Cinema, politica, nazione, ma che grande confusione!

Dopo la sbornia degli infausti pronostici adesso, senza nessuno dei tre tenori premiato a Cannes, giornali e tv recriminano scioccamente sullo chauvinismo francese e sulla nostra debolezza politica a Cannes. Ma il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.




Nei giorni che hanno preceduto e accompagnato il Festival del cinema di Cannes, quando su troppi giornali e in troppi programmi televisivi italiani è partita la grancassa a sostegno dei nostri tre registi in gara – tre come i celeberrimi e un po’ sfatti (musicalmente) tenori di qualche anno fa, tre come gli iterati annunci delle locandine d’avanspettacolo – e la grancassa pubblicitaria ha dato vita a conferenze stampa congiunte dei tre candidati tra di loro abbracciati per il piacere dei fotografi e delle corti giornalistiche acclamanti, osannanti i loro prodotti e loro medesimi come li meglio fichi del nostro cinematografico bigoncio, ed era tutta una corsa a sprecare panegirici conditi con le più rosee, incoscienti e roboanti previsioni circa l’imminente trionfo della nostra nazionale registica – “Sono ben tre, almeno uno vincerà” -, ho avvertito prima un prurito fastidioso poi un’incontrollabile allergia e un riflesso refrattario all’unisono richiamo della patria infine un sincero disgusto di questa riciclata mescolanza tra arte e nazione. Così, presagendo il peggio – che tra l’altro, onestamente, non è detto che il peggio sia quel che è poi capitato – mi sono pudicamente e scaramanticamente toccato ripensando alla vigilia dell’ultimo mondiale di calcio e alle sesquipedali scemenze sulla presunta eccellenza e la superiorità tattica della squadretta di Cesare Prandelli. A chiacchiere vinciamo sempre.

Quando il cinema italiano è stato grande – e lo è stato davvero per almeno tre decenni – non ha mai confuso l’arte dei suoi autori con il prestigio della nazione e le manovre politiche. Semmai la politica nostrana la metteva alla berlina non la invocava per vincere un premio come – spero abusivamente – oggi il Corriere della sera fa dire a Paolo Sorrentino, il quale, peraltro, rivendica di aver di premi fatto indigestione, Oscar compreso e della patria assente si consola con il mercato, anzi, il botteghino. E quando Moretti ha vinto a Cannes, e ha vinto spesso, non credo proprio sia stato grazie a Silvio Berlusconi allora all’apogeo del suo potere e perciò schifato come Il caimano.


Semmai il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.


Il nostro grande cinema, si faceva scrupolo e vanto di rappresentare anche la nostra mediocrità, i nostri buffi o tragici vizi e difetti e la pochezza autentica più della bellezza evasiva e posticcia, il sobrio eroismo dei poveri con i propri poveri mezzi, non la magniloquenza al servizio di un pallido intimismo o della fuga in bizzarre fantasmagorie.


Perciò, dopo tanto fracasso, non mi hanno sorpreso né il risultato né i commenti amari dei giornali che, in coerenza con gli infausti pronostici di vittoria, hanno poi straparlato, nientemeno!, di “disfatta italiana” e di iniquo tributo di premi elargiti da giurati di molte nazionalità – “ma non c’era tra loro neanche un italiano !” – alla ospitante nazione francese e alla sua mai sazia brama di grandeur.


I più facinorosi tra i gazzettieri e gli improvvisati conduttori di “speciali” servizi tv accreditati a Cannes hanno pure insinuato il sospetto che responsabile della nuova Caporetto italiana sia stata l’insipienza delle nostre case di produzione inette a imbastire, pro patria italica, una sana azione di lobbying – e perché non anche di “mobbing” già che c’erano? – evidentemente ignari che almeno alcune delle fabbriche cinematografare dei nostri film erano straniere, stranierissime, o persuasi che una statuetta a Cannes si estorca come il pizzo a Palermo.


Non paghi di aver frainteso un festival del cinema trattandolo come un torneo tra nazioni e i suoi artisti protagonisti come atleti di un qualche sport agonistico, giornali e televisioni nostrani, al brusco risveglio del giorno dopo, non sapendo come uscire dal pasticcio in cui si erano cacciati da se soli, come prima già brindavano alla vittoria agognata così poi hanno recriminato sulla sconfitta impartita. E per coerenza han dato la colpa all’arroganza degli odiati cugini francesi, quelli stessi che alla vigilia blandivano, memori dei premi tante volte assegnati aux italiens – “l’avete già fatto dunque lo potete rifare” – e immemori che a presiedere la giuria, questa volta, sedessero due illustri fratelli – i Cohen – maestri del cinema americano e non oltranzisti cinefili di qualche école d’oltralpe.


Dio che pena, che confusione, che provinciale ostinazione nell’equivocare la propria personale stupidità con la malvagia cospirazione straniera. Sembra di sentirle le nostre comari: “Ma come, tre italiani in lizza e nessuno premiato e invece ‘sti francesi a chi l’hanno dati i premi? A uno di loro e poi a un ungherese e persino a un, come si dice ? a un taiwanita, roba da non crederci …”