“Se una mattina d’estate un bambino”, il libro di Roberto Cotroneo

Cosa rappresenta un libro? Alcuni ci vedono un tesoro, una risorsa, un vecchio saggio, altri della carta, farfugliamenti, tempo perso. Chi davvero entra dentro un libro ne percepisce il vero significato, sa che da quel piccolo rettangolo che si tiene tra le mani può coglierne ispirazione, pensieri, insegnamenti. Ce lo spiega con l’amore di un padre Roberto Cotroneo che in “Se una mattina d’estate un bambino” dedica una meravigliosa e lunghissima lettera a suo figlio sulla gioia della lettura. 



Essere genitori è il mestiere più difficile del mondo immagino, lo immagino perchè non sono un genitore (anche essere figli è difficile, ma meno), Cotroneo genitore sceglie di indottrinare il figlio al mondo della letteratura. C’è chi insegna alla prole l’arte dell’arrangiarsi, chi a tenere in mano martello e scalpello, chi ad accontentarsi, ci sono quelli che spingono i figli alla corsa all’oro, Cotroneo inizia invece il figlio a quel percorso difficile dell’insegnamento che è portare qualcuno in un punto, senza averlo indicato col dito. Lo racconta lui stesso nel libro ricordando il suo vecchio insegnante, ed è nella passione delle sue parole che instilla la curiosità. Pensiamoci: la maggior parte dei libri del nostro periodo scolastico, quelli obbligati, li abbiamo detestati. Solo quelli scelti li abbiamo amati. Ecco Cotroneo spinge il figlio a “scegliere”. E quel bambino di due anni a cui è dedicato questo libro sceglierà di leggerlo, e sarà lui a chiederlo. 



Ma a cosa servono i libri? Perchè sono così importanti? Lo scrittore, critico, genitore Cotroneo lo spiega con semplici parole: servono a cancellare i luoghi comuni, a elaborare giudizi e pensieri propri, servono a difendersi, a fuggire dalla mediocrità, a fare collegamenti tra le arti, servono a spiegare la complessità in modo semplice e ad apprezzare la grandezza nelle piccole cose. 

Attraverso l’approfondimento di alcuni libri, tra cui “Il giovane Holden”, “L’isola del tesoro”, alcuni poemetti di T.S. Eliot, lo scrittore spiega al figlio “le cose della vita”, il talento, l’essere e non l’avere, il genio, l’invidia, l’umiltà, lo aiuta a distinguere i buoni dai cattivi con la storia dei pirati, lo allerta del potere infimo e nascosto e lo mette in guardia, lo esorta a diffidare di quelli che pensano troppo ai soldi, e a non cedere alla tentazione dell’ammirazione. Si cresce sempre da soli Francesco”, ma i libri, aggiungo io, ti faranno compagnia. 

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Se una mattina d’estate un bambino” è un libro-manuale, di quelli da rileggere, di quelli da prendere in mano quando pensi “vorrei spiegare una certa cosa in modo semplice e chiaro come fa Cotroneo”, che l’ha detta benissimo, che la pensa come me; hai sottolineato frasi per ogni capitolo, hai fatto a margine i tuoi simboli perchè sai che ci tornerai, che non lo riporrai in libreria ma sarà sempre lì sul tavolo a portata di pensieri, di quei libri che ti fanno piangere perchè parlano di te, perchè ti capiscono. Quella lettera scritta al figlio Francesco è un atto d’amore verso tutti i suoi figli, noi lettori, noi che i libri li compriamo perchè senza libri, chi ce la spiega la vita? 

“Il sogno dell’alieno” il mockumentary che fa satira politica


Che cos’è la politica? Per definizione si intende “la scienza e la tecnica, come teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”. Quale percezione collettiva pare che la teoria sovrasti di gran lunga la pratica, cioè la prassi, e che la politica venga avvertita come un concetto impalpabile, come un’insieme di idee irrealizzabili, come un’utopia
A confermarlo è il mockumentary di Alberto D’Onofrio “Il sogno dell’alieno”, sceneggiato insieme a Carlo Fabrizio ed Alessandra Ugolini e prodotto da Zodiack Active; un documentario finzione che ha intento parodico e satirico, uno sbeffeggiamento al mestiere del politico, uno sfotto’ a cui tutti, parlamentari e media, hanno abboccato. 

Il regista Alberto D’Onofrio ha selezionato un team di artisti, quattro per l’esattezza, che hanno inscenato un fasullo partito politico manifestante per la durata di un anno intero; 365 giorni di proteste, manifestazioni, striscioni presentati in mutande, sì perchè il primo slogan è “Siamo giovani in mutande e cresceremo in mutande”, una frase pessimistica che contesta la mancanza di sostegno al lavoro per i giovani e le continue fughe di cervello all’estero. 


Quattro attori si sono immersi nella parte di giovani rivoluzionari con l’impegno comune di cambiare l’Italia, di farla diventare un paese libero e concreto, ragazzi che vorrebbero una politica di fatti e non di parole ma che, grazie a questo esperimento sociale, hanno di fatto dimostrato quanto invece la parola sia l’unico mezzo utilizzato nel grande show che è la politica stessa. 

Dai primi blocchi e infiniti controlli della Polizia e delle Forze dell’Ordine, il “gruppo di alieni” si fa strada nei comizi e sui giornali. Le immagini dei rivoluzionari in boxer e giacca nera fanno il giro del web; i giornalisti iniziano a intervistarli, la stampa ne pubblica il manifesto, addirittura le loro maschere maxi da alieni nuotano oltre il confine italiano e “Il sogno dell’alieno” diventa un’ eco, che sarà poi la base di un ipotetico partito politico. 

Andrea Amaducci è la voce grossa, è lui che parla in pubblico, un artista di strada ferrarese dai grandi occhi indagatori, uno di quelli a metà tra il folle e il bravo ragazzo; Matteo è un cuoco e un rapper italiano che scriverà delle proteste in rima; Paola è una performer milanese e Marta è una studentessa iscritta a Farmacia. Le loro facce saranno stampate su tutti i rotocalchi italiani, anche quando si presenteranno vestiti da mummie per ironizzare su un titolo francese che faceva riferimento al ritorno in campo di Berlusconi. Li vedremo colorati da capo a piedi a mo’ di bandiera italiana durante il Festival del Cinema di Venezia quando, i paparazzi in attesa di Ben Affleck, si ritroveranno questi folli mezzi nudi trasportati da una imbarcazione per le merci. 

D’altronde la politica è piena di performer, pensiamo a Beppe Grillo che è un ex comico, a Ilona Staller, alias Cicciolina, ex porno attrice, e la lista è lunga; pensiamo a dei concetti basici, banali, talvolta privi di significato e a frasi fatte, componiamo in questo modo il linguaggio della politica ed il gioco è fatto; con questi pochi ingredienti è sufficiente prendere tutti per il naso! Non è quello che vediamo e di cui siamo spettatori da secoli?! 

Ed ecco che dalle grandi piazze italiane ai comizi pubblici, i ragazzi alieni col sogno della politica raccolgono le firme degli esponenti di PD, Rivoluzione civile, Scelta Civica; sottoscrivono l’Agenda anche Daniela Santanchè, Matteo Salvini, Ignazio La Russa, Vittorio Sgarbi che corregge un punto dell’agenda trasformando un “L’Italia può diventare il primo paese per la produzione di cultura” in “L’Italia E’ il primo paese per la produzione di cultura”; uno Sgarbi coinvolto che scommette su questi smutandati dalla volontà di ferro e che ricorda un Renato Guttuso politicante e spera in un Picasso parlamentare. 

“Via la SIAE” dice Salvini; “Spazio ai giovani e più diritti per tutti” grida Alessandra Moretti del PD; “Più lavoro ai giovani” sottolinea Lara ComiFederico Bocci incita all’aumento delle nascite; “Più Nord Italia” sottoscrive la Santanchè; “Diffondiamo l’amor di patria” inneggia La Russa. Un elenco di ovvietà condito da una sottile ironia, fa notare Massimo Giannini, vicedirettore de La Repubblica, e una grande promozione di utopie riferisce Renato Mannheimer, sociologo italiano. In fondo sono artisti questi quattro di noi, e gli artisti non favoleggiano sulle nuvole inseguendo un goal? Ma quanti segnano e quanti invece rimangono in mutande?! 

Come fece Joaquin Phoenix nel mockumentary “Io sono qui” interpretando un rapper e abbandonando i panni dell’attore, gli alieni de “Il sogno dell’alieno – Storia di un grande bluff” si sono calati nella parte per un intero anno, il 2012, per poi rivedersi dal divano di casa nel febbraio 2013 su Sky Cinema

Il finale rimane aperto con una domanda: “E se Amaducci si fosse candidato?” 
A voi rispondere!

“Solo chi cade può risorgere”, il poliziesco di John Cromwell

Vi capita mai di tornare in un negozio ad acquistare solo perchè la commessa è particolarmente simpatica? Vi capita mai di evitare un centro estetico super attrezzato con macchinari di ultima generazione, ma di evitarlo perchè le addette sono scorbutiche e fredde? Ecco, per i film avviene la stessa cosa, li si guarda fino alla fine, anche se la trama traballa, perchè gli attori sono fenomenali; oppure, al contrario, i protagonisti mancano di personalità ma i costumi, la fotografia e le conversazioni sono così brillanti che non puoi fare a meno di vederli. Insomma in entrambi i casi un oggetto giustifica la visione e “Dead Reckoning” (in italiano tradotto in “Solo chi cade può risorgere”) è tra questi, perchè quando sullo schermo hai Lisabeth Scott è davvero difficile stancarsene.



La storia è quella che è, un noir come tanti, un reduce di guerra che tenta di far luce alla scomparsa di un ex commilitone, piccoli salti nei bassifondi, apparizioni di volti loschi e gente immanicata in giochi d’intrighi e misteri e bugie. Night club dalla sordida reputazione, bicchieri colmi di whisky avvelenati e Royal Gin Fizz accompagnati da sigarette fino all’ultimo respiro; John Cromwell deve tutto ai suoi due protagonisti, che hanno regalato infinite sfumature di colore a questo bianco e nero del ’47.

Humphrey Bogart interpreta Rip Murdock, capitano paracadutista ed ex detective che indaga sulla scomparsa dell’amico: il carisma, la presenza scenica, il fascino dell’uomo cui nulla scalfisce e nulla può turbare, accompagnato dalle brevi frasi a due “Il pericolo più grande è la tua bocca”, riescono a rendere intenso anche il più banale dei corteggiamenti. 


Ma la vera regina è lei, Lisabeth Scott, la bionda di ghiaccio dagli occhi cerbiatto, la figura ambigua e ammaliatrice, la pungente vedova che può trasformarsi in un docile capretto impaurito, è lei a riempire la scena, lei con i suoi languidi gesti, lei che ha personalità anche sulla punta delle dita mentre tese raccolgono una sigaretta dall’accessorio d’argento e lentamente la portano alla bocca; lei che recita come se respirasse, lei, la Coral Chandler che riesce a catturare ogni uomo col suo profumo di gelsomino


Cora è quel genere di donna che piace tanto ad Hitchcock, di quelle che fanno male ma che vengono giustificate per i traumi subìti, la donna sirena che riesce a rendere vera la più perfida delle bugie. Le braccia avvolte da lunghi guanti neri, i capelli arrotolati da morbide onde che le incorniciano il viso, le sopracciglia perfettamente disegnate che si increspano quando le spire si fanno più strette intorno alla vittima; Lisabeth Scott non poteva essere più perfetta per interpretare l’immorale fanciulla ferita. Basta lei per questi 100 minuti.