Il caso di Tiziana Cantone e l’informazione

La tragica morte di Tiziana Cantone non è un caso isolato. Aveva 15 anni Rehtaeh Parsons quando venne stuprata da quattro ragazzi e 17 quando, nel 2013, si suicidò a causa delle foto che il gruppo aveva diffuso su internet. Era il 3 gennaio 2015 quando una donna 40enne di Castelfranco Veneto, madre di due figli, si è tolta la vita per la vergogna. Era entrata in contatto con un 35enne che, spacciandosi per un giovane aitante e inviandole foto non sue, era riuscito a trascinarla in una relazione virtuale. La donna aveva fatto l’errore di inviare all’amico una sua foto in biancheria intima. Nulla di particolarmente vergognoso. Ma l’uomo l’aveva minacciata di metterle in rete, chiedendole una contropartita. A un rifiuto della donna, le foto erano effettivamente finite su internet. Lei, per la paura che qualcuno potesse riconoscerla, compreso il marito, si era uccisa. Il 30 aprile dell’anno scorso una ragazza di 14 anni di Stains, nell’hinterland parigino, si è uccisa gettandosi dal balcone: era finita nel solito tritacarne dopo che il suo ex ragazzo aveva pubblicato un video che era stato girato a sua insaputa. Poco tempo prima era toccato a una ragazza ligure di 25 anni. Anche lei si era buttata da un palazzo, per fortuna senza perdere la vita.


Al dramma di queste vicende, si unisce il silenzio delle decine di casi simili finiti nel dimenticatoio, anche della rete, che si è scatenata scrivendo di tutto sul caso di Tiziana Cantone prima, il giorno dopo la sua morte, e nel giro di poche ore il suo nome, che era entrato tra i trend di twitter (le parole più discusse) ne è uscito, in silenzio.
E questo silenzio ci deve far riflettere molto più delle mille parole spese sul caso di Tiziana.
Da quelle banali e sessiste del “se l’è cercata” a quelle qualunquiste del “siamo tutti colpevoli” a quelle tecno-ostili del “è colpa di internet e dei social network”, fino a quelle paternalistiche del “poveri ragazzi”.


Come in altre occasioni qualcuno dei cd. “media tradizionali” ha anche ritenuto di fare un parziale mea culpa. Peter Gomez ha scritto “Ilfattoquotidiano.it, al pari di molte altre testate e siti online, si è comportato in maniera gravemente negligente sul caso di Tiziana Cantone. Sbagliando avevamo trattato la cosa come una sorta di fenomeno di costume e avevamo come altri ipotizzato che la vicenda potesse essere un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice.
L’errore commesso è evidente e innegabile. Non eravamo davanti a un caso di costume, ma un caso di cronaca … in altre parole non ci saremmo dovuti accontentare del fatto che la povera Tiziana fosse introvabile, ma avremmo dovuto chiedere ai nostri collaboratori di cercare i suoi amici e familiari per capire cosa era realmente accaduto… È giusto e doloroso dire però che anche noi abbiamo avuto una parte, sia pur piccola, in questo misfatto compiuto dal web.”
E continua “Quanto accaduto impone una riflessione su quello che possiamo fare anche davanti a storie e vicende già pubblicate da altri o già conosciute tramite i social da milioni di persone: il nostro giornale online deve riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare. Non per dare lezioni a nessuno ma per poter dire a noi stessi che abbiamo fatto fino in fondo, con correttezza, il nostro dovere. Ogni giorno pubblichiamo più di 120 contenuti. A ciascuno di essi dobbiamo dare la medesima cura. E se non siamo in grado di farlo, a causa del super-lavoro, dobbiamo non pubblicare… oggi è il caso che qui si parli di noi, delle nostre responsabilità e delle nostre manchevolezze.”


Frasi di buon senso, di cui sarebbe il caso non ricordarsi il giorno dopo tutti quanti e tutti insieme. Perché il “giorno dopo Tiziana” viene drammaticamente dopo molti giorni dopo Rehtaeh Parsons, la madre di Castelfranco Veneto, la quattordicenne di Stains o della ragazza ligure. E il giorno dopo ripetiamo le stesse cose, per scordarcene la mattina successiva.
Abbiamo speso fiumi di parole in post, commenti, articoli, status su Facebook e tweet, e poi ce ne siamo semplicemente scordati. La discussione è finita. È ricominciata con i commenti, i commenti ai commenti, sulla gara a chi era il più becero e chi commentava in modo “più intelligente”. E quando anche questa discussione sulla discussione è finita, come niente fosse, siamo tornati a parlare di calcio e X-factor. Semplicemente, come fosse tutto la stessa cosa.


” riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare” è un buon consiglio. Ma non lo si può fare nell’epoca in cui – in primis i quotidiani online – guadagnano condivisioni, accessi, e click pubblicitari se danno la notizia pochi minuti prima degli altri.
Chiedere la riflessione e di aspettare all’epoca del web, ai nuovi media – oggi, dopo che questo stile lo hanno imposto proprio i nuovi media e la televisione spettacolo – significa correre il rischio di essere etichettati come quelli che hanno provato a fare loro “il commento più figo” per essere “i più letti”: un po’ come continuare a speculare anche su una morte (se ci riflettiamo bene quei famosi dieci minuti in più).


Da subito andrebbero chiariti alcuni punti: che ad esempio la testa diretta da Gomez è una delle due condannate proprio nella sentenza di Tiziana, o che nessun giornale cartaceo tradizionale ha “trattato la vicenda”, ma solo ilFatto e Fanpage. Segno forse che si, una seria riflessione non ha tratto in inganno i media tradizionali, ma anche che invece questo “caso di costume” è stato visto come occasione ghiotta per qualche facile click sul sito.
Va anche chiarito che questo “misfatto” non è stato “compiuto dal web”. Il web, il popolo della rete, in sé, non esistono. La rete internet, come i social network, sono strumenti, e quelli che commettono reati, che “fanno del male” sono persone fisiche, quelle che incontriamo tutti i giorni per strada.
Esattamente come le vittime. Esseri umani in carne ed ossa. Solo che per usare un’arma serve acquistarla, il porto d’armi, saperla usare, avere anche una certa dose di coraggio e forza. Commentare su Facebook, fare un tweet, pubblicare una foto o un video per vendetta è apparentemente gratis, ci fa sentire forti, mentre restiamo vigliacchi nell’apparente anonimato del divano di casa dove giochiamo a fare i bravi ragazzi, i professionisti seri, i giornalisti impegnati, i commentatori “fighi”.


Tiziana è vittima di reati veri e persone vere, a mezzo web. Almeno tre volte.
La prima volta quando il suo video è stato pubblicato e diffuso in rete. E già in quel caso nessuno ha vigilato o controllato. Perché alle grandi compagnie del web interessano i contenuti: come e da dove provengano, se se ne abbiano i diritti conta poco o nulla. Tanto (pensano) poi si cancella, e nel frattempo noi guadagniamo (si perché quegli introiti nessuno glieli tocca mai, non li devono restituire).
La seconda volta da quelle persone in carne ed ossa che “convinte dal web”, da commenti ed editoriali che la descrivevano come “operazione per lanciare una porno attrice” hanno ritenuto di poterla appellare in qualsiasi modo, dentro e fuori la rete. Tanto, il mondo è virtuale, e le offese virtuali si ha l’illusione che non contino, non pesino, come le ferite in un videogame di guerra.
La terza volta dalla sentenza vera di una magistratura nel suo formalismo decisamente un po’ tropo virtuale: condannata al risarcimento delle spese legali verso quei soggetti chiamati in giudizio “sbagliando” la sede o la specifica ragione sociale (soldi più che bilanciati dai risarcimenti che le sarebbero spettati di qui a poco).