Van Gogh tra il grano e il cielo

E’ uscito nelle sale dei cinema italiani, in anteprima mondiale lo scorso aprile, “Van Gogh tra il grano e il cielo“, un docufilm che ripercorre la storia del grande pittore olandese, attraverso le opere raccolte dalla sua più grande collezionista, Helene Kröller-Müller.

Dato il successo al box office (420.000 euro di incassi e 50mila spettatori in soli tre giorni), 3D Produzioni e Nexo Digital (specializzata nella produzione di film su arte e musica) propongono la replica per le date 22 e 23 maggio 2018.

Helene Kröller Müller era una mecenate olandese dei primi ‘900. Affascinata dall’opera di Vincent van Gogh, acquistò circa 300 pezzi tra dipinti e disegni, convinta che un giorno avrebbero scritto la storia dell’arte:

La gente parlerà di van Gogh per molto tempo e ci saranno due correnti principali nell’arte: una basata su di lui e una che segue la tradizione“.

La donna, sposata a un uomo che non amava per volere della famiglia e per ragioni di interesse (Anton Kröller era socio di suo padre), era di natura malinconica,  ricercava “altrove” la felicità che le era stata negata. Scriverà in una delle innumerevoli lettere inviate a Sam van Deventer, amore platonico di vent’anni più giovane, che nei quadri di Vincent van Gogh ritrovava una serenità e una calma mai avute in vita. Ringrazierà van Gogh di questo regalo, costruendo il museo Kröller-Müller di Otterlo che ospita alcuni dei quadri più importanti dell’artista, come “Terrazza del caffè la sera”, “Seminatore al tramonto” e i disegni di inizio carriera. L’edificio dista un’ora da Amsterdam ed è costruito nel cuore di una riserva naturale, che il regista pesarese Giovanni Piscaglia  ha illustrato attraverso le corse dei cervi tra le distese dei campi verdi bagnati dalla luce del sole, un modo per accompagnarci nei luoghi del pittore, coi suoi stessi occhi.

Vincent van Gogh, Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, 1888,  Kröller-Müller Museum, Otterlo


Quella che riusciamo a vedere, così da vicino, attraverso questo docufilm è la pennellata di van Gogh. Sono immagini tridimensionali, riusciamo quasi a toccare la pastosità dei colori ad olio e a riconoscere la profondità del tratto. Come sei riuscito, perché ci sei riuscito, a commuovere il pubblico?

“Credo che il rapporto tra cinema e spettatore si giochi principalmente in un territorio di comunicazione non verbale: quelle dell’immedesimazione, della suggestione, dei sentimenti. Nel girare il film ho pensato che non avrei potuto emozionare senza emozionarmi io stesso e non sarei mai riuscito a restituire un sentimento senza sentirmi coinvolto in esso proprio nel momento della ripresa. Cercavo quindi di rendermi aperto rispetto ai contesti in cui giravo, le città, i luoghi di Van Gogh, chiedevo alla troupe di comunicare piano, mantenere il silenzio, mi concentravo per cercare di catturare nell’inquadratura il mio stato emotivo del momento.

Accadeva questo anche quando filmavo i dipinti, il movimento ravvicinato sopra di essi è stato per me un mezzo di indagine, una sorta di analisi autoptica – eppure emotiva – alle radici di Vincent, del suo tratto, del suo pensiero, della sua interiorità, abbattendo ogni filtro per cercare il minimo comun denominatore del genio.

Il cinema è un mondo che racchiude tanti livelli complessi in cui nulla è lasciato al caso. Nel mio approccio alla regia passa anche da una forte idea delle strutture profonde della narrazione, per questo durante il lavoro è stato molto importante la collaborazione con Matteo Moneta assieme al quale decidevamo di volta in volta quali temi (dei tantissimi possibili) trattare più nello specifico e quali trascurare, la divisione dei blocchi narrativi.

Per ogni scelta mi faccio guidare dal mio gusto. Mi preparo molto per tutto il tempo prima delle riprese, salvo poi abbandonarmi all’improvvisazione nel momento delle riprese. Il bello è che quando a fine giornata torno a casa e riguardo gli storyboard mi accorgo di aver girato le stesse inquadrature che avevo immaginato anche se in maniera inconsapevole. Ne deduco che lo strumento più affidabile che ho a disposizione è il mio gusto, fatto di pensieri stratificati, che nei miei lavori creano unità a più livelli: discorsiva, visiva, narrativa, ritmica.”



Helene Kröller Müller era così ossessionata dalla persona di Van Gogh, che emulò  il suo stile di vita, scegliendo di dormire in un letto molto più piccolo del normale o andando al fronte durante la Grande Guerra a curare i feriti, spinta dallo stesso spirito umanitario che ebbe van Gogh quando fu predicatore laico tra i minatori della regione belga del Borinage.
Entrambi cercarono nella religione una consolazione al senso di fallimento, tu che rapporto hai con la fede?



“Credo nella trascendenza, qualcosa di ineffabile che possiamo solo percepire e che domina l’andamento dell’universo in qualche arcana, lontana maniera. Credo nella validità dei principi di Cristo come esempi di moralità e solidarietà. Credo nel senso del sacro che accomuna culture diverse attraverso la storia e che è stato per tutte un impulso insostituibile per la filosofia, per l’arte, per l’evoluzione del pensiero sotto tanti aspetti. Ma credo anche nella finitezza dell’uomo e che sia nella conoscenza dei propri limiti che risiede la chiave per arrivare al proprio Dio.”


“I mangiatori di patate” rappresentano una sintesi di molti temi cari a  van Gogh: la dignità della vita povera, l’oscurità, l’umiltà, attraverso l’uso dei colori della terra, così come Tolstoij la trascrisse tramite Lèvin, il personaggio legato alla vita rurale in “Anna Karenina”. Quale invece, la tua opera preferita?



“Oltre ai tanti capolavori impossibili da non amare, nel corso delle riprese ho avuto occasione di fermarmi spesso davanti ai “Quattro girasoli appassiti”. Lo trovo un dipinto atipico per Van Gogh sia per il formato che per il trattamento differente di un soggetto così iconico per l’immaginario di Van Gogh. Sono girasoli morenti riprodotti su scala gigantesca, lo sfondo è piatto, astratto, fuso col soggetto, guardarlo da vicino è come sorvolare una città bombardata, è impressionante come ad una tale febbrile stesura corrispondano accostamenti cromatici così precisi, tratti immaginifici e realistici allo stesso tempo. Ma più che il dato visivo mi colpisce quello simbolico, legato al periodo che Vincent sta vivendo in quel momento, a Parigi nel 1887. In quei due anni parigini vive la massima esposizione alla vitalità del mondo, alla mondanità, al fermento artistico: è qui che diviene il pittore geniale che conosciamo e scopre il suo tratto inconfondibile, eppure in questo quadro percepisco chiaramente il lato oscuro della sua esistenza in una città che da una parte lo inebria e dall’altra lo avvilisce: i “Quattro girasoli appassiti” sono un memento mori in cui Van Gogh dimostra il suo autentico interesse per un mondo interiore al quale solo lui poteva accedere.”

 

Bresson comincia spesso le scene dei suoi film inquadrando porte e fibbie di cinture. La tua prima inquadratura è sì il soggetto del film, ma hai scelto di utilizzare una statua rappresentante van Gogh in mezzo alla natura, natura che egli stesso ci rappresenta con sembianze miracolose. Quanta importanza ha la bellezza e il rapporto con la natura nella tua vita?



“Sono una persona totalmente votata all’osservazione e la bellezza ha un ruolo cruciale nella mia vita. Talvolta mi trovo ad utilizzare il mio gusto estetico come una bussola, applicandolo anche in cose apparentemente marginali della vita quotidiana. La natura mi interessa in quanto alter ego ideale dell’essere umano, mi attrae e mi inquieta allo stesso tempo.

La prima inquadratura del film riunisce proprio queste idee, c’è la natura e c’è l’uomo, c’è il divenire del vento e il tempo del movimento di macchina, infine ci sono la cultura e la storia cristallizzate nella statua che ritrae Van Gogh e che lo proietta su un piano intermedio di presenza e assenza, umanità e santità.”

 


Truffaut scriveva che “tutti i registi girano film che gli assomigliano, perché esprimono allo stesso tempo le loro idee sulla vita e la loro idea del cinema”. In che modo questo film parla di te?



“In questo film sento di avere espresso diversi aspetti di me che convivono e a volte confliggono. Da una parte mi piace spiegare e raccontare storie, dall’altra mi piace abbandonarmi al sogno ed esprimere l’inspiegabile.”

 


The_Sower
Seminatore al tramonto, Vincent van Gogh, 1888, Museo Kröller-Müller di Otterlo




Quando si cammina per ore e ore attraverso questa campagna, davvero non si sente che esiste altro se non quella infinita distesa di terra, le verde muffa del grano e dell’erica, e quel cielo infinito




Conosciamo Vincent van Gogh grazie alle 900 missive spedite al fratello Theo, suo interlocutore privilegiato, dopo un’amicizia con Gauguin finita in tragedia, con il taglio del lobo dell’orecchio e l’inizio della malattia mentale. Un sentimento, quello che lo legava all’amico Gauguin, su cui aveva puntato molto e che condusse il pittore a un punto di non ritorno.
Il suo dolore lo ascoltiamo in queste lettere, lette nel docufilm da Valeria Bruni Tedeschi, un grido di disperazione che torna sulla tela con paesaggi di una natura maligna, dove alle verdi distese dei campi si sostituiscono le ombre della notte.





Quello che voglio esprimere non è una malinconia sentimentale, ma il dolore vero.



Il docufilm “van Gogh tra il grano e il cielo“, è la testimonianza di un amore tra due persone che non si sono mai incontrate: Helene Kroller Muller riuscì a dare a Van Gogh quello che non aveva avuto da vivo: rispetto (lo consideravano un pazzo), amore (rifiutato da sua cugina, aveva avuto una sola relazione con una prostituta), riconoscimento (ha venduto una sola opera in vita). I due personaggi hanno condiviso gli stessi tormenti interiori e la stessa visione di Dio e della fede. Attraverso i suoi quadri, che Helene portava con sé nei suoi lunghi viaggi, Vincent riuscì a darle la serenità mancata, un dono universale per tutti noi. E lui già lo sapeva.

Vincent van Gogh taciterà quella tristezza all’età di 37 anni, con un colpo di pistola alla tempia.


Van Gogh tra il grano e il cielo” sarà in cartellone in 50 paesi dopo l’anteprima italiana, che replica nelle sale i giorni 22 e 23 maggio. Diretto da Giovanni Piscaglia, sceneggiatura di Matteo Moneta, colonna sonora di Remo Anzovino, consulenza scientifica di Marco Goldin, e l’insostituibile voce narrante dell’attrice Valeria Bruni Tedeschi, che ha regalato enfasi, forza e personalità alla narrazione filmica.
Produzione: 3D Produzioni e Nexo Digital.


“L’umanità è ciò che ci tiene tutti legati…”