Mi chiamo Vivian Maier e questa è la mia storia

Mi chiamo Vivian Maier, sono nata a New York il 1º febbraio 1926. Mio padre Charles Maier aveva origini austriache, mia madre, Maria Jaussaud, francesi. I miei genitori si conobbero proprio a New York, papà lavorava in una drogheria, mamma era da poco giunta in America, avendo lasciato Saint-Julien-en-Champsaur. Si sposarono nel 1919, un giorno di un piacevole maggio e nel 1920 nacque mio fratello William Charles, a cui diedero, sei anni dopo, una sorella, Vivian. Io. 


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Poi i miei decisero di lasciarsi e non ne ho mai compreso il motivo, il senso di una famiglia è stare insieme. Unita. Per sempre. Invece William andò dai nonni, io rimasi con mamma e insieme trovammo ospitalità nel Bronx, da una sua amica, Jeanne Bertrand, francese anche lei. Jeanne era fotografa per professione e quell’incontro fu per me determinante: mi trasmise la sua passione, che finì per divenire anche la mia. Noi tre, insieme, andammo in Francia, tornammo dove mamma era nata. Lì trascorsi un bel pezzo di vita, la mia infanzia “consapevole”, lì giocavo con le altre bambine, lì parlavo la loro lingua. Ma poi mamma decise di tornare a New York, prendemmo una nave enorme e per giorni le onde ci cullarono, alleviando la tristezza. Ancora una volta radici che venivano sradicate. Io poi ci andai ancora in Francia, una volta a 24 anni, forse 25. Mi era stata lasciata in eredità qualcosa di cui non ricordo, ma era molto importante che la vendessi. Quei giorni mi servirono per “amare” ancora quella terra e un pezzo di famiglia che abitava sempre lì.



Ebbene, raggiunsi New York nel 1951, e con il mio gruzzolo acquistai una Rolleiflex, una macchina fotografica eccezionale. Avevo urgenza di immortalare cose, persone, luoghi. Quindi mi spostai nel Nordamerica. Dovevo viaggiare,  dovevo conoscere. Lo feci, nulla mi rendeva più viva. Ma avevo bisogno di soldi, la fotografia era la mia fiamma, ma non il mio cibo. Allora raggiunsi Chicago e qui fui assunta dai coniugi Gensburg come bambinaia, dovevo badare ai loro tre ragazzi, John, Lane e Matthew. Lane mi adorava, le sembravo una tata magica. E in effetti, io compivo qualcosa di magico, in un piccolo bagno della loro casa, che era divenuto per me un luogo prezioso: sviluppavo le mie foto. Quegli anni furono prolifici; andavo nei parchi coi “miei” bambini e scattavo, passeggiavo per le strade e scattavo, andavo a fare la spesa, a svolgere delle commissioni, andavo a pensare, andavo a leggere e scattavo. Una volta, ero sull’autobus, guardavo fuori dal finestrino e d’un tratto vidi una donna di una bellezza sofisticata, portava una collana di perle, aveva delle sopracciglia perfette per un volto perfetto, indossava un soprabito elegante, guardava in un punto, ma sembrava fosse persa. Rubai quello sguardo.


Port Street


Un altro giorno, invece, ero diretta al mercato della frutta, avevo davvero voglia di frutta… ma mentre camminavo mi superò una coppia, lui portava una cintura in pelle intrecciata, lei era vestita all’ultima moda… un abito a righe, la vita segnata, un bracciale. Ad un tratto lui le prese la mano. Quel gesto mi toccò, mi rapì, lo desideravo. Forse per me. Allora lo volli, me lo portai a casa. E mi dimenticai della frutta.


New York, 1954


Ma riecco la brama di luoghi sconosciuti… L’avevo messa a tacere nel frattempo, ora chiedeva di essere soddisfatta. Di nuovo. Era il 1959. Dissi ai Gensburg che avrei dovuto lasciare Chicago per qualche mese, forse accennai loro di una parente ammalata, in Francia… non so. Di certo non avrebbero potuto capire… Comunque ci sarei andata in Francia, certo, ma prima visitai le Filippine, la Thailandia, lo Yemen, l’India, l’Egitto. Fu meraviglioso. Culture a me ignote, popoli lontani, mari e foreste e templi e storie. Dio mio, quanta bellezza. Quando tornai a Chicago, lavorai ancora per i Gensburg, ma presto i miei bambini furono adulti e non ebbero più bisogno di me. Separazione. Mia mamma morì nel ’75. Separazione. Ero sola. Perché i legami importanti finiscono. Sempre. Sopraggiunge la crescita. O la morte. O la fine di un amore, come fu per mamma e papà. Continuai a fare la governante anche in seguito. E continuavo a fotografare. Fu la volta della bambina bionda, con la testa piena di riccioli e un sacco di lacrime a rigarle il volto. Volevo raccontare la sua innocenza e la libertà che solo i piccoli posseggono (per esempio di piangere disperatamente, per strada, non curandosi dello sbalordimento degli altri).



Ma sapete, i bimbi possono essere anche consapevoli. E seducenti. Lo vedete questo ragazzino qui sotto? Quando si accorse che volevo ritrarlo, beh, si mise in posa. Capelli impomatati, maniche risvoltate, atteggiamento da duro. E sguardo ammiccante. Sembrava che volesse dire: “Ehi, signora, ce l’ha con me?”.Un ragazzino che giocava a fare il grande. Lo adorai. E subito perpetuai un pezzo della sua infanzia.



Ovunque lavorassi, portavo con me il mio materiale, le mie foto, i mie negativi. Era tutto quello che possedevo. Lo feci anche quando mi presi cura di Chiara (Bayleander), un’adolescente con handicap mentale. Volli molto bene a Chiara, provai un grande dolore per la sua malattia, lei non sapeva in che mondo straordinario vivesse. Io sì. Per questo usai la fotografia, per immortalare l’incanto di tutto quanto mi circondava. Non m’interessavano le grandi imprese o i grandi uomini, io volevo ricordare per sempre la normalità, la quotidianità degli sconosciuti. La mia era così semplice. E solitaria. Scattai delle foto anche a me stessa. Chissà come mai. Forse che presagivo che avreste voluto conoscermi un giorno? Ad ogni modo sono felice che il signor John Maloof abbia ritrovato il mio materiale e che organizzi mostre che ripercorrano la mia attività. Io non avrei saputo farlo. E la fama non m’interessava poi molto. E sono grata a voi, che apprezzate. Ma sappiate che facevo esattamente quello che fate voi oggi. Andavo per strada e puntavo il mio obbiettivo alla vita.


Chicago, 16 Giugno 1956



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Viviana Maier si spense il 21 aprile del 2009, in una casa di cura a Highland Park. Qui la sistemarono i Gensburg, i quali ignoravano che nel frattempo tutto il suo materiale fotografico, conservato in un box, era stato messo all’asta, a causa di alcuni affitti non pagati. Fu John Maloof, figlio di un rigattiere, ad acquistare tutto, nel 2007, e capì di avere fra le mani un tesoro. Che decise di condividere con tutti noi.


La mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è in corso allo spazio Forma e ci rimarrà fino al 31 gennaio.


Sul sito tutte le info.