Come funzionano le primarie americane?

Guardare le primarie americane, per noi europei, è decisamente un grande spettacolo.
Riesce a trascinarci nel commento e in qualche modo anche a partecipare ad eventi che non ci appartengono, non appartengono alla nostra cultura né politica né della nostra concezione della democrazia, e tuttavia stimolano una qualche forma di “vorrei partecipare”, o anche di “vorrei che da noi…”
Dimentichiamo – e spesso perché non conosciamo quella politica se non per ciò che mediaticamente ci arriva e che ci viene fatto percepire – che quelle regole da noi sarebbero quasi impossibili da esportare.


A meno di non avere “gli Stati Uniti d’Europa”, di considerare un paese come l’Italia diviso in non oltre tre o quattro “regioni confederate” i cui governatori poi contino come i loro, con i relativi parlamenti. In cui ciascuna di queste tre, massimo quattro regioni, abbia due senatori e quattro congressisti a testa (questa la media) e non i quasi 90 europarlamentari attuali.
Dovremmo farci andar bene che una campagna per il “presidente dell’Europa” costi circa la metà di quella americana, e quindi intorno ai due miliardi per ciascun candidato (considerando due soli schieramenti).
E dovremmo trovarci in una condizione in cui dovremmo essere pronti ad accettare che due terzi di queste cifre vengano “donate dai cittadini” convivendo con l’altro terzo di grandi aziende e gruppi di pressione. Il vantaggio sarebbe tuttavia che ogni centesimo andrebbe dichiarato pubblicamente.
E tuttavia tutto questo non basta – se non preliminarmente – a darci un quadro di quanto complessa sia la strada delle primarie americane, che va ricordato in qualche modo comincino con le elezioni di medio termine (due anni prima). Si concentrano a un anno e mezzo dal voto, durano all’incirca un altro anno, si concludono con le convention di agosto/settembre, e lì comincia ciò che resta della campagna elettorale sino al 4 novembre.
Ma quel meccanismo è molto più complesso del semplice “chi vince e chi perde” nei singoli stati.
E varia anche da partito a partito e da stato a stato.


Chi vince in uno stato cosa vince?


I Repubblicani eleggono 2472 delegati, stato per stato. 
I Democratici ne eleggono 4763, di cui 4,051 negli stati e 712 indipendenti e notabili del partito (variano stato per stato e sono “svincolati” dal voto degli elettori alle primarie)
Alla convention finale per i democratici vince il candidato con almeno 2.382 voti presidenziali (delegati) mentre per i repubblicani vince il candidato che ne raccoglie almeno 1,237.


Si vota sempre allo stesso modo?


Assolutamente no.
Le primarie sono aperte (votano tutti), semi-aperte (votano solo indipendenti e elettori di quel partito ma non quelli del partito avverso) o chiuse (votano solo gli elettori di quel partito).

Si vince sempre allo stesso modo?
Assolutamente no.
Per i democratici la regola è la proporzionalità di voti/ delegati.
Se uno Stato “vale” 44 delegati (l’Iowa per esempio) e i due sfidanti (Clinton e Sanders per esempio) sono abbastanza vicini, la distribuzione è stata 23 a 21.
Per i repubblicani Stato per Stato cambiano le regole. Si fanno primarie, caucus o convention di Stato e le attribuzioni vanno dall'”inbond” – ovvero nomination unica – al sistema proporzionale al “winner take all” ovvero chi vince anche di un solo voto prende tutti i voti presidenziali.
Se teniamo conto di tutto questo la nostra analisi può essere più articolata e precisa, e tenere conto anche degli orientamenti degli elettori dei singoli stati e non solo delle manifestazioni mediatiche.
Con due semplici tabelle possiamo vedere a che punto stiamo.
Ovvero a circa un terzo della corsa.
In casa democratici la partita è quasi chiusa a favore della Clinton, e tuttavia deve tutta la sua forza ai superdelegati, senza i quali la reale forza in termini di consensi la vede chiusa a 543 delegati “vinti” contro i 349 di Sanders.
In casa repubblicana le cose sono molto più articolate.
Trump è a 316 delegati, Cruz a 226, Rubio a 106, Kasich a 25 e Carson a 8. con altri 1800 delegati circa da assegnare nelle forme più svariate. Ma l’analisi indica anche che se il GOP volesse davvero sbarrare la porta a Trump basterebbe un accordo forte – per il quale c’è tempo – tra Rubio e Cruz. Cosa che probabilmente avverà, ma non prima che i numeri definiscano chi dei due come candidato presidente e quale come vice.