Il brand Made in Italy European Culture – intervista al Ceo e designer David Peppicelli

Azienda di famiglia da tre generazioni, European Culture porta avanti le idee innovative e controtendenza che ne hanno fatto la firma.

Nati nel 1955, tra i primi in Italia a produrre jeans, European Culture rimane coerente e fedele allo slogan “Created for urban artist“, linee comfort dal gusto sportivo e di tendenza.

Presenti in maniera capillare sul territorio internazionale, European Culture presenzia alle fiere più importanti del mondo anche con eventi speciali, come l’evento videomapping nel centro di Firenze, durante la Fiera di Pitti Uomo, presso la boutique Gerard Loft.
David Peppicelli, Ceo e designer è oggi al timone dell’azienda.



Qual è il vostro punto di forza?

Il “tinto in capo” senza dubbio. European Culture propone 25 colori per ogni singolo capo, dal 1999 ad oggi questo è sempre stato l’iter dell’azienda. Difficile trovare un altro brand che proponga così tante colorazioni per ogni modello, ma in noi la “coerenza etica”, sottolineata anche dalla produzione totalmente made in Italy, rimane il punto di forza.


Quali tessuti privilegiate?

Soprattutto materiali sportivi. Ricordiamo che siamo stati tra i primi a creare le giacche in felpa negli anni 2000, quando ancora in Italia erano un capo forse troppo “alternativo”, questo tipo di prodotto è stato apprezzato prima all’estero e successivamente in Italia. Abbiamo sempre svolto una grande ricerca di materiali pregiati e sportivi insieme creando fitting comodi, sporty ma allo stesso tempo inserendo sempre più spesso dettagli femminili e alla moda.


LUDOVICA ROBAUDO
LUDOVICA ROBAUDO indossa EUROPEAN CULTURE


LUDOVICA RAGAZZO
LUDOVICA RAGAZZO indossa EUROPEAN CULTURE


Quali sono le novità della collezione Fall Winter 2019/20?

La creatività si mescola al design, l’idea si fonde con la capacità del nostro saper fare. Rimanendo nell’ottica del capo comodo e mettibile, abbiamo inserito pezzi ispirati al comfort ma con inserti ultra femminili, come il bomber dalla manica ampia e collo in velluto.

Dove trova ispirazione per disegnare le nuove collezioni?

Sono nato in quest’azienda, in famiglia si è sempre respirata aria di “moda”, dalla scelta dei tessuti, alla fase iniziale del disegno, alla fattibilità del progetto, tutto in me è talmente orecchiabile che basta seguire i consigli appresi fino ad ora e stare sempre attenti alla risposta del consumatore.

European Culture e le influencer

Oggi abbiamo la fortuna di comunicare con molti mezzi, tra cui i social network e non vedo perché non sfruttarli. Il rapporto tra il brand e le influencer si basa su una stima reciproca, ma soprattutto sull’onestà di indossare un capo che piace e che porteremmo di giorno al lavoro o la sera ad una cena con le amiche. European Culture è destinato a tutte quelle donne che amano vestire comodo ma che non rinunciano al gusto e all’estetica.

MARZIA PERAGINE
MARZIA PERAGINE indossa EUROPEAN CULTURE


MARTINA DEL REGNO
MARTINA DEL REGNO indossa EUROPEAN CULTURE


Quali sono i progetti futuri di European Culture?

Siamo lontani dalle tendenze che, per natura, oggi esplodono e domani sono costrette a scomparire. Il nostro simbolo è dal lontano ’55 un unicorno, strano animale leggendario che sta spopolando oggi. Ecco cosa significa “guardare al futuro”.

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https://www.european-culture.it


OPHELIE DUVILLARD
OPHELIE DUVILLARD indossa EUROPEAN CULTURE

Gavazzeni, l’importanza dell’accessorio

GAVAZZENI – COLLEZIONE PRIMAVERA ESTATE 2019

Un abito di ottima fattura, si riconosce dal bottone pregiato. E’ da questo prezioso dettaglio che inizia la storia di Sergio Gavazzeni, quando aiutava l’azienda del padre produttrice di bottone. Cresciuto in un ambiente dove la moda diviene argomento quotidiano, fonda nel ’79 il primo laboratorio di produzione accessori, sostenuto dall’esperienza della moglie, Katia Orlandini, che lavora per il prêt-à-porter di Max Mara.

Tutta la famiglia, i figli Elena e Pietro compresi, sostengono con passione ed abilità l’azienda nata, che produce sempre quell’elemento distintivo, il dettaglio, l’accessorio, il prodotto indispensabile, che da Gavazzeni viene reso unico ed originale.

Tutti in pelle e sacramente Made in Italy, i prodotti Gavazzeni cambiano a seconda delle tendenze e delle stagione; per la Primavera Estate 2019, i colori tenui dell’azzurro fiordaliso e del rosa cipria sono i padroni, proposti su maxi bag con manico o marsupi con cintura lavorata.

Colori che ricordano i paesaggi delle stampe giapponesi “ukiyo-e“, movimento artistico nato in Giappone e che ha il massimo sviluppo nella metà dell”800, stampe che raffigurano paesaggi in genere, ma anche soggetti teatrali e quartieri di piacere. Gavazzeni sceglie gli stessi rosa tenui delle opere di Hiroshige, la stessa tonalità di azzurro delle sue acque calme e limpide.


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borsa Gavazzeni, su opera di Hiroshige


Immagini del mondo fluttuante in cui natura e paesaggio permangono sereni, anche al variare degli elementi atmosferici. Una scelta sensibile quella della collezione Primavera Estate 2019, attratta dall’inconsueto colore e dal rimando esotico.

Tutta la gamma colori, anche nella produzione delle cinture, è un apprezzamento all’effimera bellezza, alla gioia e al festeggiamento della stagione in cui tutto rinasce, sotto l’energia potente del Sole.

Anche Van Gogh rimase affascinato dalla produzione di Hiroshige, scrisse infatti al fratello Theo:

Qui mi sento in Giappone; invidio ai giapponesi l’estrema nettezza che tutto ha di loro; compongono una figura con pochi tratti essenziali, con la stessa semplicità con cui uno si abbottona un gilet“.

borsa Gavazzeni, su opera di Hiroshige


E’ con lo stesso spirito di semplicità e devozione, che Gavazzeni continua il lavoro familiare.

Scopri qui tutta la collezione borse SS2019:



Scopri qui tutta la collezione cinture donna SS2019:



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Biuu collezione fall winter 2019/20

Piace sempre più il concetto di spazio, quasi si pensasse alla fuga della realtà come unica via di scampo. Una realtà inventata, un poco surreale dove ci catapulta Biuu per la collezione Fall Winter 2019/20.

Wu Hao, fondatore e creative director del brand, ipotizza un luogo futurista in cui uomini e donne (per la prima volta presenta in collezione 10 capi femminili) si incontrano lontani dalle fonti di luce solare; necessitano quindi di materiali che catturino quella lunare, il vinile, il lurex argenteo, le sete cangianti e i colori fluo giallo e arancio.

Quasi come dei piloti professionisti, vestono tute intere bicolor con zip o jumpsuit stampate in un 3D di un universo parallelo. Dotati di infinite tasche e comparti, l’uomo BIUU porta nello spazio una maxi shopper multicolor, sempre utile per raccogliere meteoriti o riportare sulla Terra qualche prezioso ricordo.

Le forme sono grafiche e i volumi generosi, i lampi di luce sono violacei e i collage dei materiali materici. La fantasia è protagonista così come i tessuti che, come nella direzione alla fotografia di un film, ci raccontano uno stato d’animo…

Sfoglia qui l’intera collezione Biuu Fall Winter 2019:



BIUU
Fondato a Parigi nel 2016 dal fondatore e creative director Wu Hao, BIUU è un luxury brand di menswear con sede a Shangai, attivo con due boutique monomarca nelle vie dello shopping più esclusive, principalmente rappresentate da Shangai. Dopo il debutto a Milano, il marchio punta a consolidare la sua presenza a livello internazionale nella regione dell’Asia-Pacifico e in Europa, grazie al branding e design headquarter con sede a Parigi e allo sviluppo di partnership a lungo-termine con l’Italia.

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Pare che l’inverno non voglia accettarlo il designer portoghese Miguel Vieira, che propone una collezione fall winter 2019/20 all’insegna del colore e della leggerezza!

Oltre ai tenui beige e ai greige, il designer propone capi in carta da zucchero, che fanno pensare più ad una giornata primaverile che a una notte fredda e tempestosa.

Simbolo di questa collezione, presente su giacche e pantaloni, pare essere un particolare tipo di crisantemo che, nel linguaggio dei fiori e in particolari parti del mondo, Italia lontanissima, è sinonimo di amore e prosperità. Che sia quindi di buon auspicio?!

L’uomo Miguel Vieira indossa in questo anomalo inverno, freschi canvas, bombazine, velluti stampati, velluti vinilici, tessuti trapuntati e borse in pelle e stampate pitone, delle maxi shopper che si confondono con la fauna africana. Insomma un uomo che predilige il caldo, il sole, i climi temperati, i luoghi selvaggi e i panorami vasti ed infiniti, quelli per cui l’orizzonte non arriva mai e i viaggi non hanno mai fine.

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Le origini dell’Arte di Paul Klee in mostra a Milano

I rapporti tra Arte contemporanea e le sue origini sono sempre stati oggetto delle mostre del MUDEC.

Dopo la mostra dedicata a Kandinskij e al suo repertorio folklorico russo, argomento della nuova esposizione di Via Tortona sono le origini della Pittura di un altro grande dell’Arte del ‘900, Paul Klee.

Composizione con occhi, 1916, Fondazione Marguerite Arp, Locarno
Composizione con occhi, 1916, Fondazione Marguerite Arp, Locarno


L'Occhio, Zentrum Paul Klee, Berna
L’Occhio, Zentrum Paul Klee, Berna


La grande mostra dedicata al pittore svizzero, curata da Michele Datini e Raffaella Resch, dal 31 ottobre 2018 al 3 marzo 2019, intende essere un percorso filologico all’interno della Pittura di Klee, una specie di parallelismo con l’esposizione di Palazzo Reale dedicata a Picasso e alle sue fonti antiche. Sì, perché di fonti si tratta, visto che la mostra intende farci scoprire le radici dell’Arte di Klee, anche attraverso la sua, meno nota, produzione figurativa e il suo rapporto con il Rinascimento tedesco e svizzero. Klee fu un grande conoscitore dell’Arte antica, tanto da recarsi in viaggio a Roma tra il 1901 e il 1902, dove ebbe modo di scoprire la grandiosità delle basiliche paleocristiane ma anche le grandi decorazioni rinascimentali. Klee guardò anche al modello dell’Arte dei popoli preistorici ed extraeuropei, ma il suo primitivismo non fu mai evasione dalla quotidianità, come lo visse Gauguin, per esempio, bensì riscoperta delle origini, tanto che Klee si interessò anche alle manifestazioni artistiche degli antichi Elvezi, i primi abitanti della sua amata Svizzera.

Con il serpente, 1924, Fondazione Musei Civici, Venezia
Con il serpente, 1924, Fondazione Musei Civici, Venezia


Roccia artificiale, 1927, Kunstmuseum, Thun
Roccia artificiale, 1927, Kunstmuseum, Thun


La mostra, promossa da Comune di Milano e 24Ore Cultura, intende essere un percorso “a rebours”, a ritroso, partendo dall’opera compiuta per risalire alle fonti dell’Arte di Paul Klee. Tracciare una biografia di Paul Klee sarebbe superfluo, perché distrarrebbe il visitatore dall’attenzione sulla traccia filologica dell’esposizione. In mostra il visitatore si sente come un pesce che risale il fiume del turbinio creativo di Klee partendo dalla foce, l’opera compiuta, fino alla sorgente, la fonte antica o primitiva. Nelle sale di Via Tortona sono ospitate un centinaio di opere, per lo più provenienti dal Zentrum Klee di Berna, la città vicino cui Paul nacque nel 1879, accanto ad altre di Arte antica e primitiva delle collezioni del Comune di Milano. Klee fu sempre ostile a qualsiasi scuola e a qualsiasi movimento. La critica lo ha sempre considerato un astrattista, visto anche il suo legame umano con Kandinskij, ma la sua Arte è sempre andata oltre, è sempre stata ricerca delle origini. I Surrealisti lo acclamarono a Parigi, i suoi studenti al Bauhaus lo considerarono un maestro, ma Klee non fu mai un capocorrente, bensì un genio creativo libero da qualsiasi vincolo. Le Origini, per lui, furono le testimonianze artistiche dell’Alto Medioevo e del Rinascimento, ma anche le Culture africane e precolombiane, ma tali fonti non vennero mai mescolate, evitando, quindi, di cadere nel rischio revivalistico ed eclettico, tanto in voga negli anni in cui Paul operò.

Con la lampada a gas, 1915, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma
Con la lampada a gas, 1915, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma


Senza titolo, 1939, Zentrum Paul Klee, Berna
Senza titolo, 1939, Zentrum Paul Klee, Berna


La mostra si presenta suddivisa in cinque sezioni tematiche, ognuna legata alle fonti cui traggono ispirazione. La prima è dedicata alla più originale e recondita della produzione di Klee, quella delle caricature che realizzò nei suoi anni giovanili e anche in quelli di permanenza a Monaco, dove conobbe Kandinskij, Macke e Marc, e a Weimar, con il Bauhaus. La sua radice è ancora simbolista, come evidente dai tratti grafici dedotti dall’Arte di Stück, ma con intento totalmente irrisorio. Lo stile è mediato dall’Arte rinascimentale tedesca e mitteleuropea: basti confrontare la Vergine e L’Eroe con l’ala, entrambi del 1903-4, con le incisioni di Dürer, come la Melancolia della Raccolta Bertarelli, per capire come la fonte privilegiata siano proprio gli artisti della Scuola di Norimberga, Altdorfer o l’alsaziano Schongauer. Le sue caricature, che lui chiamava Inventionen, sono esercizio stilistico, basato su forme grottesche ispirate allo Jugendstil viennese,  e pura ironia sul suo tempo, senza mai cadere nella mera cronaca o nella militanza ideologica, nonostante la sua ferma opposizione al nascente regime nazista che, giunto al potere, lo allontanò dall’insegnamento al Bauhaus, costringendolo al ritorno in Svizzera, dove sarebbe morto nel 1940.

Vergine sognante, 1903, Zentrum Paul Klee, Berna
Vergine sognante, 1903, Zentrum Paul Klee, Berna


La casa rossa, 1913, Museo Comunale d'Arte Moderna, Ascona
La casa rossa, 1913, Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona


La seconda sezione è dedicata prevalentemente agli anni a ridosso della Grande Guerra, quando Klee, al fronte con l’esercito tedesco, visti gli orrori bellici e perso l’amico Marc, decise di allontanarsi dall’illustrazione satirica per dedicarsi a un tipo di Arte eremitica e solitaria. Divenne, quindi, nella sua fase espressionista, “Illustratore cosmico”, con disegni e acquerelli pensosi, trasognati e spesso onirici, influenzati nella sfera tematica dalla Pittura di un altro grande svizzero come Heinrich Fuessli e frutto di una volontà di spiegare, in immagini già astratte, le leggi universali del Cosmo e dell’Universo. Per ottenere tali risultati, a Monaco, Klee si ispirò ad antichi Evangeliari miniati e ai mosaici bizantini: con formati piccolissimi, spesso lavorati con penne e matite, ottenne risultati che prefiguravano il misticismo del Blaue Reiter, come prova il Piccolo Mondo del 1924.

Costruzione di una foresta, 1919, Museo del Novecento, Milano
Costruzione di una foresta, 1919, Museo del Novecento, Milano


Sommo guardiano, 1940, Zentrum Paul Klee, Berna
Sommo guardiano, 1940, Zentrum Paul Klee, Berna


La terza sezione è imperniata sulla sua costante passione per gli alfabeti antichi, da quelli mesopotamici ai geroglifici egizi, alle grafie islamiche e alle rune celtiche. Klee si esercitò costantemente su queste testimonianze di scrittura in quanto segno, più che mai tangibile, delle Origini dell’Uomo. Furono più che altro i geroglifici egizi ad attrarlo, in quanto ideogrammi che contenevano, insieme, un seme di parola ma anche una raffigurazione oggettuale del suo significato, e ciò compare in varie sue opere, in cui pseudo-grafemi prendono vita, divenendo elemento umano, zoomorfo o fitomorfo. Più o meno lo stesso intento che animava l’Arte applicata agli inizi del ‘900 e che diede vita al fenomeno Art Nouveau, ma in direzione opposta, visto che Klee, anche grazie al contatto con l’amico Kandinskij e ai suoi scritti, si diede all’astratto, come provano alcune delle opere della sezione, come il bellissimo Angelo in divenire del 1934 o l’ironico Artico immobiliato del 1935, così come la tavola Turbato, del 1935, elabora uno stile personale, frutto dell’essenzialità creativa infantile unita alla grande passione per i geroglifici egizi, e anche il formato su tavola è frutto di un’elaborata analisi delle fonti antiche, dagli stessi egizi ai lavori dei maestri medievali attivi nelle chiese bavaresi e svizzere.

Paul Klee, Angelo in divenire, 1934, Zentrum Paul Klee, Berna
Paul Klee, Angelo in divenire, 1934, Zentrum Paul Klee, Berna


La quarta sezione mette in rapporto gli oggetti di Arte africana e precolombiana del MUDEC con il ritorno all’infanzia di Klee. La sua semplicità formale si abbinò a un notevole interesse per le silhouette ovali delle maschere africane, ma, soprattutto, a un rinnovato interesse, frutto anche di un lavoro psicanalitico, per l’infanzia e per i suoi segni creativi. Il frutto migliore di questa fase è il Teatro delle Marionette, capolavoro di Klee, realizzato tra il 1916 e il 1925 per realizzare un desiderio del figlio Felix: si tratta di una cinquantina di pupazzi, realizzati con i più disparati materiali che trovò nella sua abitazione, secondo la tradizione del teatro popolare del Nord Europa, in cui ritrasse, satiricamente, amici e colleghi o personaggi del suo tempo.

Kraftwetter, 1933, Zentrum Paul Klee, Berna
Kraftwetter, 1933, Zentrum Paul Klee, Berna


L’ultima sezione è dedicata al risultato finale della sua Arte, l’Astrazione, che, attraverso tutte le fonti esaminate, si manifesta in tutta la sua potenza, in quello che, per Klee, era uno stile di vita, un comportamento, frutto di un volersi allontanare dalla realtà seguendo un’esperienza metafisica e trascendente, ma non in senso religioso, in quanto il suo vero credo era l’Arte, la Pittura in particolare. Successivamente, negli anni del Bauhaus, Klee aderì a un tipo di Arte più formale, con geometrie semplici e dirette, più adatte a esigenze didattiche, come provano la bellissima Chiocciola, del 1924 o il Paesaggio urbano rosso-verde del 1923. In questo periodo, Klee arricchì le sue geometrie di colori sgargianti: fu lui stesso a cominciare a parlare di “policromie”, ispirate ad artisti svizzeri di nascita o di adozione, dell’800 o contemporanei, da Segantini a Hodler, da Itten a Giacometti. Sono nati in questo modo corpus di opere, degli anni ’30, in cui l’astrazione si accompagnò a un ricordo, quasi ossimoro, naturalistico, per poi volgersi a rappresentazioni più architettoniche, inserite in disegni geometrici semplici, ma che, come un ciclo che si chiude, ritornano alle origini della sua Pittura, alla verve ironica delle sue caricature e al misticismo cosmico della sua fase intorno alla Grande Guerra.

Paesaggio urbano rosso-verde, 1923, Zentrum Paul Klee
Paesaggio urbano rosso-verde, 1923, Zentrum Paul Klee


Paul Klee. Alle origini dell’Arte
MUDEC, Via Tortona 56, Milano
Orari: Lun 14.30 ‐19.30 | Mar, Mer, Ven, Dom 09.30 ‐ 19.30 | Gio, Sab 9.30‐22.30
Biglietti: Intero € 14,00 | Ridotto € 12,00
Info: www.ticket24ore.it | Tel. +39 0254917

“Marina Abramovic The cleaner”, la mostra a Palazzo Strozzi

Ha cambiato per sempre il concetto di performance, contribuendo a creare un forte legame tra artista e pubblico: Marina Abramovic è la protagonista della più grande retrospettiva italiana a lei dedicata presso Palazzo Strozzi di Firenze, “Marina Abramović. The Cleaner”.

La mostra ripercorre le tappe più importanti dell’esperienza dell’artista serba, riunendo oltre 100 opere dagli anni Settanta agli anni Duemila, tra cui fotografie, installazioni, oggetti, dipinti e mettendo in scena la riesecuzione di sue celebri performance da parte di un selezionassimo gruppo di performer istruiti appositamente per l’evento.

Attraverso questa esposizione, si ha la fortuna di camminare lungo il sentiero della sua vita artistica, dalle prime esecuzioni sottopagate nel periodo in cui la performance art non era ancora riconosciuta e anzi veniva giudicata con sufficienza e a tratti derisa, quasi fosse un ramo dell’arte inventato ed inutile, fino alle ultime apparizioni in “The artist is present” del 2010. Al MOMA di New York (Museum of Modern Art), Marina Abramovic starà seduta su una sedia al centro di una sala, immobile e in silenzio, senza poter mangiare, bere, fare pipì per più di settecento ore nell’arco di tre mesi, 8 ore tutti i giorni e 10 di venerdi. Siederanno di fronte a lei milleseicentosettantacinque persone, con cui manterrà il contatto visivo per tutto il tempo che vogliono, persone che rideranno o piangeranno o le daranno le spalle carichi di dubbi e domande; l’intento è quello di dare un valore alla comunicazione energetica e spirituale che si instaura tra artista e pubblico, elemento  fondamentale nella ricerca della Abramovic. Alla fine di questa esperienza l’artista si dichiarerà molto provata, di una stanchezza fisica e mentale mai sentita, cambiata nei gusti e nelle scelte della vita quotidiana.


"The Artist is Present" - Marina Abramovic MoMA - New York Photograph by MARCO ANELLI © 2010
“The Artist is Present” – Marina Abramovic
MoMA – New York
Photograph by MARCO ANELLI © 2010


Ad accoglierci nel cortile di Palazzo Strozzi, il furgone Citroën, ex cellulare della polizia, che sarà il mezzo d’unione tra Marina Abramovic e l’artista tedesco Ulay, alcova di una vita nomade passata viaggiando incessantemente per tre anni in Europa, tra una performance e l’altra. Vita e Arte si uniranno nel manifesto unitario “Art Vital“:

Nessuna dimora stabile
Movimento permanente
Contatto diretto
Relazione locale
Autoselezione
Superare i limiti
Correre i rischi
Energia mobile
Nessuna prova
Nessun finale prestabilito
Nessuna replica
Vulnerabilità estesa
Esposizione al caso
Reazioni primarie

1975, performance, Studio Morra Napoli
1975, performance, Studio Morra Napoli


Nel 1974 Marina Abramovic si trova in Italia, allo Studio Morra di Napoli con la sua performance più estrema, Rhythm 0.
L’artista mette a disposizione del pubblico, su un tavolo, settantadue oggetti utilizzabili a loro piacimento tra cui: un martello, una sega, una piuma, una mela, del pane, una forchetta, un’accetta, una rosa, un paio di forbici, degli aghi, una penna, del miele, un coltellino, uno specchio, del vino, degli spilli, un rossetto, un boa di struzzo, una torta, una frusta, delle catene, del cotone, una macchina Polaroid, un libro, una pistola e un proiettile. Per sei ore si assisterà a quella che chiamiamo la “nascita nel peccato“. L’uomo è un essere crudele, la Abramovic verrà ferita, umiliata, le taglieranno i vestiti, le verrà puntata una pistola alla gola, carica…e solo una piccola parte di pubblico la salverà, contribuendo alla realizzazione del suo lavoro:

In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti. […] Quello che era successo, molto semplicemente, era la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e il performer realizzano l’opera insieme.”


18.3b
La performer Marina Abramovic


Nello stesso anno, alla Galleria Diagramma di Milano, Marina presenta un’altra opera scioccante, Rhythm 4:

Ero nuda e sola in una grande stanza, accovacciata sopra un potente ventilatore industriale. Mentre una videocamera trasmetteva la mia immagine al pubblico nella stanza di fianco, spingevo la faccia contro il vortice che usciva dal ventilatore, cercando di inspirare nei polmoni più aria possibile. Nel giro di un paio di minuti, l’impetuoso flusso d’aria all’interno del mio corpo mi fece svenire. […] la cosa più importante era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima.


14.2
Marina Abramović Balkan Baroque 1997


Marina Abramović Balkan Baroque 1997


La consacrazione internazionale avviene nel ’97, con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia Marina Abramovic è chiamata a rappresentare ufficialmente la Serbia e il Montenegro alla Biennale, ma il progetto si interrompe bruscamente a causa del soggetto sensibile trattato dall’artista. Invitata da Germano Celant allestisce la ritualità sacrificale di Balkan Baroque in un sottoscala del Padiglione Centrale ai Giardini, scioccando pubblico e critica:

“ero seduta sul pavimento […], su una catasta di ossa di vacca: sotto ce n’erano cinquecento pulite, sopra duemila sanguinolente, con attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfregavo le ossa sanguinolente fino a farle diventare pulite, mentre su due schermi alle mie spalle venivano proiettate – a intermittenza e senza sonoro – immagini delle interviste a mio padre e a mia madre: Danica che ripiegava le mani sul cuore e poi si copriva gli occhi, Vojin che brandiva la sua pistola. In quel locale senza aria condizionata, nell’umida estate veneziana, leossa sanguinolente marcirono e si riempirono di vermi, ma io continuavo a strofinarle: il lezzo era tremendo, come quello di cadaveri sul campo di battaglia. I visitatori entravano in fila e osservavano, disgustati dalla puzza ma ipnotizzati dallo spettacolo. Mentre pulivo le ossa, piangevo e cantavo canzoni popolari jugoslave della mia infanzia. Su un terzo schermo passava un video in cui io, vestita da tipico scienziato slavo – occhiali, camice bianco, grosse scarpe di cuoio – raccontavo la storia del ratto-lupo […]. Per me quello era il barocco balcanico.”


9.1
Ulay/Marina Abramović Imponderabilia 1977



Per natura effimera, la Performance Art per essere conservata necessita di documentazioni d’archivio. Al fine di far rivivere le proprie opere, Marina Abramovic, dagli anni Duemila, usa la “reperformance”, un metodo di lavoro in cui si ripropone la stessa ma con performer diversi e pubblico diverso. “The cleaner” a Palazzo Strozzi, propone un calendario fitto ricco di sollecitazioni in cui poter partecipare all’opera, come per “Imponderabilia”, performance realizzata la prima volta nel 1977 presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, dove Marina Abramović e Ulay trascorsero novanta minuti in piedi uno di fronte all’altro, immobili e nudi in uno stretto passaggio d’ingresso, costringendo i visitatori che volevano entrare nel museo a passare in mezzo a loro. La performance doveva durare sei ore, ma fu interrotta dalla polizia. Per fortuna oggi a Palazzo Strozzi, nella prima sala del Piano Nobile, questo non succede, ma il visitatore può scegliere anche il passaggio laterale, evitando purtroppo il coinvolgimento emotivo e spirituale dell’opera stessa.

Marina-Abramovic-The-Lovers-The-Great-Wall-Walk-1
Marina Abramovic attraverso la lunga Muraglia cinese – The lovers”


 

Marina e Ulay vivono e lavorano in simbiosi, fino all’ultima loro performance insieme: “The Lovers” del 1988, 90 giorni di cammino per tutta la lunghezza della Grande Muraglia cinese, una partendo dal dal lato orientale della muraglia a Shan Hai Guan, e l’altro camminando dal lato occidentale, a Jai Yu Guan, per poi incontrarsi e firmare il loro “addio pubblico”.


Avevamo concepito l’idea romantica di percorrere a piedi la Grande Muraglia cinese otto anni prima, nell’outback australiano, sotto la luna piena. L’idea aveva preso prepotentemente forma nella nostra immaginazione condivisa. Allora pensavamo che la Muraglia fosse una struttura continua e ancora integra, e che non avremmo incontrato problemi; la sera ci saremmo accampati lì sopra. E dopo essere partiti dalle estremità (la testa a Oriente, la coda a Occidente) ed esserci incontrati a metà, ci saremmo sposati. Per anni, il titolo provvisorio di questa nostra opera era stato The Lovers. Adesso amanti non eravamo più. […]. Ma non per questo volevamo rinunciare alla nostra marcia. Invece di camminare da soli, ciascuno sarebbe stato accompagnato da un drappello di guardie e da una guida-interprete. […] Quanto alla Grande Muraglia, la colossale struttura a forma di drago visibile dallo spazio era in gran parte in rovina, soprattutto a Ovest, dove lunghi tratti erano scomparsi sotto le sabbie del deserto. Ma anche a Est, dove attraversava una serie di catene montuose, gli inverni e il passare del tempo avevano portato a termine la loro opera di distruzione: in molti punti, la Muraglia era solo un mucchio di sassi pericolanti. E la nostra motivazione iniziale non c’era più. Noi non c’eravamo più. […] Camminare una verso l’altro aveva un certo impatto… era quasi la storia epica di due amanti che si incontravano dopo tante sofferenze. Poi questo aspetto è scomparso. Mi sono confrontata solo con me e la nuda Muraglia. [..] Sono molto contenta che abbiamo comunque deciso di realizzare questo lavoro, perché avevamo bisogno di una qualche conclusione. E questa è rappresentata da tutta la strada che facciamo camminando l’una verso l’altro, e non per incontrarci gioiosamente, ma solo per pronunciare la parola “fine”. È una cosa molto umana, in un certo senso. Ed è molto più drammatica della semplice storia dei due amanti. […] Ero affascinata dal rapporto tra la Grande Muraglia e le ley lines, le linee di energie della terra. Al tempo stesso mi rendevo conto di come cambiava la mia energia a seconda dei diversi tipi di terreno. A volte camminavo su argilla, a volte su ferro, quarzo o rame. Volevo cogliere le connessioni tra l’energia umana e quella della terra. In ogni posto in cui mi fermavo, chiedevo sempre di incontrare le persone più anziane. Alcune avevano centocinque, centodieci anni. Quando chiedevo loro di parlarmi della Grande Muraglia, mi raccontavano sempre di draghi: un drago nero che lottava contro un drago verde. Mi resi conto che quei racconti epici si riferivano puntualmente alla conformazione del terreno: il drago nero era il ferro, il drago verde era il rame. [..] Alla fine ci incontrammo il 27 giugno 1988, tre mesi dopo avere iniziato, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi. Solo che il nostro incontro non fu quello che avevamo immaginato. Invece di vedere Ulay venirmi incontro dalla direzione opposta, lo trovai ad aspettarmi in un punto altamente scenografico, tra un tempio confuciano e uno taoista. Era lì da tre giorni. Si era raccolta una piccola folla ad assistere al nostro incontro. Io scoppiai a piangere, e lui mi abbracciò. Un abbraccio da compagno, non da amante, privo di qualunque calore”.


La mostra è visitabile fino al 20 gennaio 2019 e, oltre alle video-installazioni esposte, propone delle opere in cui il pubblico diviene protagonista, come l’attualissimo “COUNTING THE RICE” in cui a ciascun partecipante viene dato un foglio di carta e una matita. Davanti a sé trova mucchi di riso che deve prendere, contare e annotare. In questo modo Marina Abramovic ci da’ l’opportunità di riflettere sul tempo, sull’importanza dello spazio, sperimentandolo con un gesto semplice e con oggetti di uso quotidiano.

(in copertina Marina Abramović The Onion 1995, video, 20’03”. Amsterdam)

Eleventy rivela una vena nostalgica, ma sempre guardando al futuro – collezione FW 19/20

 

Collezione Autunno Inverno 2019/20 Eleventy


Edoardo VII, re del Regno Unito, di Gran Bretagna e Irlanda, re dei Dominion britannici e imperatore d’India, pare fosse stato il primo ad aver adottato l’orlo ai pantaloni. Siamo tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, Edoardo è figlio della regina Vittoria, che ha regnato per oltre 63 anni, il regno più duraturo dopo quello dell’attuale Elisabetta II; ha una passione per l’abbigliamento maschile e, pur contro i consigli del padre che lo incita alla discrezione, Edoardo VII sceglie le stoffe più pregiate presso la sartoria Henry Poole & Co., la più rinomata di Savile Row, strada di Londra sede dei sarti che hanno reso la sartoria maschile inglese la più apprezzata nel mondo.

Edoardo inoltre è un abile dongiovanni e si destreggia tra le numerose amicizie femminili, sempre di corsa, forse è per questo che l’orlo gli fa gioco, per non sporcare i calzoni tra un appuntamento fugace e l’altro!

Torna anche oggi nella moda maschile la tendenza dell’orlo di 4 cm, misura che non dovrebbe essere superata se non si raggiunge oltre il metro e ottanta di altezza.
Eleventy lo ripropone in chiave moderna sui pantaloni classici stile british -Galles Chevron Piedepoule, ma anche, azzardatissimo, sul denim con le pinces.

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Marco Baldassari, fondatore e direttore creativo del brand Eleventy, rimane coerente con le precedenti collezioni, mixando come un vero funambolo il saper fare bene, quindi il know how del made in Italy, l’eccellenza delle materie prime, e la portabilità del capo che, probabilmente, ricopre un ruolo fondamentale nella scelta etica Eleventy, una scelta dove la comodità corre a pari passo con la ricercatezza ed il gusto.


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La linea P L A T I N U M di Eleventy raccoglie  maglie e giacche di lane pregiatissime e sono completamente de-costruite e cucite a mano, risultando più leggere e meno rigide. I pullover garzati in lana-cashmere con il loro “magic touch” effetto nuvola, sono caldi e voluminosi, ottenuti tramite un’antica tecnica di aspatura e garzatura della lana, che estrae le fibra più bella e la porta in superficie all’esterno. Come i vecchi cappotti dei nostri nonni, le maglie vengono trattate ad effetto “casentino”, la velata vena nostalgica di Eleventy, che invece guarda sempre al futuro ed è sempre attento alle tendenze. Come per la scelte delle freschissime cuciture “a vivo”, tipiche della giovane cultura della moda, ma utilizzate su capi casual.

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E sempre sul filone dei rubacuori, le “divise” sportive che ricordano il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi, Babe Ruth, l’ex bambino mascalzone che marinava la scuola e masticava tabacco a 6 anni.


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Un guardaroba per ogni occasione, per l’uomo dallo spirito volitivo e fugace, che ama viaggiare e cambiare,  che non si lascia cogliere alla sprovvista, portando con sé pochi pezzi tutti mixabili tra loro, nel maxi borsone firmato Eleventy.

Sfoglia la collezione Eleventy Fall Winter 2019/20:



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DAKS FESTEGGIA I 125 ANNI DALLA SUA FONDAZIONE ALLA MILANO MODA UOMO

Daks festeggia i 125 anni dalla sua fondazione alla Milano Moda Uomo

DAKS COLLEZIONE AUTUNNO INVERNO 2019/20 – MILANO MODA UOMO 


Sempre fedelmente british, di un’eleganza nostalgica che viene dalla campagna, dagli uomini politicamente impegnati, ma ancora legati alla propria terra, DAKS celebra la sua collezione FW 2019/20  che compie oggi 125 anni.

Oltre un secolo di coerenza e classe, una collezione Autunno Inverno dal forte carattere inglese, dalla compostezza rigorosa e raffinata dei tessuti, una stagione fredda che si lega al grande romanzo dello scrittore britannico Kazuo Ishiguro, “Quel che resta del giorno” (The Remains of the Day, 1989), vincitore del Premio Booker, premio miglior romanzo scritto in lingua inglese.


sx scena dal film “Quel che resta del giorno”, dx collezione FW19/20 Daks


Siamo quindi in Gran Bretagna negli anni ’20 e ’30 , gli uomini passano dalla caccia alla volpe al bicchiere di whisky e chiacchiere di Stato; nelle loro stanze private indossano giacche da camera e fumano la pipa. Il cappello ha il pregio di valorizzare tutta la ricchezza degli abiti, che sono necessariamente sartoriali, i pomeriggi sono freddi e nebulosi, i colori che l’uomo indossa sono quelli della terra, il ruggine delle foglie quasi morte, il verde dei boschi, il grigio della bruma.


sx collezione FW19/20 Daks -dx scena dal film “Quel che resta del giorno”


DAKS, con la stessa compenetrazione del protagonista di “The remains of the day“, interpretato nel film di James Ivory dal grande Anthony Hopkins, propone per questa speciale collezione fibre nobili come il merinos, il cashmere e uno speciale mohair con particolare trattamento di garzatura volto a creare un effetto maggiormente soffice, caldo ed avvolgente.

Le stoffe utilizzate sia per l’uomo che per la donna DAKS, arrivano dai ricercati archivi dei fornitori inglesi, che rispecchiano il gusto e il carattere del tocco british DAKS.


al centro scena dal film “Quel che resta del giorno”, ai lati collezione FW19/20 Daks


Si torna indietro nel tempo indossando un gessato DAKS, ma si rimane eleganti nel presente, nel particolare tocco twenty, nelle strutture, nei tagli, resi moderni e di tendenza.

Must have della collezione Fall Winter 2019/20 Daks, l’Anniversario Check: uno speciale disegno ideato appositamente per celebrare questa importante ricorrenza e che ritroveremo sviluppato tanto nei capi spalla quanto nella maglieria.

Le maglie ricordano, nel disegno, l’intramontabile “argyle”, l’iconico tratto grafico della maglieria inglese. Le borse, pensate sia per l’uomo che per la donna, sono realizzate in pelle mat e nei tessuti dei capi di collezione.

Sfoglia qui la sfilata uomo/donna Daks della collezione autunno inverno 2019/20:



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Intervista a Fabrizia Milia: Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia, e d’amore per la fotografia

Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.


06


Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?


Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.


Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?


Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.


Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?


Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.


07


Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?


La malinconia. La trovo poetica.


Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?


Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.


Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?


In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.


01


Quale parola assocerebbe alle sue immagini?


Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.


Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?


Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.


Cosa preferirebbe non fotografare?


Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.


Come affronta i periodi di calo creativo?


Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.


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PITTI UOMO 95 – IN VIAGGIO CON GABS TRIP TRAVEL COLLECTION

GABS @ PITTI UOMO 95
IN VIAGGIO CON GABS TRIP TRAVEL COLLECTION


Trasformazione, leggerezza, personalizzazione: il mondo caleidoscopico di Gabs si espande ulteriormente conquistando il mondo della valigeria. La passione per il viaggio da sempre caratterizza il DNA del brand, che con la linea di borse Trip cattura emozioni e ricordi da diverse città nel mondo, si allarga oggi con la nuova Trip Travel Collection, una linea di trolley ultraleggeri che si possono customizzare in modi sempre diversi grazie a fantasiose cover. Proprio per soddisfare i globetrotter più esigenti Gabs ha inoltre sviluppato sei modelli di borse in sei stampe fantasia abbinabili al trolley: la Trip Travel Bag, che presenta due cerniere sul retro per essere agganciata comodamente al manico del trolley per viaggiare sempre con stile e comfort.

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Il concetto di continua trasformazione e gioco definisce anche questa serie di trolley che possono cambiare aspetto grazie alle estrose copertine intercambiabili le cui stampe sono abbinate alle stesse della borsa Trip Travel. La prima cover con la stampa “viaggio” viene regalata con l’acquisto del trolley per iniziare una collezione che spazia da motivi street art a pattern colorate, per rendere la tua valigia sempre diversa e per divertenti mix&match con la borsa.

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E se l’esterno può cambiare secondo il gusto e il mood del momento, anche l’interno è sorprendente grazie alla fodera azzurra con stampa “viaggio” personalizzata, cinghie elastiche e divisorio con tasca rete azzurra per organizzare al meglio abiti e accessori.


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In auto, treno o aereo le parole d’ordine per il trolley sono leggerezza e funzionalità per non rinunciare
a comfort ed estetica. Il trolley Gabs vanta, infatti, un primato di assoluta leggerezza (pesa 2,45 kg) e grazie a uno studiato mix di materiali (abs e policarbonato) permette di portare più carico, ottimizzando spazi con garanzia di robustezza e affidabilità. Una linea pensata per esprimere la tua personalità anche in viaggio.