I migliori Musei di Vienna

I MIGLIORI MUSEI DI VIENNA – PARTE 1 DI 2

Kaiserappartements – Hofburg


Appartamenti Imperiali – Museo di Sissi

Punto vitale da cui tutto trae origine, la Hofburg, residenza imperiale d’inverno dove la Principessa Sissi, creatura solitaria imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, scriveva i suoi diari segreti volteggiando tra le duemilaseicento stanze, dedalo di corridoi e scaloni, foreste di stucchi e decorazioni, oggi diventa museo.


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Aperte al pubblico, le stanze private di Francesco Giuseppe, più semplici e pratiche rispetto alle lussureggianti di Elisabetta che includono la stanza da bagno con la vasca in cui si immergeva una volta al giorno, e la palestra simbolo di una perfezione ossessiva per il corpo, che la vedeva seguire strambe diete scrupolosamente, come il regime a base di sola carne, per poi passare a bere solo dei grandi bicchieri di sangue di bue, che rifiuterà per una dieta a base di uova e frutta, finendo col nutrirsi di soli latticini; sarà vegana per capriccio e frugale fino all’astinenza.


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Sissi cercherà di allontanare la sua natura malinconica con l’iperattività fisica, estenuandosi ogni mattina con esercizi fisici e attrezzi ginnici, mai contenta di sé arriverà ad un girovita di 50 cm, stretta in corsetti che esposti al museo sembrano destinati più ad una bambola che ad una dama.


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Ritratti e fotografie, la fotografia, altra forma d’arte a cui l’imperatrice si era appassionata per narcisismo, numerose le lettere scritte di suo pugno, intingendo il pennino in inchiostro viola, l’unico che utilizzava, all’interno di un calamaio d’oro.


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Perle del museo, i preziosi accessori da bagno che portava con sé durante i suoi viaggi, pettini per l’ossessione che aveva per i lunghi capelli, la farmacia da viaggio con i portapasticche in argento, oltre a guanti, abiti, ventagli e ombrellini che frapponeva fra sé e gli altri, per nascondere lo sguardo. Da far girare la testa a Csaba, esperta di galateo, la tavola imbandita come all’epoca di Francesco Giuseppe, pranzi i cui invitati erano militari, aristocratici, uomini d’affari e politici, che avevano il permesso di sedersi solo quando l’imperatore avrebbe preso posto; un lacchè ogni due commensali, ciascuno dei quali aveva una bottiglia personale di acqua e di vino, posateria d’argento rovesciata e cinque bicchieri di cristallo.


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Spettacolare la ricostruzione dell’abito che Elisabetta indossava quando fu incoronata regina d’Ungheria, i gioielli da lutto e il mantello nero con cui l’imperatrice fu coperta dopo l’attentato.

Oltre 300 oggetti personali, puerilità estetiche di una natura malinconica che cerca di stordirsi dopo una vita di fatti accidentati, come la morte del primo amore, della prima figlia e i numerosi tradimenti del marito. Una condotta nichilista cui la più grande insolenza era la sua bellezza, fatta di una tristezza che aveva qualcosa di voluttuoso, di fatale, come l’apparizione della morte che ha conferito alla favola, un sapore amaro ma leggendario.

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Castello  Belvedere


Sorvegliato dalle maestose sfingi che circondano il giardino alla francese, queste creature mitologiche dal corpo di leone, la testa di donna e un florido seno, dall’espressione interrogatoria e severa che incute rispetto e una sorta di timore, oggi attorniate da rumorosi bambini ignari della storia che stanno toccando senza attenzione, si apre la vista al Castello del Belvedere, il più bel complesso barocco d’Austria.


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Un tempo residenza estiva del Principe Eugenio di Savoia, il complesso è formato da due palazzi, Il Belvedere Superiore dove poter contemplare la più grande collezione al mondo di dipinti di Gustav Klimt, ventotto in tutto, e vari capolavori di Schiele, Manet, Renoir, Monet, Cezanne, Pisarro etc; e il Belvedere Inferiore con le stanze più rappresentative del barocco, la Galleria di Marmo, il Salone degli Specchi, la Sala dei Grotteschi.


L’Orangery, vicino al Belvedere Inferiore utilizzato in passato come serra, oggi ospita le esposizioni temporali del Museo Belvedere.


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L’elegante signora in nero dipinta da Klimt nel 1893 ci accoglie con un guanto sì e uno lasciato chissà dove, a scoprire i brillanti gioielli che indossa su polso e dita, così perfettamente rappresentati dal pittore, lucenti e scintillanti come oro colpito dalla luce diretta del sole.


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Sfidante, invece, la diabolica Giuditta, dipinto del 1901 che sente l’influenza del viaggio in Italia dove Klimt aveva visionato dei mosaici bizantini dell’ultima capitale dell’Impero romano d’Occidente. Quindi oro, tanto oro che rende regale e inavvicinabile la figura della femme fatale, quella che seduce, ammalia e uccide. Giuditta mostra il seno con orgoglio e provocazione, tenendo con le sottili dita la testa di Oloferne visibile solo per metà; è una figura che invade, ingloba, mangia, e divora tutto quello che le sta intorno, così come si prende tutto lo spazio del quadro; è la donna destinata a portare sofferenza dopo aver regalato, la donna che si fa giustizia da sola, quell’essere misterioso, dominatore e magnetico.


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Dal formato perfettamente quadrato (180×180), il famoso “Bacio” (1907/08) che si fatica a vedere da vicino per la stessa furia di gente che si trova nella stanza della Gioconda.
Gli opposti che si attraggono fatti ad arte, un uomo e una donna, diversi per natura, lui indossa una veste fatta di elementi spigolosi e geometrici, dalle mani nodose come quelle degli schizzi di Schiele, la foia di prendere e avvolgere il viso di lei tra le mani, i colori scuri dell’abito e dei capelli – e l’opposto candido e diafano della pelle della donna, la chioma fulva, l’espressione di abbandono, la bocca ancora chiusa ma il corpo già vicino, caldo come l’oro che li fascia, piccoli fiorellini tra i capelli, i colori delicati del vestito, dalle forme circolari e morbide, spiraliformi. Questo capolavoro klimtiano ci racconta il momento di empatia amorosa tra l’uomo e la donna, stretti in un forte abbraccio, perché è più di un abbraccio che si parla, il bacio non è ricambiato ancora, non lo vediamo, ma percepiamo il “sì” della fanciulla che tocca la mano dell’uomo e che, con le palpebre ancora serrate, gli sta destinando la sua fiducia e il suo abbandono.


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Se vogliamo scoprire come viene visto l’italiano all’estero, non servono i film hollywoodiani, basta sbirciare nel passato, nel 1829 quando Carl Blechen, pittore tedesco, dipingeva “Pomeriggio a Capri“: un baldanzoso giovane dai piedi scalzi e con il berretto alla Pulcinella, corteggia una donna di fronte al mare, sarà un amore estivo e passeggero? Ah, non manca nemmeno il mandolino!


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Tutte le stazioni del mondo ci raccontano scene sempre interessanti, ma sono quasi sicura che quella ritratta da Karl Karger nel 1875 ha dell’affascinante. E’ la stazione di Vienna, nel periodo in cui la moda esige per le donne che i volumi si spostino nel retro dei vestiti, gli strascichi abbondano e sono ricchi e pomposi, il cappello è sempre meno elaborato, ma rimane indispensabile per le uscite fuori casa. E’ una scena di “arrivi”, qualcuno si dirige verso l’uscita mentre un venditore lo ferma per proporre della merce, una coppia si bacia appassionatamente dopo un lungo distacco, i macchinisti del treno controllano la sua meccanica, un elegante signore con cilindro e bastone e con signora a braccetto, è ancora in attesa del suo ospite. E’ una fotografia che ci parla di moda, di storia, di costumi e di arte.


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(foto Miriam De Nicolo’)