L’amicizia nel disagio della modernità

Indubbiamente il contesto sociale e tecnologico incide sulla qualità dei rapporti, anche di quelli amicali. Neppure i sentimenti più profondi riescono a sfuggire a tante circostanze esteriori sfavorevoli. Senza per questo trasformarsi in barbosi laudatores temporis acti, è evidente che, quando esistevano ancora dei borghi pieni di cortili e di piccole aree verdi, con le botteghe del droghiere e le osterie di una volta, senza l’assordante rumore del traffico e dei rischi che esso comporta, era molto più facile incontrarsi e socializzare, condividendo tempi più distesi e spazi più conviviali.


Di questo squilibrio risente tanto l’affetto quanto l’amicizia quanto l’eros. Difatti, anche queste esperienze profondamente umane subiscono le conseguenze dei ritmi convulsi e spersonalizzanti della società di massa e del dilagare della comunicazione virtuale.


Un certo inaridimento dell’insieme dei rapporti sociali non favorisce quel tipo di rapporti che si appellano all’amore. E, d’altra parte, proprio questo inaridimento spinge a ricercare tali rapporti, che non si limitano a concetti utilitaristici e strumentali o addirittura basati su egoismo e furbizia, calcolo e opportunismo.


Tale fenomeno era già stato intuito da intellettuali e poeti. Pensiamo, ad esempio, ad Antoine de Saint-Exupéry quando nel 1943, alla vigilia della nostra società globalizzata, scriveva il suo capolavoro, Il Piccolo Principe. In quella favola di straordinaria intensità, ad un certo punto una volpe chiede al principe di poter entrare nella sua vita: «Gli uomini» – dice la volpe- «non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma, siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami».


Forse anche una dilagante mentalità pedagogica, incentrata sulla soddisfazione immediata dei desideri o perfino dei capricci, contribuisce alla formazione di una società meno amichevole, così da privilegiare obiettivi inautentici se non perfino nocivi e, viceversa, trascurare le persone e le loro realtà.


L’amicizia, come e più di ogni altra forma di amore, non è un dato acquisito una volta per sempre, ma un processo: e, come tale, richiede tempo, impegno, investimento di energie e di speranze. La mancata attenzione verso di essa si traduce in una sorta di rachitismo spirituale, in una graduale dissoluzione dei rapporti sociali, in una dispersione progressiva e inarrestabile delle potenzialità psicologiche più autentiche e profonde.


L’amicizia si colloca ai livelli superiori della consapevolezza e della scelta esistenziale; nondimeno anche il contesto culturale complessivo può incidere più o meno profondamente su di essa, sino ad indebolirla o comunque a non favorirla, come un seme che, pur avendo in sé il principio del proprio sviluppo, ha bisogno di un terreno adatto per attecchire e fruttificare. La fiducia è il vero terreno di coltura dell’amicizia.


L’amicizia, a sua volta, crea un ambiente amabile e fiducioso, sicuro, sereno; genera un clima che non solo rende possibile un’adeguata comunicazione tra le persone, ma si riflette all’interno dei nuclei familiari, favorendo il dialogo tra i coniugi e con i figli.


A partire da questa dimensione familiare, tipica anche dell’affetto, l’amicizia si manifesta anche come una «virtù politica», tale da favorire la costruzione di convivenze ordinate e felici, educando gli individui alla socializzazione e alla relazionalità. Essa è un «luogo» di fondazione del politico stesso.


Formidabile, in questo senso, fu l’intuizione dei pensatori illuministi che la società non poteva basarsi solo sull’uguaglianza e sulla libertà. Occorreva un altro principio, la fraternità, cioè il rapporto tra le persone concrete che formano un insieme sociale. Se, come dicevamo all’inizio, tale fratellanza presuppone il fatto di non poter scegliere, la capacità di entrare in relazione con gli altri in modo costruttivo è invece affidata alla libera decisione di ognuno: una realtà, perciò, del tutto simile all’amicizia.


Alla luce del percorso storico che, soprattutto nell’Occidente, si è compiuto a partire dall’illuminismo, possiamo affermare senza ombra di dubbio che i tentativi di realizzare la libertà e l’uguaglianza sono stati molto più numerosi ed efficaci di quelli miranti a realizzare la fraternità amichevole. Basti pensare alla grande rivoluzione liberale dell’Ottocento e al socialismo-comunismo del Novecento per rendersi conto di come il terzo valore della Rivoluzione Francese attenda ancora un movimento capace di incarnarlo e proporlo veramente all’ordine del giorno di una prassi politica e culturale.


La forza politica e comunitaria dell’amicizia non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva.


Dal passato è possibile attingere stimoli ed esperienze: pensiamo, tra l’altro, al modello epicureo e a quello filantropico dello stoicismo; alla fraternità di Francesco d’Assisi e delle confraternite medioevali; al pensiero erasmiano e a quello di Campanella fino ai socialisti utopistici e al comunitarismo. C’è, dunque, ancora tanta strada da percorrere per psicologi, pedagogisti, educatori e operatori culturali, affinché «un’amicizia si faccia politica».