Sei motivi per i quali gli uomini preferiscono le donne dell’Est: Rai 1 e la lista sessista a Parliamone Sabato

1) Sono tutte mamme, ma dopo aver partorito recuperano un fisico marmoreo;
2) Sono sempre sexy, niente tute né pigiamoni;
3) Perdonano il tradimento;
4) Sono disposte a far comandare l’uomo;
5) Sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa;
6) non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio.

Cita la lista mandata in onda su Rai 1 durante la trasmissione Parliamone Sabato di Paola Perego, rubrica di La Vita In Diretta.
Sei sono i motivi per i quali gli uomini preferirebbero una donna dell’Est a una donna italiana, motivi che sembrerebbero molto lontani dagli ideali, dalla partecipazione, dai propositi sanciti in questo 8 Marzo, giorno della festa della donna e della sua emancipazione.

La lista è stata commentata in trasmissione da Paola Perego, l’ex Miss Italia Manila Nazzaro, il direttore di Novella 200 Roberto Alessi, Marta Flavi e l’attore Fabio Testi attraverso alcuni esempi di “scelta del miglior partito” come quella del presidente USA Donald Trump che avrebbe optato per ben due volte per una donna dell’Est come sua consorte.
Il lungo elenco, criticato dalla rete incredula, marcia con passi profondi sul sessismo e sul razzismo e si inserisce nel dibattito che vede ancora le donne sottoposte a giudizio, critica, inciviltà.
Ancora stereotipate, sottomesse, sempre più soggette a un mondo che vuole esse siano in perfetta forma dopo il travaglio del parto, affascinanti e sexy, formose, vestite di nulla, vestite di una femminilità imposta e mai davvero del tutto desiderata.
Fanciullesche ma madri, fragili ma forti, intraprendenti ma accoglienti, spensierate e tradite, casalinghe e sempre al passo con gli ultimi nuovissimi utensili da cucina, sorridenti, sensibili, inferiori.
La lista di ciò che una donna dovrebbe essere non ha numero, non è quel sei, non è quella gerarchia, è l’infinito flusso totalitarista di una società patriarcale, goliardica e sempre più orientata al consumo. E il consumo non è solo utilizzo e sfruttamento di beni ma anche di individui.

Polemiche sul web, la notizia ha viaggiato alla velocità della luce.
La quiete dopo la tempesta: il direttore Andrea Fabiano di Rai 1 ha chiesto scusa pubblicamente attraverso il tweet: “Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito a #Parliamonesabato“.
Ha commentato, poi, la presidente Rai Monica Maggioni: “Non ho visto la puntata, lo sto scoprendo dai siti. Quello che vedo è una rappresentazione surreale dell’Italia del 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile. Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna. Mi scuso“.

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Kurt Cobain, l’uomo che amava le donne (e le loro idee)

Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, avrebbe compiuto oggi 50 anni.
Il rumore assordante che gli si era creato attorno non era più sopportabile.
Kurt Cobain non era quella maledetta rockstar in rivolta col mondo, non era estetismo il suo malessere, non era neppure desiderio di conoscenza mediatica, era dolore.
Soffriva terribilmente di ulcera, dolore che placava con l’eroina.
Così, il mistero, l’insoddisfazione, l’immagine alla quale non poteva assomigliare, finirono per decidere la sua sorte.

Era il periodo di una Terza Ondata femminista, delle Hole, di Courtney Love, del Girl Power.
Erano gli anni ’90, le droghe, la musica.
Si toccavano temi importanti, caldi, temi scomodi come quello dello stupro, dell’aborto, della misoginia.
Basti pensare all’ultimo album dei Nirvana, In Utero, e al testo di Rape Me che cita così:
Rape me, rape me my friend
Rape me, rape me again
I’m not the only one
“.
Cobain compose Rape Me con una chitarra acustica a Oakwood nel 1991 mentre mixava l’album Nevermind, il singolo doveva essere una commistione di accordi tra Smells Like Teen Spirit e Polly.
Il 9 settembre del 1992, i Nirvana decisero di portare Rape Me agli MTV Video Music Awards dato che avrebbero potuto suonare qualsiasi cosa, così come MTV aveva detto loro, ma così non fu.
MTV decise che i Nirvana avrebbero dovuto suonare Smells Like Teen Spirit, così Kurt Cobain pensò di non esibirsi più.
Per non ledere altri artisti legati alla loro etichetta discografica, i Nirvana salirono sul paco con Lithium ma, mentre s’accingevano a suonare, iniziarono a intonare Rape Me.
Causato il panico “per dare [ad MTV] un piccolo sobbalzo al cuore”, continuarono con Lithium.
Il tema dello stupro era già stato toccato con Polly nella quale si dava voce allo stupratore a differenza di Rape me, canzone nella quale ad avere voce è la vittima.
Rape Me è un inno alla vita, è un inno a non cedere alla violenza, a non farsi abbattere dai soprusi bensì a combatterli.
Cobain confidò alla rivista Spain che il significato del singolo ruotava attorno a un concetto come questo:” Violentami, va’ avanti, violentami, picchiami. Non mi ucciderai mai. Sopravviverò e sarò io a violentare te uno di questi giorni, e tu nemmeno lo saprai“.

Sempre vicino a idee e movimenti femministi, si è più volte dichiarato favorevole a mantenere l’aborto tra le pratiche lecite, evidenziando la frustrazione che provano molte giovani donne nel dover dare alla luce un figlio sapendo di non potere (o volere) prendersene cura.
Scriveva così nei suoi diari:” La realtà di chi cerca di abortire in questo paese è veramente pietosa in questo momento per colpa di Randall Terry e della sua gestapo antiabortista che si raduna nelle chiese avvolta nella miglior mimetica possibile (in poliestere da classe medio bassa venduta nelle telepromozioni del canale di acquisti per la casa). Nella casa di Dio, la Operation Rescue (la graziosa associazione no profit di Terry) escogita nuove idee per far fronte alla propria missione divina di personcine timorate di Dio. Entrano illegalmente nelle cliniche dove si fanno aborti durante le ore d’ufficio, facendo finta di essere dei clienti e fanno scoppiare delle bombe che rilasciano un gas che penetra, rovinandolo, in ogni singolo strumento all’interno della clinica. Mettono chiodi nei parcheggi di impiegati e medici. Fanno di continuo telefonate minatorie. Stanno fuori dalle cliniche tutto il giorno con dei cartelli e urlano frasi violente e minacciose sulla sapienza di Dio a chiunque si trovi entro un miglio di distanza, spesso bloccando fisicamente l’entrata alle clienti. Sì, queste persone hanno una storia di crimini alle spalle. Hanno l’abilità del cecchino e del terrorista. Sono molto più avanti del loro nemico in questo gioco. Rubano feti dai raccoglitori delle cliniche e si passano di casa in casa i feti mutilati per immagazzinarli nel congelatore dentro i sacchetti di plastica o in garage. I feti marci e in disfacimento vengono poi tirati addosso ai senatori i, parlamentari o qualunque rappresentante del governo che sia democratico. Queste persone, che altro non sono che terroristi, nutrono le stesse convinzioni dei White Suprematist, che pretendono come loro di agire e nutrire i propri ideali nel nome di Dio. Espongono nomi e numeri di telefono delle clienti che hanno preso appuntamento per abortire e dei medici che intendono eseguire l’intervento. Hanno una rete computerizzata di informazioni disponibili in tutti gli Stati Uniti. […]
Oggi nello Stato della Florida non ci sono medici che praticano aborti né cliniche dove essere ricoverati. […]
La loro logica è questa: meglio ammazzare esseri umani vivi e pensanti piuttosto che cellule in crescita prive di stimoli e incoscienti, rinchiuse in una tiepida cavità
“.

Magari Kurt Cobain è davvero il Jhon Lennon degli anni ’90, magari lo sarebbe stato.
Magari avrebbe toccato temi sempre più scomodi, avrebbe dato sostegno alle teorie e alle pratiche di genere, magari oggi avrebbe festeggiato 50 anni.

Buon compleanno, Kurt Cobain.

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Facebook Stories: storie fantastiche e come disattivarle

Così anche Facebook ha preso il volo, è la brutta fotocopia di Instagram?
App che crushano, fotocopie di stesse funzioni, continui aggiornamenti.
Sembra non ci siano novità in fatto di social, bensì continui giochi di copia-incolla, spesso troppo ripetitivi.
Impossibile dimenticare il traumatico passaggio da Snapchat a Instagram, da un giorno all’altro sembravano essere la stessa cosa.
Nella stessa maniera, a intraprendere la stessa strada è Facebook.
Dopo un simbolico riavvio, ha inglobato il sistema delle Storie.
Ma, in fin dei conti, cos’è una Storia?
Una Storia è un’espressione visuale di pezzi di vita, momenti, sensazioni, umori, video-racconti di una giornata tipo, di un tale viaggio, di un semplice esame da preparare, di canzoni stonate, gaffe, pause caffè.
Niente è soggetto a controllo prima d’essere postato perché, altrimenti, perderebbe di senso e di valore.
Si tratterebbe di libere associazioni, risvegli traumatici, foto compromettenti che non vedrebbero luce se non su una Storia della durata di 24 ore.
Infatti, trascorso il tempo di un giorno, queste si autodistruggono automaticamente.

In media, ogni giorno, ogni utente di Instagram posta 5-6 Storie tra immagini e video.
Differentemente, sul profilo vengono postate 2-3 immagini al giorno.
Il profilo diviene così la vetrina espositrice della propria identità, come vorremmo ci vedessero, come dovremmo apparire, come dovrebbero identificarci.
Ogni post, prima d’essere condiviso, prevede un lavoro di labor limae, di ritocco, affinché le nostre vite appaiano perfette, uniche, sensazionali, alternative, e quindi affinché l’io stesso sia il post.
In altre parole: se ti mostro una vita splendente, attiva, partecipante, sempre al passo coi tempi, penserai che io sia la mia vita, che mi appartenga, e quindi che io sia splendente, attivo, partecipante e sempre al passo coi tempi.
Nonostante, appunto, non siano le Storie ad identificarci ma a fare da cornice alla vita che si decide di mostrare, anche queste posseggono un minimo di capacità di ripresa.
Ovvero, non è importante che siano bellissime ma che ritraggano momenti bellissimi.

Perché, quindi, duplicare un prodotto, un sistema già esistente?
Forse perché vincente?
Quali tipi di Storie, allora, sono da pubblicare un un social e quali sull’altro?
Il quesito rimane irrisolto, almeno fino al prossimo aggiornamento.

Come, invece, disattivarle?
Per chi non ne potesse più di continui riavvii, di insolenti notifiche o di adattarsi a nuove grafiche, esistono soluzioni non del tutto efficienti ma possibili.
Ecco tre opzioni per non aver a che fare con Facebook Stories:

1. tornare a una vecchia versione di Facebook
2. installare Facebook Lite
3. utilizzare un’applicazione alternativa non autorizzata

Stay connected!

fonte foto: MobileWorld
fonte foto: MobileWorld

Caterina Balivo chiede scusa a Diletta Leotta, noi siamo ancora perplessi

Mica male il vestito della Leotta a Sanremo.
Esordirò così“, mi sono detta stamattina.

E non era mica male davvero.
Corpetto con scollo, gonna in vita lunghissima e principesca, spacco frontale: è proprio una limited edition di Alberta Ferretti.

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Diletta Leotta è scesa per le scale dell’Ariston con una convinzione e una forza che avrebbe potuto avere solo una donna fiera del proprio corpo e della propria persona.
Bella, anzi bellissima, raggiante, 26 anni, laurea in Giurisprudenza e conduzione su Sky, una carriera brillante, un fidanzato premuroso.
Ma la sua vita non è sempre stata così rosea, ha infatti subito una gravissima violazione della privacy.
Qualcuno fece circolare in rete alcune foto che la ritraevano in intimità, erano alla portata di tutti, sotto gli occhi tutti. Era stata privata della sua sfera personale, della sua vivacità e, perché no, della sua identità.
Mi colpì moltissimo, Diletta Leotta aveva subito una profonda umiliazione.
Volevo trattare la notizia, lo feci ma non fu piacevole.
Pochi giorni prima Tiziana Cantone si era uccisa a causa di un suo video erotico che qualcuno aveva “saggiamente” postato e che aveva decretato la fine della sua libertà.
Tutti, nessuno escluso, tutti noi siamo colpevoli della morte di Tiziana Cantone.
Lo scrivo tra queste righe, lo scrivo col cuore in mano, affinché nessuno di noi possa subire una violenza di questo tipo.
Quell’articolo (chi volesse leggerlo può cliccare qui) fu per me l’inizio di una battaglia contro la prepotenza e i soprusi che ancora oggi, nel 2017, subiamo.

Infatti, nuovamente, Diletta Leotta è vittima di abusi.
Mentre raccontava a Sanremo la sua triste esperienza, la conduttrice Caterina Balivo postava il tweet: “non puoi parlare della violazione della #privacy con quel vestito e con la mano che cerca di allargare lo spacco della gonna“.
A difenderla Maria De Filippi, quest’anno co-conduttrice accanto a Carlo Conti: “Nel 2017 mi vesto come mi pare. Concentrarsi sull’abito e non sul suo messaggio è come dire che è giusto che ti violentino perché hai la minigonna. Non diamo spazio a queste polemiche: è come tornare indietro nel tempo“.

E mentre la rete si scagliava contro il sessismo della Balivo, un secondo tweet di scuse sembrava circolare alla velocità della luce.

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La Balivo ha risolto così una disputa che ha fatto molto discutere, una disputa che possiede profonde radici storiche e che non trova ragione, ancora, nel 2017.
Invidia? Rancore?
Nessuno conosce le ragioni che hanno spinto Caterina Balivo, conduttrice di DettoFatto, a un giudizio profondamente ingiusto e gratuito.
E, sopratutto, a un giudizio preoccupante, perché è davvero preoccupante che oggi una donna debba essere etichettata per come veste.
La rete, perplessa sulle affermazioni della Balivo, si chiede: “se Diletta Leotta ha meritato la violazione della privacy a causa del suo vestito, allora le donne che indossano minigonne meritano lo stupro?“.

5 motivi per cui: “San Valentino? No, grazie”

È tempo di guardarsi attorno, San Valentino è alle porte.
Già si notano cuoricini aleggianti nei locali, peluche di orsetti in formato extra large, montagne di cioccolato Perugina in tutti i luoghi e in tutti laghi.
Insomma, la festa degli innamorati non potrebbe avere esito migliore se non quello di regalarsi oggettistica di vario genere da conservare e tenere in ricordo dell’amata/amato.

Ho collezionato di tutto in questi anni: da frasi fatte a portachiavi a forma di cuore, molti peluche dal dubbio gusto (sì, ho l’impressione di averne anche due uguali, ho il doppione. Qualcuno vuole provare uno scambio?), portapenne in alluminio con angioletti in stampa 3D, cuscini a cuoricino con logo nazionale: “TI AMO“.
D’altro canto non posso negare di aver sempre desiderato, come la maggior parte delle mie amiche, di ricevere un pensierino o un biglietto durante la festa dell’Amore.
Così, mentre spensierata mi facevo risucchiare da un sistema consumistico che vende a caro prezzo il sentimento, un giorno, non ricordo né dove né quando, ho ceduto alla domanda: “cos’è l’amore?“.
Potrebbe sembrare cinico e stonare un po’ con l’incanto di pellicole attuali tipo La La Land, ma la risposta che riuscii a darmi non fu soddisfacente.

Non sapevo declinare, in nessun modo, il sostantivo Amore.
Senza ulteriori aspettative, decisi di ricorrere all’etimo della parola Amore così come mi avevano insegnato al Liceo.
Quando non conosci il significato di una parola, raggiungilo scomponendola e traducendola secondo la sua origine“, diceva la mia prof. di Latino e Greco.
Così feci.
Amore = Ab Mortis, è la forza che tiene lontani dalla morte.
Pensai fosse la cosa più bella che avessi mai potuto imparare.
Restava ancora soltanto qualche quesito incompleto: perché festeggiarlo solo a San Valentino? Perché ricoprirsi di millemila oggetti tutti uguali senza alcuna connessione emotiva? Perché essere paragonata a mille altri amori? Dov’era la nostra unicità, il nostro compromesso?.

Ecco 5 motivi per i quali oggi mi sento di dire: “San Valentino? No, grazie“:

1) San Valentino diviene luogo di competizione alla domanda: “che ti ha regalato?“.
“Ricevere un regalo costoso” non è sinonimo di “essere tanto amati”.

2) San Valentino diviene una scommessa: “quanto bene stiamo insieme?“.
È una domanda che non sempre ha esiti positivi, sicuri di volerlo sapere così?

3) San Valentino mette ansia. Basti pensare allo stress per organizzare nei tempi stabiliti qualcosa di romantico e assolutamente speciale.

4) San Valentino mette a disagio. Se ti lamenti e sei fidanzata, allora sei in crisi. Se ti lamenti e sei single, sei acida.

5) San Valentino è noioso: cenetta fuori, mazzi di rose, cioccolatini, gita in mountain bike, scalata delle montagne, conquista dell’America, concertone del primo maggio anticipato, giro del mondo in 80 giorni.
Ah, sicuri che poi avete anche voglia di fare l’amore?

Perché gli studenti italiani hanno smesso di credere nei propri studi?

Ahi, serva Italia, direbbe Dante.

Intenso è il dibattito che divide l’Italia in questi ultimi giorni e che vede la crisi delle istituzioni scolastiche e del loro insegnamento.
È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana“, scrivono 600 docenti universitari in una lettera al Presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità.
A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi. Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti. Dobbiamo dunque porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti“.

In sostegno di ciò, ecco le proposte d’intervento dei docenti universitari:
– una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base
– l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano
– l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico

Perché, però, gli studenti italiani hanno smesso di credere nei propri studi?

La risposta risiede in una mancata partecipazione emotiva che dovrebbe essere alimentata dai docenti italiani durante il periodo adolescenziale.
L’istituzione scolastica, sempre più in crisi, non riesce a comunicare se non con rigide soluzioni accademiche che spingono i nuovi studenti a non credere nei propri obiettivi e a rifugiarsi, invece, in un’accettazione apparente di sé data da piattaforme sociali sul web.
Il non-riconoscersi non può essere più colmato attraverso l’intervento diretto della cultura ormai relegato a statici modelli accademici, trova spazio così nei momenti d’aggregazione sempre più virtuali.
Basti pensare a quanti dibattiti avvengano ogni giorno in un gruppo Whatsapp con il solo intermediario dell’apparecchio telefonico, a quante riflessioni condivise sul proprio profilo Facebook con il solo intento di suscitare un confronto e non sentirsi mai soli e lontani rispetto al sistema dei like, delle views, delle condivisioni.
Interessante è ancora il livello di interazione con l’altro.
Gli studenti italiani non hanno smesso di voler raccontare di sé, che sia a un milione di follower su Youtube (basti vedere il caso di Sofia Viscardi) o attraverso delle immagini postate su Instagram.
Perché hanno smesso, però, di raccontarsi in un tema durante le ore di Italiano?
Perché hanno smesso di costruire la propria identità attraverso gli studi che hanno deciso di intraprendere?
Non è forse un rifiuto nei confronti di un sistema che non incentiva i loro sogni, le loro capacità e le loro speranze?
Ecco cosa manca loro nell’era della solitudine social, ecco cosa manca loro durante le ore scolastiche: l’ascolto.
Una canzone diceva: “i professori non chiedevano mai se eravamo felici“.

Le 5 paia di scarpe luxury più costose di sempre

Il primo amore di una donna non è un uomo.
Il primo amore di una donna è un paio di scarpe.

Eppure se superano il prezzo totale che le nostre tasche possano permettersi, è difficile continuare a parlare di soltanto “scarpe“. Ci verrebbe, infatti, più semplice iniziare a parlare di vere e proprie opere d’arte.
Intoccabili, bellissime e quasi non indossabili.
Di seguito una Top 5 delle scarpe più costose di sempre.

1. Diamond Sneakers

Attualmente le più costose in commercio, queste sneakers in pelle bianca posseggono diamanti da 11,5 carati incastonati in pezzi d’oro 18 carati.
Prodotte dall’azienda Buscemi, queste scarpe sono acquistabili solo a New York, nello store Buscemi che si trova al 47 di Wooster Street, a Soho.
Il loro prezzo è di 132mila dollari, circa 118mila euro, e occorrono 20 ore di lavoro per fabbricarle.
Allo stesso prezzo è possibile acquistare un’automobile Tesla Model X, 203 iPhone 7 da 32GB, 33.082 Big Mac e 1 milione e 460mila followers su Instagram, ci avete pensato?

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2. Borgezie Stiletto

Questi stiletti abbondano non solo sul prezzo ma anche sulla garanzia che prevede ben 1000 anni. Se le acquistate, sappiate conservarle per una prossima generazione.
Prodotte dal brand Borgezie e dal designer di gioielli Christopher Michael Shellis, sono realizzate in oro puro e arricchite da oltre 2.200 diamanti.
Il loro prezzo è di 216.000 dollari.

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3. Diamond Dream Stiletto

Realizzate da Stuart Weitzman e Kwiat con diamanti di oltre 30 carati e circa 1.420 pezzi scintillanti, calzano il piede incorniciandolo con fascetta anteriore e cinturino alla caviglia.
Il loro prezzo è di 500.000 dollari.

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4. Tanzanite Heels

Anche queste realizzate da Stuart Weitzman: posseggono 385 gemme.
185 carati di Tanzanite per adornare il cinturino e 28 carati di diamanti sulla cinghia anteriore.
Il loro prezzo è di 2 milioni dollari.

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5. Rita Hayworth Heels

Avete mai sentito parlare dell’attrice Rita Hayworth? Queste scarpe s’ispirano ai suoi orecchini.
Come non notare l’accostamento di rubini, zaffiri e diamanti?
Sua figlia, Yasim Aga Khan, ne possiede un paio.
Il loro prezzo è di 3 milioni di dollari.

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SPLIT, ventriquattro personalità e un solo volto

Vi siete mai chiesti: chi sono?

Split è una continua domanda, sempre la stessa, sempre più incessante: chi sono?
Un uomo può spingersi oltre il proprio potere, la propria potenzialità, oltre il proprio valore e la propria forza fisica?
Se possiede 23 personalità, sì.

La storia di Kevin Wendell Crumb s’ispira alla vera storia del criminale americano Billy Milligan, descritta a pieni voti (con qualche accenno fantastico) dal regista di Split M. Night Shyamalan.
Kevin è così frammentato in 23 personalità differenti, anzi 23 + 1.
L’ultima personalità sarà svelata nell’arco dell’ultima mezz’ora di proiezione e vedrà il compimento a termine di un lato oscuro venuto a galla a causa di un precedente trauma infantile.

Uno, nessuno e ventiquattro direbbe Pirandello.
Ma chi è l’Uno?
La vera identità del protagonista non vedrà mai la luce se non nelle ultime scene quando, in un momento di lucidità dato dal pronunciare il suo vero nome per intero, sembri comprendere il dolore e la sofferenza provocata.
E alla domanda: “chi è stato?”, la risposta: “tu” rivelatrice e premonitrice di ulteriori sofferenze non lascerà spazio alla consapevolezza del suo vero Io.

Inquietante, adrenalinico e angosciante è il film che vuole scavare a fondo tra uno dei disturbi psichici in natura umana: il disturbo dissociativo d’identità.
Secondo il DSM, il DID implica “la presenza di due o più identità o stati di personalità separate che a loro volta prendono il controllo del comportamento del soggetto, accompagnato da un’incapacità di evocare i ricordi personali“.
Il tema, cioè la metafora di un’esistenza contradditoria di cui Split si fa portavoce, è indice di un prodotto consapevole in grado di smuovere le coscienze e rivoluzionare la propria storia nel mondo alla domanda: chi sono io?

Ma Split non è il primo prodotto di massa nel trattare il disturbo dissociativo d’identità, basti pensare a “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Robert Louis Stevenson (1886) o a “Fight Club” di Chuck Palahniuk (1996) in letteratura, o ancora a “Psyco” di Alfred Hitchcock (1960) e “Shutter Island” di Martin Scorsese (2010) nel cinema e all’album dei Genesis (1974) “The Lamb Lies Down on Broadway” o alla canzone dei Dream Theater (2002) “Six Degrees of Inner Turbulence” in musica.

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Frances Bean da Kurt Cobain e Courtney Love a Marc Jacobs: è la musa della SS ’17

“Ho incontrato Frances Bean per la prima volta quando aveva due anni. Correva l’anno 1994 e ci trovavamo al Bar Six di New York, dove stava cenando con la madre e Anna Sui. Ho sempre voluto lavorare con Frances. La sua bellezza, unicità e forza sono qualità che ho ammirato e rispettato a lungo. Poche cose rimangono costanti nella mia vita quanto la mia continua ammirazione nei confronti delle persone che grazie alla loro integrità, al loro coraggio e alla loro curiosità si sono trovati ad esplorare territori rimasti inesplorati spingendosi oltre i limiti convenzionali“, ha scritto Marc Jacobs sul suo account Instagram a proposito della sua nuova musa: Frances Bean.

Labbra pronunciate, sguardo profondo, ciocche sul viso.
Frances Bean possiede gli stessi tratti fisiognomici di suo padre, Kurt Cobain, appena conosciuto o, forse, mai conosciuto davvero.
Frances aveva solo 20 mesi quando il frontman dei Nirvana si tolse la vita nel 1994 ed è da allora, da quel punto di non ritorno, che s’è vista crescere senza un padre.
Kurt era arrivato al punto da sacrificare ogni piccola parte di sé a favore della sua arte perché era quello che il mondo gli chiedeva. Credo che questo sia stato uno dei fattori scatenanti. Sentiva di non voler essere qui e che tutti sarebbero stati più contenti senza di lui. Ma se avesse continuato a vivere io avrei avuto un padre. E penso che sarebbe stata un’esperienza incredibile per me“, ha spiegato in un’intervista a Virgin Radio.

Sulla figura emblematica e misteriosa di questa giovane donna di 24 anni insiste Marc Jacobs facendo di lei la promotrice e l’immagine della collezione Primavera/Estate ’17 scattata dal fotografo David Sims.
L’intensa malinconia e l’inquietudine sono le caratteristiche di una campagna turbolenta come il rapporto di Frances con sua madre Courtney e il ricordo dell’assenza della figura paterna.
E ancora in scena a vestire i panni di una generazione che rifiuta le proprie origini e non si riconosce in esse è la mancata partecipazione emotiva alla musica dei Nirvana, la band portavoce di quella generazione X che vide la luce negli anni del grunge.
Non mi sono mai piaciuti tantissimo i Nirvana. E mi dispiace per le persone che si occupano di promozione. Sono sempre stata più interessata ai Mercury Rev, Oasis, Brian Jonestown Massacre. Non sono mai stata molto attratta dalla scena grunge. Ma devo dire che Territorial Pissings è una bellissima canzone e Dumb mi fa piangere ogni volta che l’ascolto. E’ una versione di Kurt, del suo rapporto con le droghe e del sentirsi inadeguato nel dover essere il portavoce di una generazione“, ha rivelato la nuova musa di Marc Jacobs: Frances Bean.

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30 gennaio 1945: 5 cose da sapere sul diritto di voto concesso alle donne

30 GENNAIO: la data sembrerebbe a tutti familiare. Le donne ottengono il diritto di voto.
Disuguaglianza, impari opportunità, condizione, ruolo e immagine della donna erano solo alcuni dei temi trattati all’interno della trasformazione che avveniva a favore del suffragio femminile.
La lunga via che ha condotto all’uguaglianza giuridica e alla parità dei diritti è intensamente e intrinsecamente carica di avvenimenti storici che hanno favorito, attraverso dissenso e resistenza nei confronti delle politiche sociali, l’emancipazione femminile.

1. 1800: Uomini e donne sono diversi biologicamente

Uno dei motivi per i quali le donne non potevano accedere al voto si basava sulla differenza fisica tra uomo e donna. Le donna, considerata instabile a causa dei suoi cicli, era giudicata inaffidabile dal punto di vista dell’espressione della propria preferenza elettorale.
Nel 1864 Anna Maria Mozzoni, la più coerente sostenitrice del suffragio universale nell’800, pubblicò l’opera “La donna e i rapporti sociali” nella quale chiedeva di “protestare contro la sua attuale condizione, invocare una riforma e chiedere […]” che le fosse concesso “il diritto elettorale” se non anche la possibilità di essere eletta.
Nel 1890 in una conferenza a Bologna la Mozzoni espresse il suo pensiero sulla disuguaglianza, sui pari diritti e sulla subalternità della donna considerata ancora diversa, sia sul piano fisico che psicologico, dall’uomo: “siamo rientrate in noi stesse, abbiamo esaminato i nostri pregi ed i nostri difetti e ci siamo permesse di esaminarvi anche voi, spogli del diritto divino, che è scaduto affatto nella nostra opinione ed abbiamo trovato che la nostra ragione procede al par della vostra con la forma sillogistica; che i problemi che travagliano la vostra coscienza, sono gli stessi che turbano la nostra; che la libertà che voi amate, l’amiamo anche noi; che i mezzi coi quali voi conquistaste la vostra, furono indicati dagli stessi principii che debbono rivendicare la nostra“.

2. 1900: L’appoggio clericale di Don Luigi Sturzo

Don Luigi Sturzo nel 1919, fondatore del Partito Popolare, si schierava contro Papa Pio X che nel 1905 affermava: “non elettrici, non deputatesse, perché è ancora troppa la confusione che fanno gli uomini in Parlamento. La donna non deve votare ma votarsi ad un’alta idealità di bene umano […]. Dio ci guardi dal femminismo politico”.

3. 1945: Il primo passo verso il diritto di voto alle donne

Il 30 gennaio del 1945, governo Bonomi, si discusse della concessione di diritto di voto alle donne su proposta di Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana), concessione che vedeva ancora contrari i liberali, gli azionisti e i repubblicani. Il decreto legislativo che venne emanato prevedeva tre articoli: la concessione del diritto di voto alle donne, la compilazione delle liste elettorali femminili che, però, dovevano distinguersi da quelle maschili e l’esclusione delle prostitute dal diritto di voto se esercitanti la propria professione in luoghi non autorizzati.

4. 1946: Oltre ad eleggere, anche elette

Solo un anno più tardi, col decreto n. 74 datato 10 marzo 1946, le donne ebbero la possibilità di essere elette purché avessero almeno 25 anni.

5. 2 Giugno 1946: le prime elezioni politiche, o forse no

Le elezioni politiche del 2 giugno 1946 si svolsero a favore del Referendum istituzionale monarchia-repubblica.
Ma non furono le prime. Si tennero qualche mese prima, infatti, le amministrative comunali nelle quali si registrò un’affluenza superiore all’89 per cento. Vennero, inoltre, elette le prime due donne sindaco che la storia conosca: Ada Natali (Massa Fermana) e Ninetta Bartoli (Borutta).

Fendi, Moschino, Chanel & il Food Fashion, le borse da esibire quando non hai fame

Accedo al mio profilo Instagram.
Scorro la home come fosse pane quotidiano e, in qualche modo, lo è.
Quante volte ci siamo trovate ad avere una fame incontrollabile e a doverla ignorare a causa di immagini di cibi deliziosi?
Facendo un calcolo approssimativo risulta che quasi il 70% del nostro capitale sociale su Instagram posti foto di interminabili tavolate.
E ancora squisiti e succulenti piatti tutti da gustare in un sol boccone, arrosto, pasta, dolci.

Food Blogger?

Tralasciando le food blogger che sembrano avere come unico scopo quello di farci salire l’acquolina in bocca, la stragrande maggioranza dei nostri amici e conoscenti pare abbia uno smisurato quantitativo di cibo da fotografare.
Da chi utilizza questo sistema come lavoro, invece, non possiamo che approfittarne per “scopiazzare” qualche ricetta innovativa.
Ben accetti sono anche gli spunti interpretativi nell’apparecchiare la tavola o – e questa ritengo sia la vera portata straordinaria di questo lavoro – conoscere qualche metodo infallibile per preparare in pochi minuti e con pochi ingredienti quelle ricette definibili “tappa-buchi”, ovvero che possano riempirci la pancia senza troppa fatica.

E le fashion blogger?

Di contrasto, le fashion blogger sembrano non possedere un’alimentazione capace di somministrarci il desiderio di aprire il frigo e ingerire tutto ciò che ne contiene.
I loro pasti sono composti da insalata, verdura in quantità, qualche spuntino giornaliero, poche calorie.
E i dolci? In quanto a dolci sono esperte di macarons e frappè ma nel caffè sono solite girare cucchiaini di zucchero di canna.

Ma siamo italiani…

E in quanto tali possediamo un amore smisurato nei confronti della buona cucina.
Anche coloro che non amano cucinare, hanno provato l’ebbrezza di passare delle ore ai fornelli in attesa della propria personalissima ricetta da servire con entusiasmo.
Inoltre sono sempre più in crescita i programmi televisivi a mo’ di sfida culinaria: vince il migliore.
Basti pensare alla cake design mania che ha assorbito completamente il panorama della cucina italiana e internazionale negli ultimi anni.

Anche la moda vuole la sua parte: è il Food Fashion

È la nuova tendenza di stagione.
Le borse di Prada, Moschino, Chanel e Fendi divengono così degli ottimi spuntini (da sbranare? no, da esibire).
Le it-bag fanno presto da fashion food, la tendenza capace di rendere digeribile – anche in termini di acquisto – la moda.
Amate i toast? Via con Prada.
Preferite le baguette? Gli zainetti di Chanel fanno al caso vostro.
Ma non solo, Chanel tratta anche pancakes con glassa e ciambelline con lo zucchero.
O ancora la bagel Philadelphia e salmone di Fendi, gli english muffin o i waffles di Moschino, e ancora toast di Louis Vuitton.

Le borse sono in mostra fino al 2 maggio alla Division Gallery di Montreal.