La rabbia e la ragione

La prima reazione è certamente la desolazione, lo sgomento. 
Poi la rabbia. Profonda.

Colpire Parigi è certamente colpire tutti noi. 
Sono quindi normali anche le prime reazioni, chieste a furor di popolo. Anche venendo meno la capacità di ascoltare e osservare quella dignità profonda, quel senso di comune condivisione che non ha nulla di silenzioso né di arrendevole. Anzi che mostra una forza straordinaria. 
Quella dignità e compostezza che ha mostrato, ancora una volta, dopo il massacro di Charlie Hebdo, il popolo francese.

Un’azione così forte, eclatante, mostruosa, da più parti reclamava un’azione forte. 
E nessun governo, se guardiamo la situazione dal punto di vista di chi governa, poteva sottrarsi a dare al furore del popolo – quello europeo, più che quello francese – una risposta forte, immediata, travolgente.


È un conto che bisogna mettere nell’essere al governo di una nazione quando questa viene colpita con tanta barbarie. E tuttavia la barbarie non giustifica un’azione senza ragione.

Precisiamo. Esiste una responsabilità diretta, specifica, inequivocabile, che ha visto attori e ideatori delle stragi di Parigi nell’Isis e in Siria. Questo è un dato certo.
Ma altrettanto certo – se ci fermiamo a ragionare – è che non è pensabile che quegli ideatori non se l’aspettassero. 
Colpire la Francia, oggi, significa colpire uno dei paesi in cui l’Islam ha le forme forse più moderate e integrate. E significa colpire un paese che dell’integrazione e del rispetto reciproco ha fatto modello di Stato.


Ecco che colpire la Francia è colpire questo modello. È spingere l’Europa verso il baratro manicheo, verso la guerra ammantata di religione, verso un mondo fatto di blocchi contrapposti.
In questo senso il furore di popolo innescato dai terroristi è esattamente il migliore alleato di chi ha interesse e desidera come modello questo scenario. E di chi non accetta la pacifica convivenza, fatta necessariamente di non imposizione di un modello religioso e culturale e di democrazia.

In questo si, è uno scontro di culture. 
Ma proprio per questo la barbarie non può far dimenticare le conquiste di civilità di un Europa che queste barbarie le ha vissute e pagate col sangue dei suoi popoli sino a settant’anni fa, quando altre ideologie alimentavano una visione del mondo fatta di odio, razzismo, ed imposizione di un modello culturale unico e totalitario da imporre con la forza.


Le bombe che in questo momento aerei francesi, con il supporto dell’intelligence americana e logistica russa, stanno sganciando sulla Siria sono lo sfogo di tutti noi, di tutto l’occidente contro la barbarie.
È il “ricambiare con gli interessi di sangue e morte” quel gesto assurdo ed atroce vissuto per le strade di Parigi, che poi sono le nostre strade d’Europa.

Chi mai potrebbe condannarci? Chi mai potrebbe condannare quell’istinto e quella rabbia?

Eppure rivendichiamo il primato della ragione.

Ed a noi e a chi ci governa compete essere oltre la barbarie, proprio rivendicando le nostre conquiste ferite, e le conquiste di civiltà che vogliamo difendere e vendicare.


Colpire oggi la Siria non è colpire l’Isis.
Chi doveva e poteva da Raqqa è scappato.

Ma quelle bombe – per quanto le nostre ragioni ci assolvano – sono l’altra faccia della medaglia di quel terrorismo che ci ha inorriditi due giorni fa.

Sono la benzina che verrà usata per incendiare le nostre strade. Sono le immagini che gireranno per i paesi del mondo arabo degli inevitabili morti civili, donne e bambini usati come scudi umani nelle infrastrutture da colpire.

Quelle bombe occidentali saranno la prova – per qualcuno – della crociata occidentale contro cui combattere e contro cui fare nuovo proselitismo.


Dovremmo rifletterci quando la rivendicazione – fallace, banale, menzognera, apparente, ridicola, opportunistica – del prossimo attentato sarà “per vendicare le bombe di Raqqa”.


Sul muro c’era scritto col gesso
 viva la guerra
 chi lo ha scritto è già caduto.


Sono versi di Brecht. Ma forse questa volta sono meno veri di settant’anni fa.

Perché la sensazione è che quel “vogliamo la guerra” sia stato scritto da qualcuno che è ben al sicuro altrove. Che ha altri interessi, certamente più materiali di una religione, di cui evidentemente nemmeno conosce i precetti, ma di cui si riempie la bocca e riempie la testa di ragazzini manipolabili e plagiati che giocano ai guerriglieri. Nel deserto come nelle nostre città. Come fosse un videogioco della playstation in Belgio.


Ma la ragione – che non appartiene al sentimento del popolo e delle masse – deve (imperativo categorico in questa era sopravvivenziale) guidare le scelte di chi ha la responsabilità di governare.

Deve – per quanto difficile – ricordare tutte le volte, recenti e passate, in cui da azioni di rappresaglia sono sorte guerre che tuttora mietono vittime.

Dovremmo ricordare che dopo l’undici settembre c’è stato l’Afghanistan, e tutti i caduti in quella guerra. E di certo i talebani e Al Qaida non sono stati annientati.

Dovremmo ricordare le bombe in Libia e Iraq. E di certo quei paesi non sono in pace. Ed anzi, che proprio quelle guerre hanno generato nuovi conflitti, nuovi terrorismi e nuovi soggetti. Se possibile ancora più sofisticati nelle loro strategie di terrore ed odio.


Ed è per questo, anche per questo, che chi ha ruoli e responsabilità di governo, oggi più che in altri momenti deve stare nel mezzo tra quella rabbia, e quell’orgoglio cui ci richiamava Oriana Fallaci, bilanciati però almeno altrettanto da quella ragione, fondata sulla storia, che ci insegna anche dove porta dare solo sfogo alla rabbia.
Perchè il migliore alleato di un fondamentalismo è l’altrettanto fondamentalista smarrimento della ragione che non fa contenere la rabbia.

Continuava Brecht nella stessa poesia:


La guerra che verrà non è la prima. 
Prima ci sono state altre guerre.
 Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
 Fra i vinti la povera gente faceva la fame. 
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. 
La voce che li comanda è la voce del loro nemico.
 E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.