Il viaggio nell’anima di Giovanni Gastel

Il viaggio nell’anima di Giovanni Gastel

Quando lo definiscono ‘dandy’ lui arriccia il naso. Ma vedendolo parlare, muoversi, e ammirando il suo look sempre impeccabile e soigné da perfetto gentleman noncurante che lo contraddistingue, allora si capisce che quell’appellativo gli calza a pennello. Non a caso di ‘dandismo’ parlava per descriverlo il grande critico d’Arte Germano Celant, suo grande amico e mentore. Giovanni Gastel è un fotografo di moda e ritrattista che non ha certo bisogno di presentazioni. In questi giorni a Roma si apre al Museo Nazionale delle arti del XXI secolo presso il Maxxi di via Guido Reni ‘The people I like’, una grande mostra aperta fino al 22 novembre. Curata da Uberto Frigerio in un suggestivo allestimento in bianco e nero di Piero Lissoni, l’esposizione racchiude in una selezione di 200 immagini, alcuni dei suoi ritratti più intensi, quasi tutti rigorosamente in bianco e nero.

Classe 1955, sensibile, colto, elegante, carismatico, cittadino del mondo, Gastel, nipote di Luchino Visconti, ha segnato con le sue immagini di moda ma anche con i suoi folgoranti ritratti e i reportage, la storia della fotografia negli ultimi 30 anni. Poeta mancato, inizia a fare il fotografo negli anni Settanta diventando presto uno dei fotografi di punta di Vogue e dei periodici ‘Donna’ e ‘Mondo Uomo’ editi da Flavio Lucchini. Nel 1984, nel suo romanzo ‘Sotto il vestito niente’ che pubblica con lo pseudonimo di Marco Parma, Paolo Pietroni, guru dell’editoria di moda, lo trasforma in un personaggio della trama destinata a diventare poi un film scandalo vagamente ispirato al delitto Terry Broome. Dagli anni’90, dopo una grande retrospettiva alla Triennale di Milano curata da Germano Celant, Gastel viene affiancato ai grandi maghi dell’obbiettivo della moda: Avedon, Newton, Leibovitz, Testino e Teller, entrando così nell’Olimpo. Nella sua carriera artistica Gastel alterna il banco ottico, usato da Newton e Barbieri, al digitale evitando però quella che lui definisce ‘la bulimia da photoshop’.

La mostra, allestita come un ‘labirinto manicheo’ come lo descrive Piero Lissoni non senza una vena ironica, presenta una crestomazia di personaggi, i più noti, i più osannati, i più popolari e controversi del nostro tempo colti nell’atto di mettersi a nudo con la loro anima davanti all’obbiettivo del maestro, in una luce che, citando Gastel, “emana dall’interiorità”. C’è il raggiante sorriso di Obama che sembra essere il coronamento di tante battaglie civili culminanti nel movimento odierno ‘Black lives matter’. C’è il ghigno beffardo di Mimmo Iodice e il volto pensoso di Ferdinando Scianna che detesta farsi fotografare e ha sempre la testa fra le nuvole. Il bellissimo Roberto Bolle viene raffigurato come un amletico pensatore nel suo regno, alla Scala, mentre Stefano Accorsi cavalca dei cavallini di legno colorato. E poi Marco Pannella, Ettore Sottstass, Luciana Litizzetto, Lapo Elkann, Antonello Venditti, Miriam Leone, Marisa Berenson, Carla e Franca Sozzani, Tiziano Ferro e la performer Bebe Vio che con le sue protesi metalliche appare quasi una super eroina in stile ‘Metropolis’ o una cyborg che prefigura il corpo postumano. Uno spazio particolare nella mostra è dedicato a una galleria degli 80 ritratti in dolcevita nero, vagamente ispirati alla serie dei ritratti col black turtlenck realizzati fra gli anni’60 e la metà dei seventies dal grande Victor Skrebneski, mentore di Cindy Crawford. Gastel è un cultore dello scatto spontaneo e originale, ama improvvisare sul set e non si accontenta mai del primo scatto perché di solito non è mai quello migliore. “Il ritratto è un atto di seduzione; io cerco la bellezza ovunque, anche nei soggetti più improbabili” dice Gastel al vernissage dell’esposizione davanti a una compiaciuta e radiosa Giovanna Melandri, la charmante direttrice del Maxxi e madrina di questa suggestiva mostra. D-Art ha incontrato il grande fotografo per una conversazione esclusiva. 

Signor Gastel, la fotografia da sempre snobba la moda definendola un’attività mercenaria, sulle orme di Jean Loup Sieff che alla fine degli anni’60 sentenziò: “La fotografia di moda non esiste”. Lei che ne pensa?

Tutta l’arte è sempre stata finanziata dai mecenati, fin dal Rinascimento. La moda ha finanziato la mia ricerca artistica e io le sono molto grato. Molti dimenticano che il soggetto della fotografia di moda è il vestito, non la persona, e questo può sminuire chi sopravvaluta il soggetto fotografato rispetto all’abito. Ma questa distonia è ormai superata.

Lei ha fotografato gli abiti di tutti i più grandi stilisti italiani. Qual è il couturier che le è rimasto nel cuore e che l’ha influenzato di più?

Gianni Versace. Lo adoravo. Quando ero alle prime armi sui suoi set lui mi dava carta bianca, io gli chiedevo cosa desiderasse e lui mi diceva che voleva che lo stupissi e che mi divertissi. La più bella art direction che potessi desiderare. Mi manca molto il suo coraggio e la sua voglia di sperimentare e di cambiare, oggi quasi del tutto assente nella moda.

Qual è fra i grandi maestri della storia della Fashion Photography quello che l’ha segnata maggiormente?

Irving Penn. Io sono un fotografo ‘classico’ e come lui ho sempre perseguito l’idea di una bellezza neoclassica, assoluta. Come Penn ho spaziato dal paesaggio allo still life, dai ritratti alla moda, fino al beauty. Amo molto anche Avedon ma sicuramente nella mia ricerca Penn ha lasciato una traccia più profonda anche perché è il più completo.

C’è un personaggio celebre che prima di una sessione di ritratto l’ha pregata di trattarlo con clemenza, come fece Kissinger con Richard Avedon?

Ricordo un episodio divertente durante gli scatti che ritraevano Michele De Lucchi. Mi chiese di non eliminare le rughe il che è davvero divertente e inusuale perché spesso tutti i soggetti ti chiedono di alleggerirle.

Cosa ricorda di suo zio Luchino Visconti?

Quando morì avevo 22 anni, incoraggiava molto la mia attività e mi portava spesso con lui sul set. Lui anteponeva l’arte e l’opera a tutto, vendeva le sue case per finanziare i suoi film, era un vero artista, lui sì dandy puro e allergico alle questioni finanziarie. Spero di aver ereditato da lui il mio senso estetico.

Giovanni Gastel

Romeo Gigli collezione SS 2021

La SS_2021 Romeo Gigli nasce da una sensibilità autentica, dalla necessità di presentare una proposta diversa dalla collezione tradizionale per formulare un auspicio concreto verso il cambiamento positivo, iniziando dal ritorno alla grande artigianalità italiana e dall’etica della durevolezza.

15 abiti esclusivi, su misura, che sono opera del Made in Italy più pregiato – i capi sono realizzati da laboratori sartoriali d’eccellenza del territorio milanese con sete pure provenienti da Como – e sono pensati senza stagionalità, bensì come un guardaroba prezioso e senza tempo.

FLEURS EN SOIE

“Il fiore è un dono: è un messaggio di speranza, gioia e bellezza, in un momento di buio e sofferenza. La donna che indossa questi abiti indossa un fiore: veste un dono di bellezza per la vita”

L’anima della collezione pone le radici nel momento storico attuale e sboccia in un progetto speciale con al cuore un’alchimia di concretezza e poesia:

Alessandro De Benedetti crea ogni abito con l’intento di adornare le donne in un inno alla femminilità, di attingere ai colori intensi suggeriti dallecorolle per dipingere un messaggio di positività e di formulare con l’eccellenza della confezione a mano l’invito importante a riscoprire il valore dell’alta artigianalità. Per realizzarlo, s’immerge nella fascinazione dei fiori che abitano come spontaneo riferimento iconografico la sua immaginazione, e gli dà forma raccogliendo l’indimenticabile eredità estetica di Romeo Gigli: accoglie la sua predilezione per le prime epoche di stile del Novecento e la evolve spostandola negli anni ’40, dove riscopre nella couture sperimentale di Charles James il buon gusto della sartorialità costruita per costruire, oggi, una nuova eleganza.

Quasi fosse una magia, ogni abito racchiude dai sei ai quindici metri di seta per tramutarla in sculture contemporanee di leggerezza asciutta e perfetta, capolavori d’alta moda che trovano forma concreta nell’amore di Alessandro De Benedetti per la meraviglia che la façon del taglio in sbieco sa regalare: quando il tessuto prende vita sul manichino, ondeggia con raffinatezza sinuosa sul corpo e plasma la stoffa per disegnarci drappeggi e spiragli dalla delicatezza sensuale.

Come un coup-de-théâtre, ogni silhouette è un’opera di armonia tra sofisticatezza e seduzione, dove l’apparenza così composta da sembrare austera riserva tocchi diffusi di maestria stilistica che svelano con elegante sorpresa erotica la pelle nuda.

Abiti gioiello tutti diversi, scanditi dalla suggestione dei colori dei fiori e animati dall’ispirazione che dalle corolle immaginate abbraccia anche la cinematografia.
Ogni abito è personalizzato da un nome e dischiude una storia unica, narrata attraverso un altro amore forte che allaccia De Benedetti allo stile di Romeo Gigli: l’arte sublime dei nodi. Esempio perfetto è Dalia Nera, dove la suggestione del fiore e della protagonista del celebre romanzo lo battezza col nome, mentre il raso lavato rouge noir, tinta che omaggia il colore tanto caro a Romeo Gigli, insieme allo chiffon nero è la materia con cui sono scolpiti drappeggi e plissé: qui, quello che sembra un intreccio sono invece pieghe circolari che si baciano nel centro e proseguono l’abbraccio in un nodo per formare il corpino.

L’opera di intrecci intriganti accade in ogni abito: i nodi diventano macro per far crescere magnifici petali rosa sulla schiena di quella che potrebbe essere la veste di una pittrice; nell’abito Primula aprono fessure sul corpo fino a divenire spille di nudo, dove il vero gioiello è il lavoro a traforo con l’uncinetto sulla seta per creare gocce di pelle; in Sabine s’avvinghiano in un grande torchon, stretti in una corda sensuale che sul retro apre uno spacco che è un vero colpo di scena; il Gardenia Nero custodisce un bouquet di piccoli nodi che suggella la sorpresa sul fondo della schiena rivelata, e orchestra una sinfonia tra sfumature lavanda e bordeaux che prosegue nelle pieghe della gonna, tagliate in modo da creare l’illusione di spighe di lavanda che spuntano dai nodi e ondeggiano al movimento.

Lo stupore creato dallo sbieco magistrale fa il resto: da un macro-triangolo nasce la manica a kimono che a sua volta con un’arricciatura da vita al colletto asimmetrico; dalla seta habutai leggerissima si gonfia morbida la manica a palloncino; col supporto dell’organza interna nasce la manica fatta da canne in raso; ma anche due sole pince possono strutturare una manica asciutta e importante; o può persino accadere che le maniche diventino un grande fiocco astratto fatto di pieghe montate a creare un kimono dedicato al personaggio di Valentina. Quelli che sembrano vezzi di creatività sono invece intuizioni per una maggiore fruibilità: gli abiti hanno pinces elastiche a nido d’ape per offrire una maggiore vestibilità, mentre i guanti, le gorgiere e i braccialetti in chiffon plissettato hanno piccoli bottoni che consentono di staccarli in libertà.

Lo chiffon è materia di leggerezza con cui vestire altre figure affascinanti care all’immaginario cinematografico di De Benedetti: l’abito La Donna Che Visse Due Volte ha la delicatezza algida delle donne di Hitchcock e la perfezione del micro-plissé, Jean Rollin s’ispira alla raffinatezza delle donne vampiro dell’omonimo regista, La Sposa In Nero è la visione di una donna avvolta dal fumo misterioso, lo stesso del colore dello chiffon che la veste.

MFW: HUI PRESENTA LA COLLEZIONE SS 2021 CON UN FASHION FILM

MFW: HUI PRESENTA LA SUA COLLEZIONE SS 2021 
CON UN FASHION FILM TRASMESSO IN DIRETTA 
SUL PORTALE DI CNMI

Un elegante crush tra oriente e occidente nel cuore di Milano diventa
il racconto per immagini dello stile del brand  

L’Oriente incontra l’Occidente in una contaminazione feconda, vitale e, soprattutto, ricca di stile immaginifico che diventa l’essenza del fashion film con il quale HUI presenterà la sua collezione Primavera Estate 2021 in occasione della Settimana della Moda di Milano.

Un evento esclusivo che è stato trasmesso sul portale della Camera Nazionale della Moda milanofashionweek.cameramoda.it  in un racconto per immagini avvolgente e inteso.

5 donne di etnie diverse riprese nella cornice suggestiva di Palazzina Appiani, storica dimora napoleonica dalla bellezza neoclassica nel cuore di Milano, un meraviglioso salotto impreziosito da opere d’arte e da un gusto architettonico improntato alla grandeur francese, circondato dal verde del parco Sempione. 

In un’alternanza emozionale di scene vissute tra l’interno e l’esterno della fastosa costruzione, le donne indossano i modelli della proposta estiva del brand capaci di esaltare il mix inedito da cui prendono vita. Tagli e silhouette precise ed essenziali, giochi di trasparenze, lunghezze definite che enfatizzano il carattere occidentale si piegano ad accogliere le fascinazioni dell’universo orientale racchiuse nel tripudio di ricami, di decori e di stampe, in un incrocio di dettagli ricercati e di inserti sartoriali. 

Su tutto domina il carattere cosmopolita di Milano, con l’eccellenza della sua storia e il rispetto della natura, entrambe portate in primo piano dai movimenti delle modelle riprese da una precisa regia che indugia nelle sale della Palazzina Appiani e nelle aree verdeggianti che la circondano. Un tributo a una città alla quale la stilista del brand è molto legata e alla quale regala una patina cinese inserendo nel film oggetti e tradizioni della sua terra (dalle lanterne ai tappeti rossi, dai giochi di aquiloni all’inconfondibile sagoma dei dragoni) in un crush cinematografico (e di stile) unico.

SS21 COLLECTION

Oriente e occidente si incontrano e si fondono in maniera immaginifica nella collezione di HUI per la primavera estate 2021 che tende all’infinito dello stile, in una sinergia di ispirazioni che nascono dai due poli opposti del mondo e si concretizzano in una signature unica. 

È l’antica tradizione cinese delle lanterne a muovere le fascinazioni stilistiche di un brand che non prescinde dalle sue origini ma che le unisce agli strali del pensiero europeo dando vita a un crush- di modelli, di texture, di decozioni – ricco e contemporaneo.
In primo piano è il carattere artisticamente opulento della collezione che traduce l’ars decorativa dei ricami e delle stampe dal sapore orientale in outfit capaci di rappresentare una femminilità attuale, decisa, intensa.

L’estetica di HUI è sempre raffinata ed elegante, sintesi perfetta di due culture che si attraggono e che si parlano, e viene enfatizzata da dettagli ricercati, come le allacciature evidenti, le bordature a contrasto, gli inserti sartoriali. Senza dimenticare l’essenzialità delle forme e delle silhouette, canovaccio perfetto per permettere alla mano sofisticata e antica di ricami e stampe di esplodere liberamente. 
Una collezione illuminata da una palette di colori decisi che, dal rosso Cina, arriva al peonia, passando per l’energia dell’arancio abbinato al blu navy e all’azzurro polveroso, senza dimenticare il bianco gesso, in una scala di cromatismi che ne enfatizzano il carattere romantico e poetico.

Colori: rosso Cina, bianco gesso, peonia, arancio, blu navy, azzurro polvere
Linea: a vestaglia, a tubo 
Lunghezze: midi, maxi 
Tessuti: cady, duchesse, chiffon, jacquard, tulle

Tisci per Burberry plasma la forma dell’acqua

Tisci per Burberry plasma la forma dell’acqua

Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito. E non c’è nulla che meglio dell’acqua esemplifichi questo perenne divenire, questo fluido e tumultuoso processo di rigenerazione costante che determina la mutevolezza transeunte dell’universo. Nella apoteosi della bellezza empirica della natura Riccardo Tisci, talentuoso direttore creativo di Burberry, vede rappresentata l’epifania dell’armonia terrena e il simbolo più vibrante della libertà che finalmente abbiamo riconquistato. Navighiamo a vista in un mare che solo temporaneamente è piatto ma l’estetica organica e seducente di Tisci per Burberry è un porto sicuro. Classe e creatività si combinano con nonchalance in una collezione, quella coed per la primavera-estate 2021, che è un inno alla rinascita della natura e dell’uomo che sappia convivere con essa per un futuro più responsabile e vivibile. Dalle acque sorge una sirena che ondeggia fra i flutti giocando con gli squali come in una onirica favola che getta un ponte fra sabbia e acqua, fra la Gran Bretagna urbana e quella rurale nel segno di una mitologia contemporanea. Nella nuova Atlantide riletta da Tisci, che lo stilista pugliese ha voluto echeggiare con la complicità dell’artista Anne Imhof, un’artista sinonimo delle sue rivoluzionarie performance di resistenza e installazioni, si materializza una collisione tra moda e arte. Come le onde che si infrangono, incontrollate sulla riva, la performance, musicata da Eliza Douglas, presenta un flusso e riflusso di corpi, modelli e artisti come se fossero un’unica cosa – una marea crescente e decrescente di figure che si muovono attraverso lo spazio creato all’interno del fiorente paesaggio inglese. Celebra una simbiosi di natura selvaggia, incontaminata e struttura umana materializzando un immaginario di ninfe e tritoni, le prime accarezzate da pizzi candidi, tulle impalpabili e lievi chiffon, e da bluse stampate nei toni dell’indaco, i secondi vestiti di arancio e di bluette, fra giacche zippate e t-shirt over dalle stampe allegoriche, con capi che rivangano l’iconografia nautica. Nel womenswear prevale una giustapposizione di romanticismo e funzionalità, nel segno di una sofisticata naturalezza che si traduce in abiti arricciati body conscious, in lievi trasparenze che simulano le reti da pesca, in soprabiti tagliati quasi a evocare gli oblò delle navi ai quali si rifà anche con i suoi manici, la nuova borsa must have pocket bag. La sera segna il trionfo di iridescenti texture di cristalli che riproducono le superfici increspate del mare al chiaro di luna in una mistica malia d’estate. La collezione, come al solito riuscita e immaginifica, è un dialogo fra mondi diversi in cui l’acqua campeggia con la sua ancestrale energia espressiva come fattore centrale nello Heritage di Burberry. Il fondatore Thomas Burberry brevettò infatti per i suoi iconici trench il gabardine, un tessuto impermeabile progettato per respingere l’acqua e per proteggere il corpo. Oggi il trench, fulcro del progetto artistico di Tisci chez Burberry, si arricchisce di pannelli in denim, di tagli inediti come cut-out e code di denim a contrasto oppure perde le maniche, quasi sempre abbinato a stivali da pesca gommati. 

A talk with Verena Redin, Scenografa scaligera

A talk with Verena Redin, Scenografa scaligera

Scenografa realizzatrice della Scala, Verena Redin studia all’Accademia di Belle Arti scenografia. Sceglie questo ramo di studi per la passione del teatro. C’è stata una folgorazione durante la sua vita, dopo aver visto i lavori del pantomimo Lindsay Kemp (che insegnò questa arte nientemeno che al Duca Bianco David Bowie). Nelle su e rappresentazioni coglieva il coinvolgimento dei sensi, l’empatia con il suo percussionista e l’uso delle luci. Ha conosciuto molto da vicino i più grandi scenografi del mondo.

 In cosa consiste il suo lavoro? E quale è la differenza tra scenografo bozzettista e realizzatore? Lo scenografo bozzettista lavora in team con il regista cui viene commissionato un’opera o un balletto. Si occupa della creazione di moodboard e di disegni della scenografia: è un progettista. Quello realizzatore, come suggerisce il termine, invece traduce queste immagini nella scenografia tangibile.

Come prende vita un’opera scaligera?

 Dalle prime riunioni con gli altri capo-reparto della Scala prende vita l’opera. Nello specifico del mio lavoro, quello di scenografa realizzatrice, io e il mio team  analizziamo  le piante, le scenografie, e così elaboriamo  i campioni dagli storyboard. Il regista racconta la sua idea e ogni scenografo, con la sua unicità e sensibilità – dichiara Verena a D-Art – trasmettendo così un messaggio unico.  Si creano le ambientazioni, che possono essere astratte o fedeli all’epoca storica. Da queste suggestioni che si creano attraverso soprattutto la ricerca di materiali credo di saper esprimere al meglio la creatività dello scenografo bozzettista.

Come prosegue poi la fase creativa dello scenografo bozzettista?

Dopo questo primo meeting porto  i campioni al secondo incontro con il team. Ogni volta si creano dei prototipi ex novo, utilizzando materiali sempre nuovi. Gli elementi strutturali come il ferro, il legno e la parte meccanica sono adattati alle esigenze della scena. La parte più difficile del lavoro è saper interpretare il gusto pittorico e riproporlo in dimensione del palco. Ossia tradurre graficamente le sensazioni, interpretare le tavole tecniche, il gusto pittorico.

Cosa le entusiasma di più del suo lavoro?

La fase di ricerca in cui si toccano con mano i materiali è quella che mi  entusiasma di più. Prima però si traduce in tavole tecniche con dimensioni reali il gusto del bozzettista.

Ciò che amo del lavorare in Scala è il lavoro dinamico. Lavorare sui prototipi è la parte che mi stimola di più. Il lavoro sui colori, sulla tela è dinamico: il lavoro in gruppo e il dialogo che ne scaturisce. Gli incontri che si fanno con professionisti da tutto il mondo è un altro aspetto che mi affascina assai.

Consegnare lo spettacolo “sezionato” arrivando alle prime prove vedendo l’integrazione della scena con le luci, gli attori diretti dal regista compongono questa “scatola magica” che è la rappresentazione dello spettacolo dal vivo. 

Verena è ancora quell’adolescente che rimase folgorata da Lindsay Kemp. La scintilla che la appassiona da anni è sempre vivissima.

A talk with Patrizia D’Anzuoni, costumista scaligera.

A talk with Patrizia D’Anzuoni, costumista scaligera.

Patrizia D’Anzuoni è una costumista che ha collaborato con i più grandi costume designer e registi mondiali. Da sempre molto determinata (Re Giorgio la scartò dall’inserirla all’interno dei suoi negozi come commessa in quanto le disse che avrebbe frenato il suo sogno di realizzare abiti per il teatro), grazie a una grande preparazione culturale e alla sua risolutezza lavora da 30 anni in uno dei più importanti teatri del mondo: la Scala di Milano. Abbiamo avuto l’onore di conversare con lei su come sia evoluto il mestiere di costume designer nel tempo e anche di riflettere sulla moda contemporanea e sui giovani secondo il suo assai influente punto di vista.

Come sono cambiate le esigenze oggi? il costumista come si rivolge oggi nel 2020 nel proporre un bozzetto e soprattutto un figurino per il balletto e l’opera?

 Tutto questo dipende dalle esigenze della regia. Dall’idea che uno ha e che poi sviluppa con scenografo e costumista. Queste componenti portano al prodotto finale dell’idea.  Se torniamo un po’ indietro nel tempo le tipologie e lo sviluppo del costume sono cambiati. Prima c’era una ricerca storica, un elaborato. Si cercava minuziosamente fino i piccoli particolari al fine di rappresentare il periodo storico, il tema  dell’opera che occorreva rappresentare. Oggi non è proprio così. Si fa molto riferimento nel costume design al periodo storico attuale. La moda condiziona l’idea e soprattutto il progetto. Perché? La moda rappresenta il tempo stesso di oggi e si proietta sull’opera, sul filmato, sullo stato sociale di quel momento e del periodo rappresentato. Alcuni costumisti nel corso del tempo arrivano con piccoli schizzi, altri invece portano anche riviste come Vogue, Marie Claire, Glamour. Da lì iniziano a dirti cosa vorrebbero. Poi magari vengono fatte delle modifiche. Il costume di una modella non sempre può essere indossato da un’artista del coro o una solista. Alla base ci deve comunque essere una manualità, un costume dove si può muovere il ballerino. Dipende anche dal tipo di balletto, ma in assoluto il ballerino è movimento. Dipende dalla rappresentazione. Se è un’opera moderna si può anche acquistare presso retailer del mass market oppure se necessita anche acquistare capi e stoffe da cui confezionare l’abito. Questo cambia dalla tipologia di opera e dall’idea del regista. Il regista è fondamentale. 

“Anche i ragazzi di oggi che escono e hanno studiato scenografia e scuola del costume quello che devono fare è  avere l’idea, qualcosa che esca fuori dagli schemi. All’interno di una società come la nostra che è in crisi per una serie di motivi, non occorre abbattersi. Occorre avere una visione, occorre saper cercare la strada giusta. Affiancarsi a persone più esperte di noi significa crearsi un bagaglio. Lavorare come assistente. Nella sartoria. Nell’elaborazione, ossia le tinture.”

“Il costume è cambiato – dichiara Patrizia D’Anzuoni – è al passo con il tempo. Siamo in continua evoluzione, stiamo cambiando. La moda influenza molto il teatro. Rappresenta il quotidiano: alcuni costumisti che sono anche i registi che lavorano sui film, in particolar modo quelli che noi vediamo nelle sale cinematografiche, sono molto attenti a ciò che indossiamo ogni giorno. Il regista Martone ad esempio si rifà al giorno d’oggi e esige che il costumista adotti questa visione. L’opera similmente è maggiormente proiettata al capo del giorno d’oggi. I giovani d’oggi sono molto attenti alle celeb, vogliono emulare i loro look. Oggi c’è un grande mix, la differenza di ceto sociale non è più una prerogativa nella differenza del look. Inoltre si è anche quasi azzerata la differenza tra maschile e femminile. La moda riporta dei canoni, dei clichè di ciò che ha rappresentato. Tornano gli anni Ottanta, Settanta, Novanta. Sfogliando le riviste di oggi ci si rende conto che i trend non esistono più. Si fa riferimento al cultural mix, o per meglio dire, ci si ispira a un determinato periodo storico e ne escono fuori nuovi codici e canoni estetici.”

BVLLBAG, palle da basket a tracolla

Il primo mouse a portata di mano della storia lo si deve a Steve Jobs e alla sua Mela, quando la società inizio’ a pensare ad un oggetto di basso costo, di misure contenute, realizzando un prototipo fatto con la pallina di plastica che troviamo nei deodoranti “roll on”; l’ispirazione viene sempre osservando oggetti di uso quotidiano. Un esempio più concettuale lo abbiamo attraverso le sculture del dadaista Marcel Duchamp, con “Ruota di bicicletta”, un’opera d’arte creata da uno sgabello e una ruota, oggetti qualsiasi che vengono firmati e poi esposti al pubblico. Qualcosa di similare avviene anche nella moda, e l’oggetto in questione è una palla da basket, quelle che vediamo rimbalzare sui campi tra le gambe di omoni dalle gambe chilometriche. Che cosa può diventare una palla? Una borsa! Più che dadaista, una trasformazione utile e originale, perchè l’unico brand a realizzarlo è BALLBAG!

Come nasce l’idea di BALLBAG? 

Da un viaggio a Los Angeles, mi innamorai dei colori pink e arancione delle palle da basket e feci due buchi a cui attaccai una tracolla; la voglia di personalizzare accessori e indossare sempre dei pezzi unici ha fatto il resto: tutti per strada mi fermavano per chiedermi dove avessi comprato quella borsa, così mi sono detta “perchè non creare un’intera collezione”!? 

Quanti modelli ci sono di BALLBAG e dove acquistarli?

Sul sito www.bvllbag.com si trovano 27 modelli differenti, per colore, dimensione, stile. Ci sono le classiche palle da basket col baffo di una nota marca, ci sono quelle da football, quelle dei Lakers e di Jordan, ma anche marsupi unisex. Ciascuna è impreziosita dai dettagli in metallo gold, cerniera, fodera interna, manici e tracolla. 
Le dimensioni invece sono tre: MINI, da 15 cm di diametro per il nècessaire della donna; la SMALL di 25 cm di diametro che può contenere un cellulare, chiavi di casa, portadocumenti; la BIG di 35 cm che regala spazio anche ad una trousse rifornita. 

Le borse BALLBAG si trovano anche su depop (https://www.depop.com/bvllbag/ ) e su asos marketplace (https://marketplace.asos.com/boutique/baller-bag ), dove hanno riscontrato un vero successo di vendite sia in Italia che in tutta Europa, America Latina e Nuova Zelanda. 

Le BALLBAG sono customizzabili? 


I modelli sono tanti ma se non si trova la borsa giusta è possibile richiederla su ordinazione, come abbiamo fatto in precedenza con i modelli fatti con palloni da volley o quelli da basket dedicati alla propria squadra del cuore, come la borsa “Lakers”.

Le ballbag sono destinate alle donne che amano distinguersi, che non seguono solo mode e tendenze, ma che scelgono anche in base ai propri gusti non stereotipati.

A quale personaggio ti piacerebbe veder portare una BALLBAG? 


Winnie Harlow e la sua vitiligine, alla cantante spagnola Rosalia, a Nikita Dragun, alla make up artist transgender, alla nostra italiana Elodie, alla loro diversità.

Danzano sul Campidoglio le vestali di Laura Biagiotti

Danzano sul Campidoglio le vestali di Laura Biagiotti

“E’ bello scoprire ritmi di lavoro diversi, più umani di quelli milanesi; questa serata mi ha fatto vedere la mia città con occhi differenti e sono convinta che d’ora in poi nulla sarà più come prima nella moda, è un processo di cambiamento irreversibile. Intendiamoci, amo molto la frenesia di Milano e del grande bailamme della moda, la sua adrenalina talvolta è anche rigenerante, ma forse la dimensione della mia città è più congeniale a me e ai miei collaboratori, anche perché stando qui dove sono nata, posso creare valore per il mio territorio ricco di maestranze artigianali e di eccellenze manifatturiere che vanno rilanciate e potenziate”. Lavinia Biagiotti Cigna, figlia e degna erede di una delle sovrane della moda italiana, Laura Biagiotti, è stanca ma emozionata dopo la suggestiva ed emozionante passerella che si è concessa, la prima in cui viene svelata in esclusiva a Roma la sua collezione, disertando coraggiosamente Milano. Per la prima volta infatti, dopo 55 anni di storia, Laura Biagiotti porta le sue 23 modelle tutte italiane, tranne la super top Anna Cleveland, figlia della leggendaria Pat Cleveland (che ha aperto e chiuso il défilé), nel cuore della Caput Mundi, sulla Piazza rinascimentale per eccellenza, quella Piazza del Campidoglio progettata da Michelangelo che è il fulcro della città eterna e anche la sede del governo municipale. La stessa città in cui Laura Biagiotti, ribattezzata da Bernardine Morris ‘regina del cashmere’ e prima stilista italiana ad approdare in Cina nel 1988 e a Mosca nel 1994, ha deciso di vivere e creare le sue collezioni fin dagli anni’70 insieme al marito Gianni Cigna.

Colta e raffinata mecenate, Laura Biagiotti ha ristrutturato il Castello Marco Simone alla fine degli anni’70 per farne la sua sede e il suo quartier generale ma anche il suo buen retiro. Testa solida e cuore tenero, la ‘dama bianca’ della moda italiana ha saputo tracciare un percorso illuminato di stile e raffinatezza nel segno della nobiltà del cachemire, un itinerario avventuroso volto anche alla valorizzazione della bellezza che ci circonda, partendo da Roma. Qui ha finanziato nel 1999 il restauro della scalinata cordonata del Campidoglio, dei Dioscuri e della fontana di Piazza Farnese. Ora Lavinia, prosegue il retaggio della sua grande mamma, scomparsa nel maggio 2017, finanziando il restauro estetico e funzionale della fontana della dea Roma in Piazza del Campidoglio, un’operazione importante per la città, supportata anche da Banca Intesa che prima della serata ha annunciato nuove iniziative a sostegno della moda italiana ma anche dei suoi giovani virgulti. In scena al tramonto sulla storica Piazza in cui la statua equestre di Marco Aurelio sorveglia sempre vigile le sorti della capitale, scivolano sulle note delle magiche musiche di Ennio Morricone, le eteree creazioni per la primavera-estate 2021 della maison.

Sono abiti lunghi e lievi, plissettati e stampati a pois o con motivi floreali ricamati, sono completi che accostano in modo audace lampi di colori smaglianti a volte inconciliabili come il rosa ciclamino e il verde clorofilla, sono sensuali princesse imprimé a motivi neoclassici in sete impalpabili ma anche tailleur dalle spalle pronunciate ricchi di tasche, perché il comfort é l’arma segreta di ogni donna. Non manca l’iconico abito bambola ‘spazialista’ e mono taglia in taffetas cangiante color melanzana, più corto e frizzante. La novità è una stampa delicata di soggetti neoclassici mutuati dall’iconografia capitolina e applicati con grazia su reticoli di cristalli che irradiano luce e sicurezza.

“Sono abiti con l’anima quelli che sfilano in questa magica cornice, luminosi, confortevoli e fatti per durare, pensati per regalare libertà a chi li indossa; è bello quando qualcuno ti ferma per strada e ti racconta che ancora possiede e indossa un capo disegnato da tua madre, perché significa che quello che facciamo ha un senso, che può durare nel tempo”, dichiara vibrante Lavinia. “Con questo evento, reso possibile anche dal Comune di Roma e dalla sindaca Virginia Raggi (presente all’anteprima stampa dell’evento in Campidoglio nell’aula consiliare n.d.r.), intendiamo ribadire la centralità del genius loci nel nostro percorso futuro perché la nostra rinascita parte proprio dai luoghi che amiamo e in cui viviamo, e dei quali abbiamo il dovere di preservare le eccellenze artistiche e culturali”. Ed è un’ipnotica performance di danza a siglare e coronare questa ideale ‘rinascita’ in Campidoglio della moda italiana alla fine di questa memorabile serata di moda e musica diretta magistralmente da Sergio Salerni.

L’étoile dell’Opera di Roma Eleonora Abbagnato aleggia come una libellula avvolta in seta lamé plissé soleil guidando una schiera di leggiadre vestali che si muovono come sospese in aria sulle note del tema musicale del fim ‘Mission’ creato negli anni’80 da Ennio Morricone, altro pilastro del Made in Italy. Uno scroscio di applausi accoglie nel gran finale dello show la carismatica Anna Cleveland, altra performer in stato di grazia, che volteggia sulla piazza accarezzata da un peplo insostenibile in chiffon avorio. La precede una sposa con un abito che riproduce il sublime disegno della piazza. Esultano nel parterre (solo 100 invitati selezionatissimi) Romina Power e Nancy Brilly, Mara Venier e un’abbagliante Cristina Chiabotto, Massimiliano Rosolino e Milly Carlucci, senza contare Laura Chiatti, ambasciatrice dell’ultimissima fragranza della maison, e le autorità istituzionali: Virgina Raggi, Luigi Abete, Stefano Coletta Direttore di Rai 1 e Pierluigi Monceri direttore regionale di Intesa San Paolo. Un en plein fra fashion e mondanità, perché ciò che conta è ripartire col piede giusto, ed è nella bellezza in fondo che la società può disegnare il suo futuro. 

Look Festival di Venezia 2020- fra gara d’eleganza e scivoloni trash

A Venezia fra gara d’eleganza e scivoloni trash

Nuovo cinema fashion. A Venezia, insieme alla settima arte, sfila una grande parata di stelle, soprattutto italiane, per sancire l’ottimismo della ripartenza in grande stile. A dimostrare l’indissolubilità del connubio fra moda e cinema. La palma dell’eleganza nella Serenissima spetta sicuramente a Elodie che si è palesata sul red carpet della Serenissima fasciata in un abito siderale in maglia metallica silver con spacco molto audace e lo scollo fittamente ricamato insieme al compagno Marracash in tuxedo dai dettagli argento: coppia clou e cool inequivocabilmente abbigliata da Donatella Versace e con ‘l’argento vivo addosso’. Inneggia a Eldorado vestita come una sirena da Atelier Versace la bellissima Maya Hawke, figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman. La madrina della 77esima edizione della mostra del cinema della città dei dogi, Anna Foglietta, si rivela una vera e propria icona di stile brillando per grazia, talento, ironia e intelligenza. Inaugura il festival con una superba toilette con vaporosa gonna di tulle e top tintinnante di cristalli a cascata, firmata Armani Privé.

Re Giorgio in fatto di stile la sa lunga: oltre ad aver vestito il talentuoso Pier Francesco Favino, il nuovo Vittorio Gassman, che ha calcato il tappeto rosso in giacca da smoking greige insieme alla piccola figlia, attrice in erba nel suo ultimo film ‘Padrenostro’, ha dettato il look della presidente della giuria di quest’anno, l’ineffabile Cate Blanchett, per poi sfoggiare toilette da fulgida sirena griffate Etro, Gucci, Brunello Cucinelli e Alberta Ferretti, una delle attuali regine del Made in Italy che oltre ad aver curato l’immagine in nero assoluto e iridescente della bella Cristiana Capotondi, ha anche abbellito la splendida Arizona Muse, top model impegnata, con un trionfante fastello di rouche di georgette plissettata scarlatta.

Rosso Valentino per la bella Fotini Peluso e per Vanessa Kirby che ha interpretato Margareth di Windsor in ‘The crown’. Rosso sì ma un po’ surreale e francamente molto trash l’abito da bombardona, di Zuhair Murad (che sa fare di meglio…) sfoggiato da una vamp de noantri come Madalina Ghenea, archetipo della starlette di regime (qualcuno sa dirmi per quale motivo è famosa?) che pare la clonazione triste di Gilda.

E’ una donna in rosso ma super chic, fasciata da un abito drappeggiato di Dolce&Gabbana, la florida Vanessa Incontrada, tradizionalmente legata al gruppo Miroglio come stilista e ambasciatrice del brand curvy Elena Mirò. Furoreggia in bianco ottico ohimé l’influencer Giulia De Lellis sulla cui toilette banalotta a forma di meringa tristemente firmata da un oscurissimo atelier di bridal e palesemente ispirata all’abito di Sarah Jessica Parker nella sigla di ‘Sex and the city’, stendiamo un velo. Da dimenticare l’abito con crinolina tricolore di Eleonora Lastrucci, un flop galattico. Inguardabili Ludovica e Beatrice Valli che ostentano due improbabili abiti bianco latte di Rami Kadi al quale chiediamo: perché?

Vola alto come una colomba invece il bianco immacolato della magnetica Tilda Swinton, musa di cineasti ma anche di stilisti, che ritira il Leone d’oro alla carriera con un magnifico e sinuoso abito di candido pizzo di Chanel corredato da una maschera veneziana d’oro, perché la classe non è acqua. Intrigante e sexy chic la tuta candida di Genny in organza sfoggiata da Giorgia Surina e impreziosita da frange d’argento. Bianco etereo il lungo Armani che illumina Greta Ferro ed Emma Marrone in blazer ammaliante e niente altro. Raffinata come sempre come una casta diva la regale Cate Blanchett che apre il festival con un magnifico modello grafico e sensuale nero luminoso del 2015 profilato di bianco di Esteban Cortazar, per poi esibire un top scultoreo brodé di Alexander McQueen di qualche stagione fa, dando un lusinghiero esempio di grande upcicling sulle orme di Jane Fonda che ha ‘riciclato’ il suo abito rosso di Zuhair Murad già sfoggiato prima degli Oscar 2020. E la Blanchett appare di sicuro in tutto il suo splendore fasciata da un mermaid dress nero ricamato effetto bambù disegnato Re Giorgio versione Privé.

Non offre fianco a critiche (ma non convince del tutto) Carolina Crescentini con il suo toy boy Francesco Motta, avvolta in un abito glamour che la fa sembrare una fata turchina versione 5G. Alessandro Michele per Gucci sul red carpet alza il tiro con l’abito di gala a balze multicolori, molto garbato, indossato da Gia Coppola, figlia d’arte. Non passa inosservata la caduta di stile del nude look di Matilde Gioli con un top francobollo che lascia troppo poco all’immaginazione. Interessante l’evoluzione del look della cantante Levante che, grazie a Re Giorgio, si trasforma in una signora di classe, anche per farsi perdonare lo scivolone del look sanremese targato Marco De Vincenzo. Sexy ma elegantissima in blazer con cintura la bella Adèle Exarchopoulos che ha scelto Prada come pure la magnifica Jasmine Trinca, star di ‘La dea fortuna’ di Ozpetek avvistata all’ultima, suggestiva sfilata femminile del brand a Milano. Nero, elegantissimo l’abito di velluto solcato da tagli e frange indossato da Catherine Waterston. Scintilla come caviale prezioso l’abito di Baby K firmato da Moschino by Jeremy Scott. Non convince affatto il look premaman anch’esso total black, di Arisa che ha pur scomodato un grande come Marras ma ci vuol altro purtroppo per convertire la signora al buon gusto.

E’ una piacevole sorpresa invece la splendida Miriam Leone, una delle nuove dive del nostro cinema, ammiratissima nella trilogia Sky su Mani pulite 1992-1993-1994, che abdica finalmente a Gucci che non le donava granché, per sfoggiare un tuxedo nude laminato d’oro firmato Blazé Milano, marchio emergente italian style affidato alla matita di tre giovani designer e amato anche da Margherita Missoni e Giorgina Brandolini D’Adda. Largo ai giovani. E i maschi? Non stanno certo a guardare. E anche qui si contano varie bucce di banana. Come i fratelli d’Innocenzo che appaiono piuttosto inquietanti come le gemelle di Shining targati Gucci crivellati da doppie G e uno styling davvero sbagliato. Scelgono Prada invece James Norton e Dario Yazbek Bernal. Di Marracash e Favino abbiamo già parlato. Bello e sempre più interessante come un vero divo hollywoodiano, nonostante abbia superato le 50 primavere, giganteggia Matt Dillon, giurato di Venezia 77 che ricordiamo per il grandioso ‘Rusty il selvaggio’ di Coppola ma anche per l’estremo ‘La casa di Jack’ di Lars Von Trier. Per non sbagliare si è affidato a Re Giorgio che fra i gentlemen della settima arte si è accaparrato le vere star. Nella scuderia veneziana dei purosangue vestiti da Re Giorgio spiccano una leggenda come Almodòvar che ha presentato la sua ultima fatica ‘The human voice’, Anthony Delon, Daniele Luchetti e il sex symbol Miguel Angel Silvestre, star di Almodovar e di Netflix, griffato Emporio Armani al pari di Diodato trionfatore di Sanremo, ma anche Alessandro Gassman che ha esibito un completo nero illuminato da t-shirt rossa per il photocall di ‘Non odiare’, film meritorio pervaso da un vibrante impegno civile sulla denuncia della aberrante rimonta antisemita nel nostro paese, anticamera del neofascismo digitale. Su tutti svetta senza dubbio l’elegante e fascinoso attore Diego Boneta che si fa notare, ma con classe, con il suo blazer da gran sera di Atelier Versace ricamato di cristalli che scendono in degradé dalle spalle, epitome di superba e glamourous couture maschile aggiornata ai codici odierni.

“Spy no tsuma” (Moglie di una spia), Festival di Venezia 2020


“Spy no tsuma” (Moglie di una spia), Festival di Venezia 2020

Un commerciante giapponese di stoffe preziose vive all’occidentale, beve whisky occidentale, gira filmini amatoriali come un occidentale. Lui è Yusaku Fukuhara (Issey Takahashi) ed è sposato con Satoko (Yu Aoi), moglie devota, bimbetta cresciuta che vive un rapporto di dipendenza e adorazione nei confronti del marito. Il ritratto è quello di una famiglia borghese, lui con la passione del cinema, nel tempo libero si diverte a girare pelliccole timidamente hitchcokiane, dei noir tutto spie e casseforti; lei docile e mansueta e un amico d’infanzia segretamente innamorato di lei, sullo sfondo di una Kobe alla soglia della seconda guerra mondiale. 


Melo’ fino a metà film e con la recitazione forzata e strascicata della timida giapponesina, “Spy no tsuma” si accende nella seconda metà quando Yusaku, tornato da un viaggio in Manciuria, scopre dei documenti che provano le atrocità commesse dal governo giapponese e decide di rivelarle al mondo intero, senza aiuto alcuno, come un vero supereroe: crimini inaccettabili, prove di un Giappone nazionalista e violento. 



Il segreto che porta con sé desta sospetti nella moglie, venuta a sapere che Yusaku è tornato dal viaggio con una donna. Agli occhi di Satoko, la vera protagonista, il punto di vista scelto dal regista Kiyoshi Kurosawa, sembrerebbe un adulterio, ma il vero tradimento è quello del Giappone, della propria terra che diventa sempre più intollerante nei confronti di inglesi e americani, macchiata di sangue e vergogna. 


Spinta più dall’amore incondizionato (e immaturo forse) verso il marito, Satoko, una volta scoperta la verità, decide di fuggire e aiutarlo nella missione, adrenalinica per spirito di avventura più che per orgoglio ed etica e senso di giustizia

Si salva il finale che ha diverse chiavi di lettura (io ne ho una ma confrontandomi con i colleghi al Festival pare ce ne siano di differenti) e la fotografia impacchettata anni ’40 con i costumi pronti al confezionamento. No alla recitazione alla “Ace ventura” di Yu Aoi, a meno che sia voluta a tavolino per denigrare un certo genere femminile, lo stereotipo della moglie bellina e scema. Ma spero non sia questo il caso, che a migliorare nella recitazione c’è sempre tempo. 

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Venezia Festival 2020, Khorshid (Sole) di Majid Majidi


Khorshid – (Sole) di Majid Majidi – 77mo Festival del Cinema di Venezia


Nei sobborghi di Teheran, in una terra che ci appare solo in televisione tra le notizie di tragedie, sfruttamenti, medievali violenze, esiste invece una realtà che il regista Majid Majidi ha portato sullo schermo del 77mo Festival del Cinema di Venezia. La macchina da presa dentro le vite di bambini costretti a rubare e a delinquere per mantenere le proprie famiglie, tiranne anch’esse e vittime al tempo stesso della propria ignoranza. E’ dalla strada che sono stati scelti gli attori, bambini di dodici anni circa, convincenti fino all’osso, e fotografia umana della tirannia senza scrupoli, dell’infanzia negata, del ricatto senza riscatto. 


Ali, il protagonista, ruba gomme insieme a una piccola banda di amici, assoldati da un boss della zona, la madre vive in un manicomio e spesso non gli è permesso di vederla né tantomeno di portarla via da lì.
Per farsi perdonare il furtarello di un piccione da un boss, Alì e i suoi amici hanno una missione: trovare un “tesoro” che si trova esattamente sotto “La scuola del sole”, tra la fogna e il cimitero. Anche i bambini sanno che nelle fogne i tesori non esistono, eppure, nella più totale disperazione, spinti dalla fame e da quel briciolo di speranza e di salvezza, i ragazzi si buttano alla ricerca di qualche anfora colma d’oro, di magici bauli pirateschi colmi di medaglie e argenterie, accecati dalle menzogne di adulti sporcati e infangati da quelle stesse fogne che sono le strade, quelle in cui si sono arresi alla delinquenza e alla violenza. 



Tra la soffocante ricerca nei tunnel sotterranei e lo spazio luminoso della scuola, il regista contrappone un’immagine metaforica, il contrasto della prigione a cui sono costretti, che è la vita del fuggitivo, e il barlume di fiducia che il ruolo di un insegnante coltiva nei loro cuori, attraverso la compassione, la fiducia, la bontà. 

Un film che inizia come una favola per bambini e che si rivela invece accusa di un modello sociale, una pellicola a cui dobbiamo molto, perchè seme che cresce nelle nostre coscienze, che ci spinge a riflettere e forse a denunciare, ad agire. Il lieto fine in “Sole” però non c’è, rimane la disillusione di un bambino che sognava di portare a quella “luce” la propria mamma malata, e chi si ritrova invece con in mano un pugno di “polvere”.