Il caso di Juan Thompson e The Intercept

Ci sono due cose positive che sono successe nel giornalismo – nel mondo dell’informazione in generale – in questo inizio di anno. Ed entrambe queste buone notizie vengono dall’apporto del web e dei new media. La rete come ripeto spesso non è onnipotente, non salverà il mondo da sola, e non è un surrogato o “un altro canale” dei vecchi media. Ha delle peculiarità sue. E quando queste sono positive – come in questo caso – fanno bene anche ai vecchi media, in una commistione utile e migliorativa.

Il primo caso riguarda The Intercept, testata giornalistica lanciata nel 2014 da Glenn Greenwald (il giornalista che per primo raccolse e pubblicò il materiale di Snowden per the Guardian), Laura Poitras e Jeremy Scahill, dedicata al giornalismo di inchiesta con questo slogan “crediamo che il giornalismo debba portare trasparenza e responsabilità sia per potenti istituzioni governative sia per le aziende, e nostri giornalisti hanno la libertà editoriale e supporto legale per perseguire questa missione.”


Betsy Reed (capo redattore) il 2 febbraio ha pubblicato questa nota “The Intercept ha recentemente scoperto “un modello di inganno” nelle azioni di un membro della redazione. Il dipendente, Juan Thompson, era un nostro reporter dal novembre 2014 fino al mese scorso. Thompson ha costruito diverse citazioni nei suoi articoli e ha creato account di posta elettronica falsi che ha usato per impersonare altre persone, uno dei quali era un account Gmail a mio nome. Un’indagine ha rilevato tre casi in cui citazioni sono state attribuite a persone che hanno detto che non erano stati intervistati.In altri casi, le citazioni sono state attribuite a persone che non siamo riusciti a raggiungere, che non riuscivano a ricordare di aver parlato con lui, o la cui identità non può essere confermata. Nelle sue inchieste Thompson ha anche usato citazioni che non possiamo verificare da parte di persone senza nome che egli sosteneva di aver incontrato in occasione di eventi pubblici. Thompson ha fatto di tutto per ingannare i suoi redattori, anche la creazione di un account di posta elettronica per impersonare una fonte e mentire sui suoi metodi di rendicontazione. Abbiamo pubblicato le correzioni e redatto delle note ai pezzi in oggetto, e pubblicheremo ulteriori correzioni se ci identificheremo ulteriori problemi. Stiamo ritrattando una storia nella sua interezza. Abbiamo deciso di non rimuovere i messaggi, ma li abbiamo etichettati come “ritrattato” o “corretto”, sulla base dei nostri risultati. Abbiamo aggiunto le note di storie con le citazioni non confermate.


Ci scusiamo con i soggetti degli articoli, con le persone che sono state erroneamente citate e con voi, i nostri lettori. Thompson ha scritto per lo più brevi articoli su fatti di cronaca e di giustizia penale. Molti di questi articoli richiamano pubblicamente fonti disponibili e sono accurati, altri contengono materiale originale che sono stati verificati. Thompson ha ammesso la creazione di account di posta elettronica falsi e e di aver artefatto i messaggi. Egli non ha collaborato alla revisione. The Intercept si rammarica profondamente per questa situazione. In definitiva, io sono responsabile per tutto ciò che pubblichiamo. Il modo migliore che abbiamo per mantenere la fiducia dei lettori è quello di riconoscere e correggere questi errori, e di concentrarci sulla produzione del giornalismo di cui siamo orgogliosi.”


Cosa c’entra questa nota – su una vicenda che poteva riguardare qualiasi testata di qualsiasi natura – con il web? C’entra con la seconda buona notizia, questa volta e per una volta in casa nostra.
Era il 12 gennaio quando Anna Masera (mia amica, lo dico a scanso di equivoci per evitare che qualcuno possa dire “eh, ne parla bene ma non lo dice”) scriveva e comunicava attraverso i social network “Da oggi La Stampa mi ha incaricato di ricoprire il ruolo di “Public Editor”.
È una posizione nuova nel panorama del giornalismo italiano, e sono orgogliosa che il mio giornale la sperimenti per primo, fra i grandi giornali italiani, dopo aver sperimentato con me per primo il ruolo di “Social Media Editor”. Sarò al servizio del pubblico, la comunità di lettori-utenti, la vostra garante all’insegna della trasparenza e la vostra tramite con il giornale, su tutte le sue piattaforme.
Sarò “ombudswoman” (il termine “ombudsman” deriva da un ufficio di garanzia costituzionale istituito in Svezia nel 1809 e che significa letteralmente «uomo che funge da tramite»).


Il web ha come tipicità la velocità e l’interazione. 
Se la velocità è il suo punto di forza nella pubblicazione di notizie rispetto a tutti gli altri media (televisione compresa), l’interazione – spesso individuale, anche quando i visitatori raggiungono grandi cifre – diventa il suo “punto di rallentamento”.
Necessita di risorse, anche umane, dedicate alla cura, alla ricezione dei messaggi, alla risposta se dovuta. E in qualche caso anche al “rimettere mano” alle notizie, per migliorarle, correggerle, cassarle, approfondirle.
Queste due notizie vanno in questa direzione, recependo quelle cose che il web può offrire per migliorare ed integrare l’offerta informativa, che non dobbiamo dimenticare è quello che ci rende in definitiva liberi, perchè consapevoli.
Sono due esempi da esportare ed imitare (per gli altri) e da seguire ed osservare con attenzione (per tutti).