L’importanza di pensare in Grande

anton giulio

L’importanza di pensare in Grande

Anton Giulio Grande è l’ultimo dei romantici, e soprattutto un vero, inguaribile esteta. Difficile incontrare nella moda uno come lui, un dandy mediterraneo amante del classicismo ma anche aperto alla trasgressione. Colto, curioso e cosmopolita, Anton Giulio è grato alla sua Roma che lo ha adottato negli anni’90 e che gli ha regalato la magia delle passerelle nelle location più esclusive e scenografiche. Come la spettacolare scalinata di Trinità dei Monti che ha accolto le creazioni sexy e raffinate del couturier ben quattro volte verso la fine degli anni’90 nella cornice dell’indimenticabile rassegna di alta moda ‘Donna sotto le stelle’ trasmessa in mondovisione. Formatosi nelle ‘humanae litterae’ e con una passione irriducibile per l’arte in tutte le sue forme, da Raffaello a Francis Bacon, Anton Giulio ha appreso le tecniche della couture al Polimoda di Firenze e al prestigioso FIT di New York, frequentato anche da uno dei suoi idoli, Tom Ford. Nel suo atelier si è fatto le ossa anche Massimiliano Giornetti, fashion designer di portata internazionale.

La sua alta moda emana brividi e vere emozioni ma soprattutto dà la percezione di quello che dovrebbe essere il ruolo sociale di uno stilista: rendere più belle le persone. Image maker ma anche interprete del suo tempo, Anton Giulio Grande, coccolato nei suoi 20 anni di carriera da dive, maliarde del jet set e icone dello stile, da Rita Levi Montalcini a Sophia Loren, da Asia Argento a Claudia Cardinale fino a Dalila di Lazzaro, è stato definito il ‘delfino di Gianni Versace’ con la benedizione di Santo, fratello del mito della moda italiana e stratega del suo impero miliardario. Non per niente dalla Magna Grecia e dalla ridente e selvaggia Calabria immortalata nel magnifico film di Mimmo Calopresti ‘Aspromonte’ una delle pellicole più belle del 2020, proviene anche Anton Giulio, grande di nome e di fatto. Devoto alla lezione dei grandi maestri della haute couture come Valentino Garavani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré, Emanuel Ungaro, ma anche Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Cristobàl Balenciaga, lo stilista lametino è in realtà assolutamente calato nella contemporaneità. Non a caso il suo profilo Instagram è seguito da più di 65.000 persone in tutto il mondo. Ma dall’alto della sua cultura e della sua passione per il bello, Grande non si scompone mai senza perdere un filo di politesse da gentleman latino, affrontando la sua vita con garbo, senza sbavature e senza mai calcare i toni, fedele alla sua missione di valorizzare il corpo femminile e maschile e di coltivare ed esaltare la bellezza come valore estetico e come vocazione onde ricomporre l’antico dualismo fra apollineo e dionisiaco, fra ésprit de geometrie ed ésprit de finesse. Lo abbiamo incontrato per un dialogo intimo con uno dei protagonisti dell’alta moda italiana, quell’alta moda che oggi purtroppo rischia di scomparire, immemore della sua ormai remota grandeur. Per Anton Giulio Grande la moda è aspirazionalità e sogno a occhi aperti, un elemento che emerge esplicitamente dalla nostra conversazione. 

Anton Giulio quali sono le sue icone, i suoi fattori distintivi? 

Sono cresciuto a contatto con le donne del Sud, mia nonna paterna era una sarta molto creativa ed elaborava sofisticate coperte di macramé. Da lei ho ereditato la mia passione per gli abiti di pizzo, per gli scialli finemente ricamati che avvolgono il corpo in un sinuoso abbraccio, per le sottili trasparenze, per le lievi plissettature, per il nero e per i corpetti sensuali. Per me la sensualità è il linguaggio espressivo della libertà, una libertà che appartiene a tutte le donne e le rende più attraenti e più desiderabili. E la seduzione è una liturgia complessa legata all’anima e alla testa più che alla mera corporeità. Molte delle mie clienti oltre a un corpo sensuale possiedono talento e professionalità, sono donne impegnate in vari ruoli sociali di rilievo e tutte vogliono sentirsi a loro agio nei propri panni, senza abiurare alla loro innata femminilità.

Cosa ha significato per lei la quarantena

L’ho sfruttata come un’opportunità per riflettere sul mondo e sulla vita, per rileggere i classici ma anche per scoprire nuovi scrittori, perché l’alta moda è cultura. Adoro leggere autori come Goethe, Proust, Oscar Wilde, Baudelaire, Apollinaire ma anche Pirandello, Kafka e fra i moderni Isabel Allende e Garcia Marquez. Mentre disegno mi piace ascoltare la musica classica ma anche il pop e il rock, da Mina a Milva, da Freddy Mercury al ‘duca bianco’ David Bowie di cui apprezzo il raffinato camaleontismo. In questa pausa forzata ho continuato ad alimentare la mia vena creativa anche se ho percepito il disagio di non poter passeggiare per le strade per osservare lo ‘street style’, visitare i musei e per frequentare i miei amici. Uno stilista deve essere sempre connesso col mondo e in parte direi che mi sono sentito ‘disconnesso’ in questa delicata fase storica, un momento epocale che può essere l’occasione per una rinascita autentica anche nel nostro stile di vita, perché come diceva Einstein “dopo il buio viene sempre la luce” e le crisi  possono essere provvidenziali a volte. Ecco, io mi sento positivo e ho mille progetti. Come per esempio una linea di accessori, dagli occhiali alle clutch, fino ai profumi e gli scialli di pizzo e cachemire che si addicono a qualunque mise.

Qual è secondo lei il futuro del Made in Italy? 

Non dico che dobbiamo dimenticare la dimensione globale dei nostri interessi ma sicuramente dovremmo riscoprire il genius loci perché noi italiani di bellezze e di eccellenze possiamo vantarne tantissime. Il pizzo per esempio non è nato, come erroneamente si ritiene, in Francia ma viene bensì da Venezia. Ci sono magnifici merletti e pizzi italiani che non hanno nulla da invidiare a quelli francesi, belgi e fiamminghi. La nostra italianità deve essere la base da cui ripartire, il nostro cavallo di battaglia. E per affrontare le sfide future non possiamo rinnegare le nostre radici perché in fondo come diceva Giambattista Vico la storia è ciclica e non così lineare.

Lei ha dedicato la sua carriera all’esaltazione della bellezza femminile, nel segno di un erotismo decorativo che ha incantato molte delle sue più celebri clienti e amiche. Quali sono le sue muse? 

Ne ho diverse e prediligo le ‘belles dame sans merci’, le femmes fatales: Greta Garbo, Rita Hayworth, Gloria Swanson e Lana Turner. Per il suo stile inimitabile ho sempre amato Maria Callas, grande icona di stile, la magnetica Silvana Mangano che Roberto Capucci vestì nel 1970 per il set di ‘Teorema’ e la straordinaria Valentina Cortese. Ho un debole per la conturbante Corinne Cléry che esordì nel 1977 con ‘Histoire d’O’ di Just Jaeckin ed è oggi una delle mie più care amiche, fino all’ineguagliabile Dalila di Lazzaro consacrata da Andy Warhol, che ha indossato un mio impalpabile abito bianco a Cannes, e Joan Collins che è un inossidabile mito di glamour e ironia. Ho il privilegio di conoscere fra le dive di nuova generazione la carismatica Isabella Ferrari, la meravigliosa Violante Placido e la bellissima Miriam Leone, una rivelazione ormai molto ricercata e affermata che ho ammirato nella trilogia ‘1992-93-94’. A mio avviso con la sua personalità assertiva e la sua esuberante malia è l’interprete ideale del mio stile wilde e raffinato calato nella realtà di oggi. Sono attratto anche dallo charme irresistibile di Anna Magnani che per me resta un’epitome di prorompente femminilità abbinata a un incredibile talento.

Fra i vari materiali che impiega per realizzare le sue creazioni ce n’è uno che più si adatta oltre al pizzo a esprimere al meglio i suoi ideali estetici? 

Beh, direi le piume perché conferiscono brio e libertà a qualunque mise sdrammatizzando l’eleganza più aulica e autoreferenziale soprattutto dal cocktail alla sera. Adoro il movimento che le piume creano intorno al corpo con la loro aggraziata e spumeggiante leggerezza mettendo le ali alla femminilità.

Quale consiglio si sente di dare a una donna che vuole sempre essere impeccabile e insieme stylish? 

Non inseguire le mode più effimere perché, come diceva Coco Chanel, “la moda passa ma lo stile resta”. Essere fedeli alla propria personalità quando si sceglie un guardaroba o anche solo un singolo capo. Ridurre al minimo gli orpelli e puntare sulla qualità e non sulla moda ‘mordi e fuggi’. E poi credere in sé stesse, perché senza personalità anche il più magnifico degli abiti diventa uno strofinaccio. Bisogna interpretare un abito, renderlo vivo con il proprio inconfondibile stile e con un’allure che è fondamentalmente innata. Ogni donna è speciale e il suo abito deve dimostrarlo. Il guardaroba ideale deve prevedere capi di qualità, realizzati con tessuti pregiati e rigorosamente naturali come lino, cotone, seta, raso anche rigenerati se necessario. Nell’armadio di una donna non devono mai mancare a mio avviso: una giacca tuxedo dal taglio sartoriale in cady con revers di raso, una camicia candida e vaporosa in organza, un tubino che è un immancabile passepartout, e un fourreau. Must have fatti per durare.

E l’uomo di Anton Giulio Grande come si definisce?

In passato ho creato anche capi maschili e tornerò a farlo molto presto. L’uomo che vesto è il partner ideale della mia musa ispiratrice, un vate dannunziano redivivo amante di velluti e sete per languide vestaglie che scivolano sensualmente sul corpo. Virile ma sofisticato, alterna i pullover in cachemire ai jeans gioiello e perché no? Anche a piccanti bluse trasparenti, perché il sex appeal non ha sesso né età.