Le similitudini tra Giovanni Guareschi e Pasquale Clemente

26 maggio 1954: Giovannino Guareschi entra in carcere per scontare 409 giorni di carcere per diffamazione aggravata a mezzo stampa. «Mi hanno negato ogni prova che potesse servire a dimostrare che io non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato» scriveva il giornalista sul Candido del 25 aprile. 
«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione», affermò alla vigilia del suo ingresso in carcere, dove si presentò con la sacca che lo aveva accompagnato durante la prigionia nei campi tedeschi.
Ai dodici mesi di condanna si aggiunsero gli arretrati: già nel 1950 era stato condannato per diffamazione in seguito alla pubblicazione di una vignetta del collega Carlo Manzoni dove figuravano due file di bottiglie che facevano “da corazzieri” al presidente della Repubblica Einaudi: assolti in prima istanza, i due in appello furono condannati a 8 mesi di reclusione per vilipendio al Capo dello Stato e non scontarono la pena l’applicazione della libertà condizionale, ma il conto gli fu presentato alla prima occasione giusta.


Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a dodici mesi di carcere per diffamazione.
Nel caso di Pasquale Clemente – certamente meno noto del padre della saga di Don Camillo e Peppone – è bastata una “fuori consuetudine” unica udienza, senza nemmeno ascoltare l’unico teste della difesa, l’autore stesso dell’articolo, e senza nemmeno contro interrogare il teste di accusa (il querelante), per emettere la sentenza. Due anni, 730 giorni.


La seconda repubblica, in cui i politici sono nominati, scelti dalle segreterie di partito, con leggi elettorali prive di preferenze e di campagne elettorali vere, ci regala politici che considerano troppo spesso la critica, l’inchiesta, la notizia non ammaestrata, il mestiere di raccontare i fatti senza limitarsi pedissequamente a copincollare comunicati stampa e dichiarazioni, come atti di lesa maestà inconcepibili. Perché in assenza di una valutazione politica dell’elettore, la stampa si presenta sempre più come l’unico momento di vera informazione capace di dire chi sono e cosa fanno i politici.
Sarà per questo che “la querela strumento dei potenti contro i deboli” – come la definì Beppe Grillo – diventa sempre più strumento dei “nuovi politici” e di chi “gli sta attorno” per cassare ogni forma di critica. E del resto, se sai che rischi carcere e patrimonio semplicemente per fare il tuo lavoro senza dolo o colpa grave, certa e manifesta, prima di scrivere – specie contro un politico – ci pensi bene due volte. Specie se sei reo di avere un appartamento di proprietà, semmai perché di famiglia, o se non fai – come d’obbligo di questi tempi – la scelta della divisione dei beni con il coniuge.


E sarà anche per questo che la politica pensa bene di inasprire le pene per questa straordinaria fattispecie di reato: la diffamazione. Estesa a blogger e siti online, indipendentemente dalla dimensione, dai lettori, dalla diffusione. Si sa mai. Pene che superano quelle per l’estorsione, per l’omicidio colposo. E tempi di prescrizione decisamente più lunghi (sarà un caso?) rispetto a reati come corruzione e concussione. Per non parlare della assoluta mancanza di sanzioni in caso di irregolarità in elezioni primarie, o nei percorsi di scelta dei candidati, o della blindatura tutta interna nei casi in cui è prevista la decadenza. Perché il garantismo va bene, ma senza esagerare, e per chi fa informazione sembra quasi che questo garantismo sia meglio evitarlo.


Verrebbe da chiedere all’ex senatore Pasquale Giuliano, come si sentiva ad essere – lui così ligio su questa materia – compagno di partito di quel Renato Farina che ha ammesso di essere stato pagato per pubblicare – scientemente e consapevolmente – notizie assolutamente false. E perché, in quei casi, lui, da ex magistrato, senatore e sottosegretario, non ha provato nemmeno a proporla una norma che queste cose le sanzionasse.


Quello che mostra questa sentenza non è altro, se ce ne fosse ancora bisogno, che la prova che una certa politica, oggi anche più che in altri tempi, non ha pudore, non teme l’elettorato, ma l’unica cosa che teme è il reato di opinione. Che va sotto la troppo spesso labile dizione di “diffamazione a mezzo stampa”. Peggio se valutata senza discussioni e in un’unica udienza.
Un certo uso dei poteri dello Stato per qualcosa che, nel profondo e in via trasversale, suona sempre più, visti i tempi, come un’intimidazione implicita e generale, quasi un colpirne uno per educarne cento. E a leggere tra le righe queste riflessioni, sembra di tornare a tempi che pensavamo di aver tutti lasciato alle spalle del nostro paese settant’anni fa.


Perché almeno le intimidazioni della criminalità organizzata le riconosci, le vedi, le senti, e si presentano per quello che sono, e lo Stato te lo ritrovi al tuo fianco, se non altro perché le qualifica come reati. In questi casi assumono quel sapore amaro della beffa per cui ti senti un criminale, anche se hai la consapevolezza che forse sia lo Stato a stare dalla parte sbagliata.
Ma questa è solo la mia opinione, o forse ho diffamato qualcuno?