fare del porto di Trieste un emporio per l’Europa Centrale? Ma allora
il problema è economico e non politico. Ci vuole una compagnia, un’amministrazione
internazionale, non uno Stato; un’impresa con stabili basi finanziarie, non una combinazione
giuridica collocata sulle sabbie mobili della politica!
Per correre il rischio di tale non durevole espediente, voi avete dovuto aggiudicare l’81% del
territorio della Venezia Giulia agli iugoslavi (ed ancor essi se ne lagnano come di un tradimento
degli Alleati, e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del
nuovo Stato); avete dovuto far torto all’Italia rinnegando la linea etnica, avete abbandonato
alla Jugoslavia la zona di Parenzo-Pola, senza ricordare la Carta Atlantica che riconosce alle
popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali, anzi ne aggravate le
condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava che
opteranno per conservare la loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e
dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, le loro case, i loro averi, che più? i
loro beni potranno venir confiscati e liquidati, come appartenenti a cittadini italiani all’estero,
mentre l’italiano che accetterà la cittadinanza slava sarà esente da tale confisca.
L’effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione dal Territorio libero, 180.000 italiani
rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921) e che il totale
degli italiani esclusi dall’Italia calcolando quelli di Trieste, è di 446.000; né per queste
minoranze avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una
generosa revisione delle opzioni ed è già stato raggiunto un accordo su una ampia autonomia
regionale da sottoporsi alla Costituente.
A qual pro dunque ostinarsi in una soluzione che rischia di creare nuovi guai, a qual pro voi vi
chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani del’lstria — ho presente una sottoscrizione di Fola — che sono pronti a partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottoporsi al nuovo regime?
Lo so, bisogna fare la pace, bisogna superare la stasi, ma se avete rinviato d’un anno la
questione coloniale, non avendo trovato una soluzione adeguata, come non potreste fare
altrettanto per la questione giuliana? C’è sempre tempo per commettere un errore irreparabile.
Il trattato sta in piedi anche se rimangono aperte alcune clausole territoriali. È una pace
provvisoria: ma anche da Versailles a Cannes si dovette procedere per gradi. Altre questioni
rimangono aperte o sono risolte nel Trattato negativamente. Non posso ritenere, ad es., che i
nostri rapporti con la Germania si possano considerare definiti con l’art. 87 di codesto Trattato,
il quale impone all’Italia la rinuncia a qualsiasi reclamo, compresi i crediti contro la Germania e
i cittadini germanici fino alla data dell’8 maggio 1945, dopo cioè che l’Italia era in guerra con la
Germania da diciannove mesi.
I nostri tecnici calcolano a circa 700 miliardi di lire, cioè a circa 3 miliardi di dollari, la somma
che possiamo reclamare dalla Germania per il periodo della cobelligeranza; e noi ci dovremo
semplicemente rinunciare? Non può essere questo un provvedimento definitivo; bisognerà pur
riparlarne quando si farà la pace con la Germania: e allora non è questo un altro argomento
per provare che il completo assestamento d’Europa non può avvenire che dopo la pace con la
Germania? Stabiliamo le basi fondamentali del trattato; l’Italia accetterà di fare i sacrifici che può.
Mettiamoci poi a tavolino, noi e gli iugoslavi in prima linea, e cerchiamo un modo di vita, una
collaborazione, perché senza questo spirito le formule del trattato rimarranno vuote.
Non è a dire con ciò che per tutto il resto il trattato sia senz’altro accettabile.
Alcune clausole economiche sono durissime. Così per esempio l’art. 69 che concede ad ogni
Potenza Alleata od Associata il diritto di sequestrare, ritenere o liquidare tutti i beni italiani
all’estero, salvo restituire la eventuale quota eccedente i reclami delle Nazioni Unite.
L’applicazione generale di tale articolo avrebbe conseguenze insopportabili per la nostra
economia. Ci attendiamo che tali disposizioni vengano modificate sopratutto se — come non
dubito — si darà modo ai miei collaboratori di esprimersi a fondo su questo come su ogni altro
argomento, in seno alle competenti Commissioni. Così ancora all’art. 62 ci si impone una rinuncia
contraria al buon diritto e alle norme internazionali, la rinuncia cioè a qualsiasi credito
derivante dalle Convenzioni sul trattamento dei prigionieri.
Logica conseguenza della cobelligeranza è anche che a datare dal 13 ottobre 1943 lo spirito con
cui devono essere regolati i rapporti economici tra noi e gli Alleati sia diverso. Non si tratta più
di spese di occupazione, previste all’epoca dell’armistizio per un breve periodo, ma di spese di
guerra sul fronte italiano. Ad esse il Governo italiano vuole contribuire nei limiti delle sue
possibilità economiche, ma nei modi che di tale capacità tengano conto.
In quanto alle riparazioni, pur essendo disposti a sopportare sacrifici, dobbiamo escludere che
si facciano gravare sull’economia italiana oneri imprecisati e per un tempo indeterminato e nei
riguardi dei territori ceduti o liberati si dovrà tener conto degli enormi investimenti da noi fatti
per opere pubbliche per lo sviluppo culturale e materiale di tali paesi. Se : clausole del trattato ci
venissero imposte nella loro totalità e crudezza, noi, firmando, commetteremmo un falso perché
l’Italia, nel momento attuale, con una diminuzione dei salari reali di oltre il 50% e del reddito
nazionale di oltre il 45%, ha già visto ridurre la sua capacità di produzione fino al punto da non
poter acquistare all’estero le derrate alimentari e le materie prime. Ulteriori peggioramenti
provocherebbero il caos monetario, l’insolvenza e la perdita della nostra indipendenza
economica. A che ci gioverebbe allora essere ammessi ai benefici del Consiglio economico e
sociale dell’ONU?
Prendiamo atto con soddisfazione che nella Conferenza dei Quattro — seduta del 10 maggio —
la proposta di affidare all’Italia sotto forma di amministrazione fiduciaria le sue colonie ha
incontrato consensi. Confidiamo che tale assenso trovi pratica applicazione nel momento di deliberare.
In tale attesa, purché non si chiedano rinunce preventive, non facciamo obiezioni al
rinvio né al prolungamento dell’attuale regime di controllo militare in quei territori. Ma noi ci
attendiamo che l’amministrazione di quei territori durante l’anno di proroga sia, in conformità
della legge internazionale, affidata almeno per un’equa parte ai funzionari italiani, sia pure sotto
il controllo delle autorità occupanti. E facciamo viva istanza perché decine e decine di migliaia
di profughi dalla Libia, Eritrea e Somalia che vivono in condizioni angosciose in Italia o in campi di
concentramento della Rhodesia o nel Kenya possano ritornare alle loro sedi.
Circa le questioni militari, le nostre obiezioni potranno più propriamente essere esposte nella
Commissione rispettiva. Basti qui riaffermare che la flotta italiana, dopo essersi data tutta alla
cobelligeranza e aver operato in favore della causa comune per tre anni e fino a tutt’oggi sotto
propria bandiera agli ordini del Comando Supremo del Mediterraneo, non può oggi, per ovvie
ragioni morali e giuridiche, venir trattata come bottino di guerra. Ciò non esclude che nello
spirito degli accordi Cunningham-De Courten, essa contribuisca entro giustificati limiti a
restituzioni o compensi.


Signori Ministri, Signori Delegati
Per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero
dell’Italia sulle condizioni della sua pace, ed oggi ancora comparendo qui nella veste di ex nemico,
veste che non fu mai quella del popolo italiano, innanzi a Voi, affaticati dal lungo
travaglio o anelanti alla conclusione, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare
la parola, onde sia palese che siamo lungi dal voler intralciare ma intendiamo costruttivamente
favorire la vostra opera, in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.
Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri apparentemente contrastanti.
Da una parte egli deve esprimere l’ansia, il dolore, l’angosciosa preoccupazione per le
conseguenze del trattato, dall’altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel
superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.
Tale fede nutro io pure e tale fede sono venuti qui a proclamare con me i miei due autorevoli
colleghi, l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione
democratica dell’altro dopoguerra, il secondo Presidente dell’Assemblea Costituente Repubblicana,
vittima ieri dell’esilio e delle prigioni e animatore oggi di democrazia e di giustizia
sociale: entrambi interpreti di quell’Assemblea a cui spetterà di decidere se il trattato che
uscirà dai vostri lavori sarà tale da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza
correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano.


Signori Delegati,
grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini
della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano
non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella
pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni paese, che nella guerra hanno
combattuto e sofferto per una meta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con
una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella meta ideale, fate uno
sforzo tenace e generoso per raggiungerla.
È in questo quadro di una pace generale stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e
credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua
opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.

Cindy Crawford nuovo volto di Acqua San Benedetto

È Cindy Crawford il volto scelto da Acqua San Benedetto per festeggiare i sessant’anni del brand. La splendida top model simbolo degli anni Novanta è la protagonista del nuovo spot girato a Roma da Gabrielle Muccino. La bellezza imperitura della Capitale si unisce allo charme della modella, ancora in forma smagliante a 50 anni (qui un pezzo su di lei). “San Benedetto, I Love You” è lo slogan scelto per la nuova campagna pubblicitaria: la tradizione italiana si fonde all’immagine di benessere e purezza che da sempre contraddistinguono l’azienda.

“La scelta di una testimonial d’eccezione come Cindy Crawford è strategica perché incarna perfettamente la filosofia di un’azienda sempre più leader nel panorama italiano, in grado di differenziarsi dai propri competitor e proporre nuovi prodotti unici e vincenti”: : queste le parole di Vincenzo Tundo, Direttore Marketing del Gruppo Acqua Minerale San Benedetto S.p.A. Uno spot suggestivo, che riporta un auge l’immagine della Dolce Vita grazie al fascino della Città Eterna e al volto della super modella americana, che incarna la filosofia di Acqua Minerale San Benedetto e il gusto unico ed equilibrato del Thè San Benedetto.

Acqua San Benedetto ha spento 60 candeline lo scorso 10 aprile; un traguardo importante per uno dei marchi storici della tradizione italiana. «Il 2016 è molto importante per noi», ha dichiarato Vincenzo Tundo, «e con la nuova campagna diamo un segnale di vitalità importante per un’azienda che vuole consolidare la sua immagine di leader di mercato. È stato un onore e una grande soddisfazione poter lavorare con tre mostri sacri del mondo della moda, del cinema e della fotografia internazionale» .

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Cindy Crawford è il nuovo volto di Acqua San Benedetto


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La top model nel nuovo spot girato da Gabriele Muccino


Dalla fine di maggio la nuova pubblicità imperversa sulle tv nazionali, mentre la campagna stampa vede gli scatti di una eccellenza della fotografia, quale Marco Glaviano.