La sfida della governabilità

In questi giorni sono piovute le più svariate analisi sul voto, in quello stile tutto nostro per cui i CT del lunedì sono anche i politologi del post voto. Personalmente mi ha stupito, e non poco, questo silenzio a sinistra in attesa che Renzi desse l’interpretazione autentica. Dopo di che tutti a ripetere con varie declinazioni il verbo.
Anche questo è segno dei tempi: una sinistra che ci aveva abituato ad essere talvolta anche troppo prolissa e minuziosa nei distinguo e nell’analisi delle virgole maiuscole, si mostra attonita in attesa che venga indicata la via.


E comunque è vero: il voto al M5S non è solo un voto di protesta. È anche un voto di “richiesta di alternativa” e di un ricambio generazionale che non riguarda solo l’anagrafe, ma soprattutto i cognomi (più che i nomi) e la classe dirigente. E conta molto poco che il suo successo non sia “tutto suo”. Se riavvolgessimo il film ad esempio di Roma, e avessimo avuto un unico candidato del centrodestra, è probabile che la debacle per il Pd sarebbe stata più ampia, e che al ballottaggio avremmo visto (per esempio) il duo Meloni-Raggi. E forse in quel caso, non è così scontato che avrebbe vinto la Raggi, o certamente non in misura così dilagante.
Gran parte di questo risultato è stato dovuto al Pd che ha perso, ma anche alla comunicazione del Pd nel polarizzare a tutti i costi il paese in “o con noi o contro di noi”, polarizzando e unendo ciò che non si sarebbe mai unito.


Il Movimento Cinque Stelle non si è candidato tuttavia “a fare politica”. Questo è bene ricordarlo oggi, ma soprattutto tenero a mente per la valutazione di ciò che avverrà domani. Il M5S si è candidato ad amministrare grandi città. Per questo andrà valutato e su questo andrà promosso e bocciato. La campagna elettorale è finita. Anche se non tutti se ne sono accorti.
A Torino Chiara Appendino ha mandato come primo atto il preavviso di sfratto ai vertici di Compagnia di San Paolo e Iren. Adesso attendiamo dalla neo-sindaco, figlia di Domenico, vicepresidente esecutivo di Prima Industrie, i “nomi nuovi” e relativi curricula. Per questi ed i molti altri dirigenti che dovrà nominare, a cominciare dalla giunta.


A Roma è ancora più complesso. Il nuovo sindaco è Virginia Raggi, avvocato che ha fatto pratica allo studio Previti senza menzionarlo quando si è candidata, e che non ricorda bene il suo reddito, ma non cita un paio di consulenze con la Asl di Civitavecchia: ricordiamo però due dettagli, il primo è che Civitavecchia è amministrata da un sindaco Cinque stelle, e il secondo è che a concedere quella consulenza (senza “prendere” il nome dall’elenco predisposto ed in cui la Raggi non figurava) è stata la dirigente Gigliola Tassarotti, che è anche la madre della deputata M5S Marta Grande. Verrebbe da chiedersi cosa avrebbero detto “loro” se fosse successo in casa Pd. Ma è storia.


A lei toccherà nominare la giunta capitolina dopo gli scandali di Mafia Capitale e soprattutto nel quadro di sfiducia generale. Ma non solo. Il comune di Roma ha ottantotto società partecipate, cui la nuova giunta dovrà indicare altrettanti presidenti, amministratori delegati e i vari membri dei consigli di amministrazione. Poi ci sono i direttori generali, la questione olimpiadi (la Raggi ha detto no, poi vediamo, poi decide la rete, poi una consultazione popolare), poi c’è la questione strade e trasporti, una linea della metro da completare. E poi c’è un passivo di dodici miliardi.
Anche nel suo caso attendiamo questi tanti e tanti nomi “nuovi” e i relativi curricula e competenze.
Li valuteremo su questo, serenamente, ma con quel rigore e senza indulgenze che il M5S ha urlato nelle mille piazze d’Italia contro la “vecchia politica dei partiti”.


E tuttavia – a meno che il M5S non decida di “cambiare le regole ad personam” – non potremo beneficiare del voto confermativo per nessuna delle due tra cinque anni: sono entrambe al secondo mandato politico (in quanto ex consiglieri comunali) e quindi non potranno candidarsi. 
Ma siamo in Italia, e siamo anche abituati a che si facciano deroghe su tutto. Vedremo anche in questo caso quanto il M5S saprà essere “rivoluzionario”.