L’importanza di pensare in Grande

L’importanza di pensare in Grande

Anton Giulio Grande è l’ultimo dei romantici, e soprattutto un vero, inguaribile esteta. Difficile incontrare nella moda uno come lui, un dandy mediterraneo amante del classicismo ma anche aperto alla trasgressione. Colto, curioso e cosmopolita, Anton Giulio è grato alla sua Roma che lo ha adottato negli anni’90 e che gli ha regalato la magia delle passerelle nelle location più esclusive e scenografiche. Come la spettacolare scalinata di Trinità dei Monti che ha accolto le creazioni sexy e raffinate del couturier ben quattro volte verso la fine degli anni’90 nella cornice dell’indimenticabile rassegna di alta moda ‘Donna sotto le stelle’ trasmessa in mondovisione. Formatosi nelle ‘humanae litterae’ e con una passione irriducibile per l’arte in tutte le sue forme, da Raffaello a Francis Bacon, Anton Giulio ha appreso le tecniche della couture al Polimoda di Firenze e al prestigioso FIT di New York, frequentato anche da uno dei suoi idoli, Tom Ford. Nel suo atelier si è fatto le ossa anche Massimiliano Giornetti, fashion designer di portata internazionale.

La sua alta moda emana brividi e vere emozioni ma soprattutto dà la percezione di quello che dovrebbe essere il ruolo sociale di uno stilista: rendere più belle le persone. Image maker ma anche interprete del suo tempo, Anton Giulio Grande, coccolato nei suoi 20 anni di carriera da dive, maliarde del jet set e icone dello stile, da Rita Levi Montalcini a Sophia Loren, da Asia Argento a Claudia Cardinale fino a Dalila di Lazzaro, è stato definito il ‘delfino di Gianni Versace’ con la benedizione di Santo, fratello del mito della moda italiana e stratega del suo impero miliardario. Non per niente dalla Magna Grecia e dalla ridente e selvaggia Calabria immortalata nel magnifico film di Mimmo Calopresti ‘Aspromonte’ una delle pellicole più belle del 2020, proviene anche Anton Giulio, grande di nome e di fatto. Devoto alla lezione dei grandi maestri della haute couture come Valentino Garavani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré, Emanuel Ungaro, ma anche Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Cristobàl Balenciaga, lo stilista lametino è in realtà assolutamente calato nella contemporaneità. Non a caso il suo profilo Instagram è seguito da più di 65.000 persone in tutto il mondo. Ma dall’alto della sua cultura e della sua passione per il bello, Grande non si scompone mai senza perdere un filo di politesse da gentleman latino, affrontando la sua vita con garbo, senza sbavature e senza mai calcare i toni, fedele alla sua missione di valorizzare il corpo femminile e maschile e di coltivare ed esaltare la bellezza come valore estetico e come vocazione onde ricomporre l’antico dualismo fra apollineo e dionisiaco, fra ésprit de geometrie ed ésprit de finesse. Lo abbiamo incontrato per un dialogo intimo con uno dei protagonisti dell’alta moda italiana, quell’alta moda che oggi purtroppo rischia di scomparire, immemore della sua ormai remota grandeur. Per Anton Giulio Grande la moda è aspirazionalità e sogno a occhi aperti, un elemento che emerge esplicitamente dalla nostra conversazione. 

Anton Giulio quali sono le sue icone, i suoi fattori distintivi? 

Sono cresciuto a contatto con le donne del Sud, mia nonna paterna era una sarta molto creativa ed elaborava sofisticate coperte di macramé. Da lei ho ereditato la mia passione per gli abiti di pizzo, per gli scialli finemente ricamati che avvolgono il corpo in un sinuoso abbraccio, per le sottili trasparenze, per le lievi plissettature, per il nero e per i corpetti sensuali. Per me la sensualità è il linguaggio espressivo della libertà, una libertà che appartiene a tutte le donne e le rende più attraenti e più desiderabili. E la seduzione è una liturgia complessa legata all’anima e alla testa più che alla mera corporeità. Molte delle mie clienti oltre a un corpo sensuale possiedono talento e professionalità, sono donne impegnate in vari ruoli sociali di rilievo e tutte vogliono sentirsi a loro agio nei propri panni, senza abiurare alla loro innata femminilità.

Cosa ha significato per lei la quarantena

L’ho sfruttata come un’opportunità per riflettere sul mondo e sulla vita, per rileggere i classici ma anche per scoprire nuovi scrittori, perché l’alta moda è cultura. Adoro leggere autori come Goethe, Proust, Oscar Wilde, Baudelaire, Apollinaire ma anche Pirandello, Kafka e fra i moderni Isabel Allende e Garcia Marquez. Mentre disegno mi piace ascoltare la musica classica ma anche il pop e il rock, da Mina a Milva, da Freddy Mercury al ‘duca bianco’ David Bowie di cui apprezzo il raffinato camaleontismo. In questa pausa forzata ho continuato ad alimentare la mia vena creativa anche se ho percepito il disagio di non poter passeggiare per le strade per osservare lo ‘street style’, visitare i musei e per frequentare i miei amici. Uno stilista deve essere sempre connesso col mondo e in parte direi che mi sono sentito ‘disconnesso’ in questa delicata fase storica, un momento epocale che può essere l’occasione per una rinascita autentica anche nel nostro stile di vita, perché come diceva Einstein “dopo il buio viene sempre la luce” e le crisi  possono essere provvidenziali a volte. Ecco, io mi sento positivo e ho mille progetti. Come per esempio una linea di accessori, dagli occhiali alle clutch, fino ai profumi e gli scialli di pizzo e cachemire che si addicono a qualunque mise.

Qual è secondo lei il futuro del Made in Italy? 

Non dico che dobbiamo dimenticare la dimensione globale dei nostri interessi ma sicuramente dovremmo riscoprire il genius loci perché noi italiani di bellezze e di eccellenze possiamo vantarne tantissime. Il pizzo per esempio non è nato, come erroneamente si ritiene, in Francia ma viene bensì da Venezia. Ci sono magnifici merletti e pizzi italiani che non hanno nulla da invidiare a quelli francesi, belgi e fiamminghi. La nostra italianità deve essere la base da cui ripartire, il nostro cavallo di battaglia. E per affrontare le sfide future non possiamo rinnegare le nostre radici perché in fondo come diceva Giambattista Vico la storia è ciclica e non così lineare.

Lei ha dedicato la sua carriera all’esaltazione della bellezza femminile, nel segno di un erotismo decorativo che ha incantato molte delle sue più celebri clienti e amiche. Quali sono le sue muse? 

Ne ho diverse e prediligo le ‘belles dame sans merci’, le femmes fatales: Greta Garbo, Rita Hayworth, Gloria Swanson e Lana Turner. Per il suo stile inimitabile ho sempre amato Maria Callas, grande icona di stile, la magnetica Silvana Mangano che Roberto Capucci vestì nel 1970 per il set di ‘Teorema’ e la straordinaria Valentina Cortese. Ho un debole per la conturbante Corinne Cléry che esordì nel 1977 con ‘Histoire d’O’ di Just Jaeckin ed è oggi una delle mie più care amiche, fino all’ineguagliabile Dalila di Lazzaro consacrata da Andy Warhol, che ha indossato un mio impalpabile abito bianco a Cannes, e Joan Collins che è un inossidabile mito di glamour e ironia. Ho il privilegio di conoscere fra le dive di nuova generazione la carismatica Isabella Ferrari, la meravigliosa Violante Placido e la bellissima Miriam Leone, una rivelazione ormai molto ricercata e affermata che ho ammirato nella trilogia ‘1992-93-94’. A mio avviso con la sua personalità assertiva e la sua esuberante malia è l’interprete ideale del mio stile wilde e raffinato calato nella realtà di oggi. Sono attratto anche dallo charme irresistibile di Anna Magnani che per me resta un’epitome di prorompente femminilità abbinata a un incredibile talento.

Fra i vari materiali che impiega per realizzare le sue creazioni ce n’è uno che più si adatta oltre al pizzo a esprimere al meglio i suoi ideali estetici? 

Beh, direi le piume perché conferiscono brio e libertà a qualunque mise sdrammatizzando l’eleganza più aulica e autoreferenziale soprattutto dal cocktail alla sera. Adoro il movimento che le piume creano intorno al corpo con la loro aggraziata e spumeggiante leggerezza mettendo le ali alla femminilità.

Quale consiglio si sente di dare a una donna che vuole sempre essere impeccabile e insieme stylish? 

Non inseguire le mode più effimere perché, come diceva Coco Chanel, “la moda passa ma lo stile resta”. Essere fedeli alla propria personalità quando si sceglie un guardaroba o anche solo un singolo capo. Ridurre al minimo gli orpelli e puntare sulla qualità e non sulla moda ‘mordi e fuggi’. E poi credere in sé stesse, perché senza personalità anche il più magnifico degli abiti diventa uno strofinaccio. Bisogna interpretare un abito, renderlo vivo con il proprio inconfondibile stile e con un’allure che è fondamentalmente innata. Ogni donna è speciale e il suo abito deve dimostrarlo. Il guardaroba ideale deve prevedere capi di qualità, realizzati con tessuti pregiati e rigorosamente naturali come lino, cotone, seta, raso anche rigenerati se necessario. Nell’armadio di una donna non devono mai mancare a mio avviso: una giacca tuxedo dal taglio sartoriale in cady con revers di raso, una camicia candida e vaporosa in organza, un tubino che è un immancabile passepartout, e un fourreau. Must have fatti per durare.

E l’uomo di Anton Giulio Grande come si definisce?

In passato ho creato anche capi maschili e tornerò a farlo molto presto. L’uomo che vesto è il partner ideale della mia musa ispiratrice, un vate dannunziano redivivo amante di velluti e sete per languide vestaglie che scivolano sensualmente sul corpo. Virile ma sofisticato, alterna i pullover in cachemire ai jeans gioiello e perché no? Anche a piccanti bluse trasparenti, perché il sex appeal non ha sesso né età.

Il Nuovo Rinascimento di Max Mara – PE 2020

Il Nuovo Rinascimento di Max Mara

Beatrice D’Este e Isabella Gonzaga, Eleonora di Toledo e Lucrezia Borgia fino alla Fornarina, a Caterina Dé Medici e alla Gioconda. Sono queste le eroine di Ian Griffiths chez Max Mara per la primavera-estate 2021. Max Mara è stata fondata da Achille Maramotti in un periodo di transizione e di fervida rinascita. Nella stagione del boom della moda del dopoguerra l’Italia ha reinventato i classici del guardaroba universale con perizia artigianale e uno sguardo attento al design. Max Mara ha sempre creduto nel concetto di “Bella figura” che esprime l’importanza di presentarsi al meglio. Quel mantra non è mai sembrato più valido di ora. E quindi, come ci si veste per ricostruire il mondo e fare “bella figura”? Con un morbidissimo spolverino in cashmere, un tailleur perfettamente costruito, un trench meticolosamente curato, una impeccabile camicia abbinata a pantaloni plissettati; e dulcis in fundo una grande “Ippolita” bag e occhiali oversize.

Nel segno di una alchimia di chic e funzionalità che da sempre definisce lo stile del brand di ready to wear, pioniere nella democratizzazione del lusso. Il coat iconico di Max Mara rilegge magistralmente il prototipo della mantella rinascimentale con le maniche doppie e pendenti che partono dalle spalle ibridandolo con il parka più moderno che ci sia. Le scollature invece ricordano quelle arricciate o dritte dei ritratti del XVI secolo: lo stilista rivisita con patch applicate damascate il costume del paggio che ispirò già Gianni Versace nel 1981.

La palette pittorica armonizza l’ocra, la terra d’ombra, la terra di siena, il nero e il bianco a tocchi di colori delicati come i toni pastello tipici degli affreschi umbri. Il nuovo Rinascimento genera anche nuove silhouette: brevi ed eleganti, lunghe e svasate. Un’altra zampata di stile di Griffiths per una collezione che rende omaggio all’installazione dell’artista Corrine Sworn ispirata alla Commedia dell’arte. La Sworn ha vinto il Max Mara Art Prize for Women nel 2015. Onore a lei e a questo marchio che fa un bel prodotto, sano e portabile senza essere tedioso.

La palingenesi estetica di Genny

La palingenesi estetica di Genny

Genny rinasce come l’araba fenice e porta in scena per la primavera-estate 2021 un mondo di bellezza pura e di raffinata sensualità in omaggio al DNA del brand. Memore dei grandi successi raggiunti dal marchio grazie a Donatella Girombelli dal geniale Gianni Versace negli anni’ 80 e nei primi ’90, la collezione sfila a Verona in una cornice incantata: il laghetto con le variopinte ninfee del Parco Giardino Sigurtà. I 42 look della collezione del marchio che negli anni’80 sfilò al Palazzo di vetro dell’Onu a New York, inneggiano a una bellezza neoclassica ispirata alle statue di Antonio Canova, l’artista prediletto di Sara Facchini direttore creativo del brand fondato dai Girombelli di Ancona negli anni’70 e attualmente prodotto dalla veronese Swinger. Il guardaroba della donna di Genny per la prossima estate prevede mini giacche nei toni degli iris viola e glicine coordinate agli shorts, abiti ravvivati da stampe giallo osmanto e verde lime mentre rosso carminio e bianco begonia si alternano ai basici del nero e nudo, oltre a una nutrita galleria di giacche trasformiste. La giacca infatti da Genny diventa saggia e si converte in spolverino, vestaglia, pigiama, camicia per offrire alle donne di oggi una comfort zone di gran lusso. I top sono corpetti dalla costruzione sartoriale ma leggeri e grafici nella elaborazione finale. Gli accessori si fanno notare per le loro misure: micro zainetti o maxi shopping bag in tessuto o trasparenti.

Borse a mano dall’effetto trapuntato esibiscono nel manico il logo metallico. La sagoma di un violino sul lato di un vestito da sera rosso fiamma che sarebbe piaciuto a Gianni Versace, e un trench stampato con note dorate introducono l’omaggio alla musica classica. Dopo l’ouverture della “Cenerentola” di Rossini arriva il più profondo “Va’ Pensiero”, celebrazione perfetta del nostro “Bel Paese”. Gran finale tricolore, dove un serie di abiti lunghi dai colori vibranti della nostra bandiera, sfilano nel delicato e suggestivo labirinto green di Parco Giardino Sigurtà in cui ogni donna trova la sua personale via dell’eleganza e di una sofisticata femminilità. Siamo fiduciosi che il marchio, sulla scia di un heritage glorioso, possa chiarire e definire con maggiore precisione e grinta la sua identità attuale senza snaturare la lezione di stile e glamour ereditata dalla gestione Girombelli rinnovando le inflessioni stilistiche suggerite da un ricco archivio iconografico. L’abito del finale con cut out sul fianco a forma di violino è l’input giusto a nostro avviso per delineare un percorso sempre più sexy e consapevole, audace e sperimentale per questo glorioso marchio storico del made in Italy.

EMILIE FALL WINTER 2020

Scintillio e morbidezza: sono questi gli imperativi della FW di Emilie, brand firmato da Valentina Monte, mente creativa e founder della linea. 

Velluto e paillettes dominano con eleganza questa collezione pop-rock, rivolta a sfavillanti principesse metropolitane. I monospalla e gli spezzati nelle varianti “velvet touch” si declinano nelle attualissime varianti blu elettrico, ocra e bordeaux, e la jump-suit osa il total black più audace grazie alla scollatura a goccia.

Lo chiffon s’impreziosisce di paillettes nere e dorate, vibranti grazie ai giochi di rouches di long e minidress monospalla o con scollature a cuore. 

Il tailleur dal taglio maschile, con blazer da abito oversize, è un must have da portare con il pantalone coordinato, leggermente svasato sul fondo; elegantissimo se portato con un sottogiacca a bustier o sensualissimo sulla pelle nuda per un effetto naked.

Il target è fresco e giovane, i modelli versatili e frizzanti, adatti sia ad uno stile all-day long, con spezzati cropped top e gonna, sia ai party invernali più sfrenati, grazie a mini dress sbarazzini e ai sensuali long dress con spacchi laterali. 

La FW di Emilie è creata appositamente per una donna che non ha paura di osare e catturare lo sguardo, consapevole della sua carica seduttiva non teme di accentuarla con capi di carattere ma, al contrario, li indossa con sicurezza e un pizzico d’ironia.

BIOGRAFIA DESIGNER – VALENTINA MONTE

Spirito imprenditoriale e creatività: sono questi i tratti distintivi dell’intraprendente founder di Emilie, brand giovane e glamour che propone capi versatili ma sempre eleganti. 

Dopo gli studi in ambito economico a Madrid e svariate esperienze lavorative nel settore, Valentina decide di fare il grande passo e trasferirsi a Lugano dove riesce a unire i suoi grandi amori: quello per suo marito Alberto e quello per la moda.

A soli 30 anni è riuscita infatti a coronare il sogno di creare una linea di abbigliamento tutta sua, espressione del suo gusto chic e frizzante.

Valentina, nata e cresciuta a Brescia, ha creato una linea made with love che racchiude la sua personalità estrosa e magnetica, rivolta a tutte coloro che non rinunciano mai a sentirsi principesse metropolitane.

“Ri-scatti”, prostitute raccontano la loro vita di strada


RI-SCATTI: PER LE STRADE MERCENARIE DEL SESSO – LA MOSTRA FOTOGRAFICA AL PAC DI MILANO


Se ne parla ma mai abbastanza e soprattutto ci sono ancora moltissime zone d’ombra perchè paura e delinquenza cercano di occultare: è la prostituzione di strada, rappresentata al Pac di Milano con la mostra “ RI-SCATTI”. 
All’Associazione Lule Onlus che opera da più di vent’anni in aiuto alle vittime della tratta di esseri umani a scopo sessuale, verrà devoluto il ricavato della vendita di foto, in esposizione fino al 25 ottobre 2020; “Ri-scatti: per le strade mercenarie del sesso”, vuole far luce su una realtà disperata e indicibile presente nell’area metropolitana di Milano, dove ragazze straniere sono schiave obbligate a vendere il proprio corpo per potersi guadagnare da vivere. 



Sette tra queste donne, tre rumene, due nigeriane e due transgender peruviane, si sono prestate ad un workshop di fotografia notturno tenuto in un camper, per poter dar vita ad un racconto di immagini che è quotidianità, disperazione, orrore, solitudine e rassegnazione. Sono scene di vita quotidiana, la strada poco illuminata che è il luogo di lavoro, la piazzola che si paga 4000 euro, spese aggiunte al viaggio e al traghettatore (2000 euro + 400); oltre a quelle per vitto e alloggio (circa 1000 da dare allo sfruttatore), e 40 euro al giorno per il passaggio di andata e ritorno da casa alla piazzola, scortate come fossero assassini, controllate a vista da mane a sera. Un debito enorme da cui non ci si separa più, delle manette per la vita, infilate molto spesso dagli stessi fidanzati, uomini che le raggirano con false speranze, con la promessa di elevare il loro stile di vita e di risolvere i problemi economici che hanno al loro paese, luogo dove probabilmente hanno lasciato figli e famiglia. 

Hanno dai 19 ai 50 anni, vivono nell’hinterland milanese con mezzi da robivecchi, i bagni colmi di prodotti di bellezza acquistati al discount, saponi e shampi per levar via la memoria di dosso; nelle stanze i peluche della loro infanzia, unico legame con un mondo genuino e pulito che non hanno più, forse quei pupazzi di pelo sono il vero simbolo di speranza che hanno, più della Sacra Bibbia che tengono dentro al comodino

La cucina è un momento sacro, possono fare davvero quello che a loro piace e cioè cucinare le ricette della loro terra; dalle foto riconosciamo chi viene dall’Africa e chi dall’Est a seconda degli ingredienti che usano, chi carne e chi zenzero, chi aromi e chi spezie; ma in tutte rimane la rabbia verso l’uomo, questo essere ambiguo un po’ carne e un po’ bestia, e la loro rivalsa la vediamo rappresentata in una banana tagliata a pezzetti, chiaro simbolo di evirazione. 



Anche i polli squartati e lasciati alla camera a “gambe aperte” raccontano il loro dolore, carne da macello pronta ad essere usata, picchiata, abusata e buttata via; sono donne lacerate e traumatizzate quelle che si raccontano, hanno il coraggio di andare avanti perchè dall’altra parte del mondo hanno lasciato un pezzo di cuore, i loro figli, è solo questo che le aiuta a sperare che un giorno ce la faranno e torneranno da loro ad amare la vita e riconciliarsi con loro stesse.



I numeri che escono da questo progetto sono impressionanti e vale la pena citarli: sono 9 milioni i clienti in Italia, 1 su 3 chiede prostitute di strada; l’80% di loro chiede di non usare il preservativo e il 43% tra questi ottiene risposta affermativa. Il 12% delle prostitute è sieropositiva; il costo medio di una prestazione sessuale per nigeriane è di 15/20 euro e di 30 euro per le donne dell’Est; i clienti italiani sono il 35%, preceduti dagli spagnoli 39%, seguiti da svizzeri 19%, austriaci 15%, olandesi 14%, svedesi 13%. 

Il reclutamento di queste donne avviene nel loro paese, adescate da un medio lungo corteggiamento, lo sfruttatore si finge fidanzato intento ad aiutarle e preoccupato per il futuro di entrambe; iniziano così una serie di richieste che prevedono lo sfruttamento e la vendita del corpo dietro regole ferree e codici consuetudinari che portano la donna ad uno stato totale di sottomissione. Nell’organizzazione del racket ROM questi uomini reinvestono i proventi delle attività illecite nella droga e nel traffico di armi. 

Inutile dire quanto sia importante far luce su questo argomento, ancora circondato da macchie scure; ricordiamo che lo sfruttamento della prostituzione è un reato disciplinato dalla legge n. 75 del 1958 e che il sistema italiano in aiuto alle vittime di tratta è considerato come un esempio da seguire a livello internazionale; ma i numeri non tendono a diminuire. 

La mostra del PAC, curata dal conservatore Diego Sileo, ha un risvolto charity e ha messo un seme a sostegno delle vittime di strada, su un terreno che speriamo, un giorno, possa far nascere solo cose belle.

MILA SCHON PE21

La modernità senza tempo di Mila Schön evolve per scarti millimetrici e decisi.

Si materializza attraverso un guardaroba essenziale di capi efficaci, progettati per essere indossati in innumerevoli combinazioni personali.

Questa stagione la proposta include tuxedo, piccole giacche maschili, sahariane, t-shirt dress, wrap-dress, bluse e pantaloni dai volumi fluidi. La semplicità radicale delle forme incontra la frivolezza rigorosa dei motivi monogrammati Mila Link sui completi e gli abiti che occhieggiano al loungewear, mentre i bagliori Moon Wave su abiti lunghi e corti, e sui completi palazzo, suggeriscono memorie della Mila più notturna e glamorous.

I tagli puliti, i volumi liquidi e le costruzioni esatte lasciano trasparire la bellezza del materiale: cashmere, slow silk, seta jacquard, crêpe, lana, denim. La materia si esprime attraverso la scelta vibrante e concisa dei colori: bianco, nero, blu Danubio, blu denim. Le superfici sono solide, mosse da intarsi grafici, oppure animate da stampe ritmiche, agitate da jacquard lunari.

Il messaggio è senza tempo e senza età. Qualsiasi donna che viva davvero l’oggi può riconoscersi in una visione di stile che mette al centro la persona.

Mila sono io è il titolo della presentazione che sottolinea questo intento: una esperienza che regala un senso di presenza, inclusione, connessione. Gli spazi inondati di luce dello showroom di via Montebello sono occupati da un cubo abitabile.

Le facce del cubo sono popolate, in forma di collage, da una moltitudine di donne, capitanate da Mila Schön in persona.

Alcuni dei volti sono ritagliati, lasciando l’ovale vuoto. Gli spettatori possono poggiare il viso nell’ovale, e farsi ritrarre.

Mila sono io: il volto di Mila è sempre diverso, perché Mila lo è, e accoglie ogni donna.

Artigianalità e sostegno, i brand da non perdere

C.a.p.a.f.
Tra i primi in Italia a creare borse in rafia e vimini quando ancora il design non li aveva eletti protagonisti con la sedia dei ’70, l’azienda C.a.p.a.f. utilizzava materiali naturali per creare delle elegantissime borsette fatte a mano già dal ’46.
Oggi quei modelli sono diventati delle icone del marchio, che da allora ha implementato la sua collezione per forme e abbinamenti materici differenti. Midollino, rafia, vimini, cotone ritorto, juta, lana e pelle al servizio delle mani esperte di Giuliano Bonechi, che con sua moglie segue le orme del padre fondatore di C.a.p.a.f., già allora creatore di secchielli ultra moderni, cestini con manici rigidi e clutch dalle preziose chiusure a gioielli, un innovatore avanti con i tempi.

C.a.p.a.f.

Fabio Rusconi
Dalla città dei grandi artigiani, Firenze, arriva anche il brand Fabio Rusconi, il connubio equilibrato tra gusto, qualità e tendenza.
Le scarpe di Fabio Rusconi fanno del suo punto forte l’eccellenza dei materiali, che conferiscono alla scarpa una calzata comoda e duratura nel tempo. Sono accessori per donne femminili e alternative, che sposano l’originalità al classicismo, la storia alla modernità.
Must have della stagione Primavera Estate 2021 la stringata in pelle morbida con tacco basso e punta quadrata, un po’ collegiale un po’ Mary Poppins.

Fabio Rusconi

Maison Flaneur

Indossarla è come abbracciare la propria nonna, mentre è intenta a fare la maglia; Maison Flaneur ha il sapore della memoria, della tradizione e delle cose fatte bene, è l’azienda veneta diretta da Valeria Cremonese.
Non c’è capo che non porti con se’ l’orgoglio dei processi di cento anni fa, quello dei filati su telai manuali e del metodo senza cuciture, chiamato oggi seamless.
Quando il maglione è una seconda pelle.

Maison Flaneur

Roberto Collina
Se esiste il re delle fibre nobili, quello è Roberto Collina, brand che già nei ’50 si distinse per la specializzazione nella produzione di maglieria di qualità, oltre che per lo spiccato senso imprenditoriale. Made in Italy ma venduto in tutto il mondo, Roberto Collina regala capi unici in mohair, cashmere, angora, alpaca, cammello, lana merinos super lingh, seta, ice-cotton. Insomma ce n’è per tutti i gusti e tutte le tasche.

Roberto Collina

Gilberto Calzolari 
Gilberto Calzolari è sempre in prima linea quando si tratta di eco-sostenibilità, ecco perchè ogni collezione rispetta l’ambiente senza tralasciare la poeticità che la contraddistingue. Così la sua persona, così i suoi abiti, Gilberto Calzolari è idea e valore, è moda e green, è rispetto e anticonvenzionalità.

Gilberto Calzolari

Made For A Woman
Moltissimi paesi nel mondo vivono ancora situazioni di grave disagio economico, sociale e politico; tra questi purtroppo c’è anche il Madagascar, dove però non mancano le donne combattive che da lì hanno preso sangue e cuore, e che hanno voglia di lottare e aiutare e far sapere al mondo di quanto bisogno c’è nel far luce a questo disagio.
Made For A Woman di Eileen Akbaraly è il brand portavoce di un piccolo gruppo di donne che vivono un presente vulnerabile, ma che con l’aiuto di chi utilizza la moda può sperare in un futuro migliore. Sono lavoratrici che producono a mano delle bellissime borse in rafia (e cappelli) con pigmenti naturali, sono donne che attraverso il lavoro sentono di essere utili acquistando autostima e quel sorriso che cambia la giornata. La fondatrice del brand è attiva nel paese con programmi educativi e di empowerment. E’ davvero il caso di dire che le donne hanno una marcia in più.

Made For A Woman di Eileen Akbaraly

GABRIELE COLANGELO – SS21

GABRIELE COLANGELO – SS21

Le sculture intrecciate di françoise grossen, pioniera della “fiber art”, hanno origine da una tecnica manuale di annodatura libera e spontanea ed appaiono simultaneamente senza peso e ponderate, maschili e femminili. 

La loro suggestione crea un esito di manipolazione artigianale tessile nella collezione gabriele colangelo SS21.

Come corde attorcigliate, appese al soffitto, trecce di tubolari cucite a mano disegnano linee ellittiche, poi abbandonate in sospensione nello spazio. Sottolineano i tagli anatomici; definiscono il perimetro degli scolli; si compongono in intelaiature a motivi astratti sulle spalle delle giacche.

Fettucce in seta si intersecano come strutture flessibili ed impalpabili, sovrapposte a capospalla ed abiti.

Canestri in fili ritorti di cotone diventano pannelli sotto la maglia  a coste, ‘twistata’ in vita, o inserti con effetto see-through del corpino e plastron rettangolari della camicia in twill di viscosa pesante. 

Pieghe bloccate da maxi moschettoni metallici creano volumi asimmetrici in top di nappa leggera.

I davanti della giacca si incrociano, lasciando scoperti i fianchi, come tagli cutout mostrano il corpo sulla schiena di abiti, in maglia davanti e tessuto dietro, o di trench con fenditure, sottolineate da martingala di catena sottile.

La nappa in intenso color fondente diventa materia di elezione in una selezione tessile che ricerca una fluidità di architettura, sintonica al movimento.

Crea un effetto di morbida luce nella palette cromatica, che al bianco, al paglierino, al ghiaccio accosta il celeste, il mattone e qualche accento di verde pallido.

Lo jacquard in seta, tessuto con fibra elastica, imita le disegnature del punto smoke, con effetti di adesione al corpo e di enfasi del volume della gonna.

Le scarpe sono sandali di trecce di pelle e catena o listini con sfere metalliche. le borse hanno volumi over sia in pelle sia in nastri di seta sovrapposti a ricamo. I gioielli sono elementi circolari ed anelli d’argento con superficie organica di “alighieri”.

“7 Quai Voltaire”- la collezione FW 20-21 di Mes Demoiselles Paris

“7 Quai Voltaire” – la collezione FW 20-21 di Mes Demoiselles Paris

La collezione FW 20-21 di Mes Demoiselles Paris nasce nel settimo arrondissement di Parigi: 7 Quai Voltaire Paris.
Ambientazione di romanzi di dello scrittore Balzac e luogo della morte del filosofo francese che gli ha dato il nome, Quai Voltaire è oggi un quartiere di Parigi noto proprio per la vendita di libri e negozi di antiquariato.

Ed è proprio da qui, dove ha sede uno degli store dello stesso brand, che parte la storia della nuova collezione autunno inverno 2020-21 di Mes Demoiselles Paris, una storia senza tempo e luogo, enigmatica e affascinante, tipicamente parigina.

La tuta, il kimono, l’abito lungo e sagomato, i pull, il parka, la gonna, il cappotto, la blusa ampia e gli accessori rimangono fedeli all’inconfondibile stile entico–chic che contraddistingue il marchio, mixando quindi modelli tradizionali ed eleganti con stampe e fantasie di ispirazione esotica.

La storia che Anita Radovanovic scrive in questa collezione da vita a favole esotiche che ci portano in oriente con le stampe di tappeti persiani sul velluto di pantaloni, kimono e abiti,
in Sud America con le fantasie geometriche su bluse, pull e sull’iconico poncho, in India con i tessuti grezzi slavati in tonalità degradè, fino ai motivi floreale rappresentativi del brand stampati su mini abiti, gonne e camice.

Questo viaggio non poteva che finire a Parigi con i pois, gli elegantissimi abiti in velluto nero, i capi spalla luccicanti e le finissime maglie traforate.

Le sete stampate e tinta unita, i tessuti lamè, le lane pregiate, i cappotti rigorosamente eco e le maglie lavorate, rendono la collezione ricca, sofisticata, versatile e senza età.

L’universo che riesce a ricreare Mes Demoiselles Paris con le sue atmosfere eteree e nello stesso tempo super contemporanee e urban style rendono questo brand inconfondibile, espressione della visione del mondo della designer: senza confini, senza tempo ma con una grande anima.

Ratched, la serie tv più ambigua di Netflix

Siamo in una California impacchettata degli anni ’40, con i divanetti dei bar color verde menta, le donne dalle acconciature morbide e ondulate che le fanno sembrare delle docili mogliettine, gli abiti casti con i fiorellini e gli eleganti cappelli bon ton. Persino l’ospedale psichiatrico dove si svolge tutta la storia ha qualcosa di perfidamente perfetto, troppo per essere una gabbia di matti: nessuno strilla o corre per i corridoi, le siringhe non vengono lanciate a fiondate come si vede negli altri film del genere, le infermiere sorridono e dispensano favori…di ogni genere. Ratched, la serie di Netflix in onda dal 18 settembre cattura subito l’attenzione per questa sua ambiguità, che si sposa perfettamente alla protagonista Mildred Ratched, l’infermiera che si ispira allo stesso personaggio di Qualcuno volò sul nido del cuculo.



Tanto dolci sono i suoi occhi, sempre bagnati e velati da una misteriosa nota nostalgica, mesta tristezza, che si fatica a crederla parte dei cattivi, eppure l’infermiera dimostrerà, puntata per puntata (sono otto totali) di essere protetta da una barriera molto alta che la separa da ogni sentimentalismo o compassione, da ogni essere umano fuorché uno, suo fratello Edmund Tolleson, internato nella clinica perchè colpevole di una strage omicida di quattro preti.

Sarà Mildred a pianificare la salvezza del fratellino, stretta nei suoi abiti pastello sartoriali, nei guanti ton sur ton e in quei fili di perle che ci si chiede come un’infermiera possa cambiarsi d’abito così spesso come fosse un’illusionista. Poco credibile ma la costumista meriterebbe un Oscar!



I colori della fotografia sono accessi e talvolta fluorescenti, si accendono come la pazzia nella mente dei malati, talvolta fastidiosi come un neon accecante, come quello che illumina le esecuzioni macabre del dottor Hanover, il direttore della Clinica di Salute Mentale di Lucia. Sono pratiche sperimentali contro la follia, sono la lobotomia transorbitale e l’idroterapia, che consiste nel trasferimento del corpo del paziente da una vasca piena d’acqua a 48° a un’altra ghiacciata, un’ustione dentro un’altra ustione, metodi che in alcuni casi affascinano la sadica infermiera e in taluni la ripugnano, lasciandoci così il dubbio sulla sua vera personalità.



Agghindata come una moderna Crudelia De Mon, la ricchissima ereditiera Lenore Osgood interpretata da Sharon Stone è una donna in cerca di vendetta, la pelle bianca come il suo caschetto, una scimmietta come sua più alleata compagna e un figlio privo degli arti che è legato da un filo rosso al dottore sperimentatore. Personaggio estremamente affascinante, peccato gli si abbia dato poco sfogo e nessun approfondimento psicologico.



Difficile invece strapparsi di dosso i panni di Miranda in “Sex and the city“, Cynthia Nixon con la sua Gwendolyn Briggs inscena l’assistente del candidato Governatore della California, una donna emancipata e avanti con i tempi, lesbica e senza paura di nasconderlo corteggerà la silenziosa Mildred. Noi ce la immaginiamo ancora avvocato e con bimbi ai tempi della poppata, impacciata nella sua ex storia con l’occhialuto piccoletto, qui invece è decisamente più intraprendente.

La fine della prima serie è palesemente l’inizio di una seconda; e allora vi lascio allo stridio dei violini alla sigla iniziale, godetevi il rumore.