“Marina Abramovic The cleaner”, la mostra a Palazzo Strozzi

Ha cambiato per sempre il concetto di performance, contribuendo a creare un forte legame tra artista e pubblico: Marina Abramovic è la protagonista della più grande retrospettiva italiana a lei dedicata presso Palazzo Strozzi di Firenze, “Marina Abramović. The Cleaner”.

La mostra ripercorre le tappe più importanti dell’esperienza dell’artista serba, riunendo oltre 100 opere dagli anni Settanta agli anni Duemila, tra cui fotografie, installazioni, oggetti, dipinti e mettendo in scena la riesecuzione di sue celebri performance da parte di un selezionassimo gruppo di performer istruiti appositamente per l’evento.

Attraverso questa esposizione, si ha la fortuna di camminare lungo il sentiero della sua vita artistica, dalle prime esecuzioni sottopagate nel periodo in cui la performance art non era ancora riconosciuta e anzi veniva giudicata con sufficienza e a tratti derisa, quasi fosse un ramo dell’arte inventato ed inutile, fino alle ultime apparizioni in “The artist is present” del 2010. Al MOMA di New York (Museum of Modern Art), Marina Abramovic starà seduta su una sedia al centro di una sala, immobile e in silenzio, senza poter mangiare, bere, fare pipì per più di settecento ore nell’arco di tre mesi, 8 ore tutti i giorni e 10 di venerdi. Siederanno di fronte a lei milleseicentosettantacinque persone, con cui manterrà il contatto visivo per tutto il tempo che vogliono, persone che rideranno o piangeranno o le daranno le spalle carichi di dubbi e domande; l’intento è quello di dare un valore alla comunicazione energetica e spirituale che si instaura tra artista e pubblico, elemento  fondamentale nella ricerca della Abramovic. Alla fine di questa esperienza l’artista si dichiarerà molto provata, di una stanchezza fisica e mentale mai sentita, cambiata nei gusti e nelle scelte della vita quotidiana.


"The Artist is Present" - Marina Abramovic MoMA - New York Photograph by MARCO ANELLI © 2010
“The Artist is Present” – Marina Abramovic
MoMA – New York
Photograph by MARCO ANELLI © 2010


Ad accoglierci nel cortile di Palazzo Strozzi, il furgone Citroën, ex cellulare della polizia, che sarà il mezzo d’unione tra Marina Abramovic e l’artista tedesco Ulay, alcova di una vita nomade passata viaggiando incessantemente per tre anni in Europa, tra una performance e l’altra. Vita e Arte si uniranno nel manifesto unitario “Art Vital“:

Nessuna dimora stabile
Movimento permanente
Contatto diretto
Relazione locale
Autoselezione
Superare i limiti
Correre i rischi
Energia mobile
Nessuna prova
Nessun finale prestabilito
Nessuna replica
Vulnerabilità estesa
Esposizione al caso
Reazioni primarie

1975, performance, Studio Morra Napoli
1975, performance, Studio Morra Napoli


Nel 1974 Marina Abramovic si trova in Italia, allo Studio Morra di Napoli con la sua performance più estrema, Rhythm 0.
L’artista mette a disposizione del pubblico, su un tavolo, settantadue oggetti utilizzabili a loro piacimento tra cui: un martello, una sega, una piuma, una mela, del pane, una forchetta, un’accetta, una rosa, un paio di forbici, degli aghi, una penna, del miele, un coltellino, uno specchio, del vino, degli spilli, un rossetto, un boa di struzzo, una torta, una frusta, delle catene, del cotone, una macchina Polaroid, un libro, una pistola e un proiettile. Per sei ore si assisterà a quella che chiamiamo la “nascita nel peccato“. L’uomo è un essere crudele, la Abramovic verrà ferita, umiliata, le taglieranno i vestiti, le verrà puntata una pistola alla gola, carica…e solo una piccola parte di pubblico la salverà, contribuendo alla realizzazione del suo lavoro:

In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti. […] Quello che era successo, molto semplicemente, era la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e il performer realizzano l’opera insieme.”


18.3b
La performer Marina Abramovic


Nello stesso anno, alla Galleria Diagramma di Milano, Marina presenta un’altra opera scioccante, Rhythm 4:

Ero nuda e sola in una grande stanza, accovacciata sopra un potente ventilatore industriale. Mentre una videocamera trasmetteva la mia immagine al pubblico nella stanza di fianco, spingevo la faccia contro il vortice che usciva dal ventilatore, cercando di inspirare nei polmoni più aria possibile. Nel giro di un paio di minuti, l’impetuoso flusso d’aria all’interno del mio corpo mi fece svenire. […] la cosa più importante era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima.


14.2
Marina Abramović Balkan Baroque 1997


Marina Abramović Balkan Baroque 1997


La consacrazione internazionale avviene nel ’97, con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia Marina Abramovic è chiamata a rappresentare ufficialmente la Serbia e il Montenegro alla Biennale, ma il progetto si interrompe bruscamente a causa del soggetto sensibile trattato dall’artista. Invitata da Germano Celant allestisce la ritualità sacrificale di Balkan Baroque in un sottoscala del Padiglione Centrale ai Giardini, scioccando pubblico e critica:

“ero seduta sul pavimento […], su una catasta di ossa di vacca: sotto ce n’erano cinquecento pulite, sopra duemila sanguinolente, con attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfregavo le ossa sanguinolente fino a farle diventare pulite, mentre su due schermi alle mie spalle venivano proiettate – a intermittenza e senza sonoro – immagini delle interviste a mio padre e a mia madre: Danica che ripiegava le mani sul cuore e poi si copriva gli occhi, Vojin che brandiva la sua pistola. In quel locale senza aria condizionata, nell’umida estate veneziana, leossa sanguinolente marcirono e si riempirono di vermi, ma io continuavo a strofinarle: il lezzo era tremendo, come quello di cadaveri sul campo di battaglia. I visitatori entravano in fila e osservavano, disgustati dalla puzza ma ipnotizzati dallo spettacolo. Mentre pulivo le ossa, piangevo e cantavo canzoni popolari jugoslave della mia infanzia. Su un terzo schermo passava un video in cui io, vestita da tipico scienziato slavo – occhiali, camice bianco, grosse scarpe di cuoio – raccontavo la storia del ratto-lupo […]. Per me quello era il barocco balcanico.”


9.1
Ulay/Marina Abramović Imponderabilia 1977



Per natura effimera, la Performance Art per essere conservata necessita di documentazioni d’archivio. Al fine di far rivivere le proprie opere, Marina Abramovic, dagli anni Duemila, usa la “reperformance”, un metodo di lavoro in cui si ripropone la stessa ma con performer diversi e pubblico diverso. “The cleaner” a Palazzo Strozzi, propone un calendario fitto ricco di sollecitazioni in cui poter partecipare all’opera, come per “Imponderabilia”, performance realizzata la prima volta nel 1977 presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, dove Marina Abramović e Ulay trascorsero novanta minuti in piedi uno di fronte all’altro, immobili e nudi in uno stretto passaggio d’ingresso, costringendo i visitatori che volevano entrare nel museo a passare in mezzo a loro. La performance doveva durare sei ore, ma fu interrotta dalla polizia. Per fortuna oggi a Palazzo Strozzi, nella prima sala del Piano Nobile, questo non succede, ma il visitatore può scegliere anche il passaggio laterale, evitando purtroppo il coinvolgimento emotivo e spirituale dell’opera stessa.

Marina-Abramovic-The-Lovers-The-Great-Wall-Walk-1
Marina Abramovic attraverso la lunga Muraglia cinese – The lovers”


 

Marina e Ulay vivono e lavorano in simbiosi, fino all’ultima loro performance insieme: “The Lovers” del 1988, 90 giorni di cammino per tutta la lunghezza della Grande Muraglia cinese, una partendo dal dal lato orientale della muraglia a Shan Hai Guan, e l’altro camminando dal lato occidentale, a Jai Yu Guan, per poi incontrarsi e firmare il loro “addio pubblico”.


Avevamo concepito l’idea romantica di percorrere a piedi la Grande Muraglia cinese otto anni prima, nell’outback australiano, sotto la luna piena. L’idea aveva preso prepotentemente forma nella nostra immaginazione condivisa. Allora pensavamo che la Muraglia fosse una struttura continua e ancora integra, e che non avremmo incontrato problemi; la sera ci saremmo accampati lì sopra. E dopo essere partiti dalle estremità (la testa a Oriente, la coda a Occidente) ed esserci incontrati a metà, ci saremmo sposati. Per anni, il titolo provvisorio di questa nostra opera era stato The Lovers. Adesso amanti non eravamo più. […]. Ma non per questo volevamo rinunciare alla nostra marcia. Invece di camminare da soli, ciascuno sarebbe stato accompagnato da un drappello di guardie e da una guida-interprete. […] Quanto alla Grande Muraglia, la colossale struttura a forma di drago visibile dallo spazio era in gran parte in rovina, soprattutto a Ovest, dove lunghi tratti erano scomparsi sotto le sabbie del deserto. Ma anche a Est, dove attraversava una serie di catene montuose, gli inverni e il passare del tempo avevano portato a termine la loro opera di distruzione: in molti punti, la Muraglia era solo un mucchio di sassi pericolanti. E la nostra motivazione iniziale non c’era più. Noi non c’eravamo più. […] Camminare una verso l’altro aveva un certo impatto… era quasi la storia epica di due amanti che si incontravano dopo tante sofferenze. Poi questo aspetto è scomparso. Mi sono confrontata solo con me e la nuda Muraglia. [..] Sono molto contenta che abbiamo comunque deciso di realizzare questo lavoro, perché avevamo bisogno di una qualche conclusione. E questa è rappresentata da tutta la strada che facciamo camminando l’una verso l’altro, e non per incontrarci gioiosamente, ma solo per pronunciare la parola “fine”. È una cosa molto umana, in un certo senso. Ed è molto più drammatica della semplice storia dei due amanti. […] Ero affascinata dal rapporto tra la Grande Muraglia e le ley lines, le linee di energie della terra. Al tempo stesso mi rendevo conto di come cambiava la mia energia a seconda dei diversi tipi di terreno. A volte camminavo su argilla, a volte su ferro, quarzo o rame. Volevo cogliere le connessioni tra l’energia umana e quella della terra. In ogni posto in cui mi fermavo, chiedevo sempre di incontrare le persone più anziane. Alcune avevano centocinque, centodieci anni. Quando chiedevo loro di parlarmi della Grande Muraglia, mi raccontavano sempre di draghi: un drago nero che lottava contro un drago verde. Mi resi conto che quei racconti epici si riferivano puntualmente alla conformazione del terreno: il drago nero era il ferro, il drago verde era il rame. [..] Alla fine ci incontrammo il 27 giugno 1988, tre mesi dopo avere iniziato, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi. Solo che il nostro incontro non fu quello che avevamo immaginato. Invece di vedere Ulay venirmi incontro dalla direzione opposta, lo trovai ad aspettarmi in un punto altamente scenografico, tra un tempio confuciano e uno taoista. Era lì da tre giorni. Si era raccolta una piccola folla ad assistere al nostro incontro. Io scoppiai a piangere, e lui mi abbracciò. Un abbraccio da compagno, non da amante, privo di qualunque calore”.


La mostra è visitabile fino al 20 gennaio 2019 e, oltre alle video-installazioni esposte, propone delle opere in cui il pubblico diviene protagonista, come l’attualissimo “COUNTING THE RICE” in cui a ciascun partecipante viene dato un foglio di carta e una matita. Davanti a sé trova mucchi di riso che deve prendere, contare e annotare. In questo modo Marina Abramovic ci da’ l’opportunità di riflettere sul tempo, sull’importanza dello spazio, sperimentandolo con un gesto semplice e con oggetti di uso quotidiano.

(in copertina Marina Abramović The Onion 1995, video, 20’03”. Amsterdam)