Foss Marai, l’azienda vinicola leader nella produzione dello spumante e la sua forza

La chiamano «viticoltura eroica» e Carlo Biasotto, fondatore dell’azienda vinicola Foss Marai, la racconta così:

«Eravamo bambini e i nostri genitori ci ordinavano di andare a cogliere l’uva: quello era il momento del pianto, perché sapevamo quanto duro e pericoloso fosse il lavoro».
Terreno con pendenza di 45 gradi, impossibilità dei terrazzamenti, necessità di intervenire a mano limitando l’ausilio dei macchinari che rischierebbero di ribaltarsi: ecco perché il lavoro dei viticoltori nel Valdobbiadene viene detto «eroico». Tanto suggestivo è il paesaggio, con le colline che intrecciano infinite sfumature di colore, dal verde trifoglio al verde felce, quanto difficile è il domarlo da parte dell’uomo.




È nell’area Conegliano-Valdobbiadene, oggi diventata Patrimonio Unesco, che nascono i vini Foss Marai, grazie al rispetto del “disciplinare dei vini di origine controllata e garantita Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” atto alla piena tutela del prosecco, vino simbolo del Made in Italy di qualità, senza forzare le piante e il sistema di coltivazione.

Oggi la famiglia Biasotto, formata da Carlo e Adriana con i figli Andrea, Cristiana ed Umberto, continua la tradizione di rispetto del territorio che è nel DNA dell’azienda, nata nel 1986. È un modello agricolo dove il segreto è il saper fare, la competenza artigianale, la precisione e la cura con cui vengono gestiti processi selettivi e produttivi complessi, spesso lunghi perché basati sul lavoro manuale, e per questo dispendiosi: ogni compromesso rovinerebbe la qualità dell’esito.
Nell’utilizzo dei lieviti autoctoni e indigeni del prosecco, in particolare della zona del DOCG, la zona delle colline, sta il loro punto di forza. Una selezione accurata viene fatta dallo stato esterno dell’uva, la «pruina», una cera che ricopre gli acini; ce ne è una moltitudine di tipi, e grazie alla collaborazione con l’Università di Piacenza si è giunti alla cernita dei lieviti idonei a portare a termine la fermentazione alcolica: sia per i vini base, risultato della trasformazione primaria da mosto a vino, sia per la fermentazione in autoclave. Grazie a questi lieviti viene garantita l’unicità, la tipicità e la varietà dell’uva, e si è in grado di mantenere l’aroma originario che invece con utilizzo di lieviti commerciali si perderebbe, dando prevalenza agli aromi fermentativi anziché varietali.




In piccole fiale da chimico si mantengono i lieviti madre; ogni tre/quattro mesi va rinnovata la parte marrone di mosto aga e va presa una piccola porzione di lievito (la parte bianca), poi reinoculata in una nuova fiala; ad una temperatura di 35/37 gradi si attende la crescita per una settimana fino a quando la colonia di lievito è in buona salute, per poi porre la fiala in frigorifero per la conservazione, costantemente monitorata.
La meticolosità del processo è necessaria per controllare che non ci sia alcuna interferenza di batteri, dato che nel prosecco è importante mantenere freschezza e vivacità. Fiore all’occhiello di Foss Marai, in questo passaggio, sono gli strumenti tecnologici innovativi utilizzati: dalle macchine con laser infrarossi agli strumenti “enzimatici” per l’esame di alcol e zuccheri.



Se altri produttori utilizzano lieviti commerciali, selezionati perlopiù da multinazionali, spesso olandesi, Foss Marai sceglie e lavora in casa i propri lieviti da 20 anni, con una produzione di 20.000 bottiglie al giorno, per un totale di 2 milioni all’anno circa. Il risultato è un timbro particolare e unico, e in annate non particolarmente favorevoli si riesce, proprio grazie ai 30 lieviti autoctoni, a dare lo stesso risultato di annate più felici, con gli stessi aromi e profumi, riducendo al minimo gli scarti tra una vendemmia e l’altra.

Molte sono le riflessioni che sorgono conoscendo la storia di questa famiglia, che ha messo l’amore per il proprio territorio prima di tutto, che ha fatto diventare «lavoro» la vita stessa. Jean Giono, scrittore francese nato da una famiglia di origine piemontese, riassumerebbe il pensiero in una frase, presa dal suo saggio «Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace», scritto nel 1938:

«Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare oppure se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l’altra. È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine. È la sua vita.»