Linee di tendenza del pregiudizio antifemminile

Nella sua indagine la psico-sociologia non fa riferimento a valori assoluti, espressioni di una vera o presunta interpretazione della natura umana, bensì a linee di tendenza, alla prevalenza di alcuni aspetti su altri, al livello della sensibilità sociale nei confronti di problemi e proposte.


Tra le funzioni esercitate dal pregiudizio, c’è quella “semplificatrice” nei confronti della realtà. Si tratta di un aspetto, nello stesso tempo, confortevole e castrante, poiché non di rado lo stesso soggetto che è vittima di pregiudizio tende a utilizzare gli stereotipi come espedienti identificativi rassicuranti. Ciò si verifica con evidente frequenza nel caso del pregiudizio di genere, quello nei confronti delle donne, forse perché, più che in altri casi, è molto diffuso e basato su concetti condivisi perfino dalle stesse donne. È, in sostanza, un’espressione collettiva particolarmente radicata non solo nei gruppi maggioritari, ma in tutti gli strati della società. In tal modo tale pregiudizio fornisce un prontuario semplice e immediato alla valutazione e alla riflessione, all’espressione e all’organizzazione del pensiero, che è in grado di orientare concretamente anche l’azione.


Anche a causa della sua base emotiva molto consistente, i pregiudizi non di rado si fondano su acquisizioni cognitive per lo più inconsapevoli, determinate e rafforzate dal contesto sociale, familiare e amicale, prodotte già dalla prima infanzia. La donna, in questo senso, appare una vittima ancora più consenziente di quanto non si possa presupporre in altre forme di discriminazione. Ella stessa infatti ha assorbito, con il latte materno, dei veri e propri cliché fissati, difficilmente reversibili e modificabili, sia per la loro diffusione sostenuta dall’ambiente culturale sia per la legittimazione derivante dall’approvazione familiare. Lo stereotipo rafforza negli individui quei messaggi che ottengono consenso e legittimazione sociale.


Linee di tendenza del pregiudizio antifemminile


Mai come in un simile contesto appare che il pregiudizio, oltre che un mezzo di esclusione, è anche, e forse soprattutto, strumento di inclusione, perché produce e conferma il senso appartenenza. Il singolo sperimenta se stesso all’interno di relazioni significative, prima con la madre, poi con la famiglia e, infine, con il mondo esterno. In questo percorso il processo di definizione di sé s’intreccia con il senso di appartenenza o “senso del noi” come una spinta motivazionale per lo sviluppo individuale.


Nell’intreccio di relazioni sociali che danno luogo a una rete molto complessa, allora, il pregiudizio diventa una forma di approssimazione alla realtà che implica, da una parte, un’accentuazione delle differenze tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi e, dall’altra, un’accentuazione delle somiglianze all’interno del gruppo, producendo un effetto di assimilazione. Questa azione di inclusione tende a compensare e gratificare l’individuo nei suoi rapporti con gli altri, generando un certo spirito conservatore tipico delle donne, dovuto ovviamente non alla natura ma alla cultura.


Il pregiudizio “aiuta” anche nell’analisi dell’immagine di sé, perché fornisce uno strumento concettuale d’immediata applicabilità. Conseguentemente chi ne è vittima, in questo caso la donna, si mostra disposto a sminuire la propria immagine, riconoscendosi nell’identità proposta e condividendone il modello: subisce cioè l’effetto dello schiacciamento sociale effettuato, attraverso l’uso degli stereotipi, dal potere di sottomissione del gruppo maggioritario. Perché sforzarsi di modificare la propria posizione d’inferiorità, se questa garantisce comunque alcuni beni e, soprattutto, un consenso di fondo?


Un esempio molto chiaro di distorsione della realtà, prodotta dal pregiudizio, sono le metafore che spesso vengono utilizzate nel linguaggio comune, come pure nei mass media e nel lessico politico: la donna è, di volta in volta e in base alle convenienze (anche proprie), l’angelo, la strega, la vampira, la valchiria, la Giovanna d’Arco, la vestale, la matrona, ecc.; e, poi, ricorrendo a seconda delle situazioni all’apparato immaginifico proveniente dalla mitologia, una Giunone, una Venere, una Diana, una ninfa, una sirena e così via.


La donna viene coinvolta nel linguaggio paradossale della metafora ed è indotta a rapportarsi con se stessa e con il proprio sapere, costruendo la propria coscienza di sé anche grazie alle attese degli altri. Si costruisce, in tal modo, quel sapere e quelle conoscenze che le permettono di relazionarsi con gli altri, si individuano le modalità e i limiti di questa relazione, si precisano i valori che definiscono ciò che è comune e ciò che è diverso.


A tutto ciò va aggiunto il ruolo della dimensione istituzionale e politica, il ruolo cioè che assumono la società e le istituzioni sociali nel delineare il senso comune e gli atteggiamenti maggioritari.
Tutti questi fattori agiscono spesso in maniera integrata, influenzandosi reciprocamente, e ognuno alimenta l’altro in una catena di attribuzioni di causalità e responsabilità reciproche.

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