Cosa ci dicono i big data di questo referendum?

Quello che pensavo su questo Referendum l’ho scritto qui.


Ma proviamo adesso a leggere il dato politico che emerge da questo referendum.
Il suo significato in termini di numeri e di strategie.
Matteo Renzi ha sterilizzato cinque dei sei quesiti referendari – quelli davvero sostanziali – ma ha lasciato l’ultimo punto, quasi volendo che il referendum si facesse.
Perché?


Facciamo un passo avanti, alla riforma costituzionale.
Su questa il segretario premier è stato chiaro: se perdo lascio.
Come a dire che quello è “il voto su di lui”, sul suo governo e sulla sua politica.
Ma lo si celebrerà a ottobre, garantendosi comunque non meno di ulteriori sei mesi di governo prima della tornata elettorale (che per consuetudine è tra aprile e giugno), per avere ampi margini di campagna – elettorale e congressuale.
E adesso facciamo un passo indietro, a quando Matteo Renzi ha affidato a Jim Messina il coordinamento della campagna di ottobre.


Jim Messina, ex capo staff di Obama, è stato il coordinatore della campagna 2012.
La sua strategia elettorale è basata sull’elaborazione dei cd. big data per decifrare comportamenti e tendenze, georeferenziate e geolocalizzate, delle persone, collegio per collegio, paese per paese, quartiere per quartiere.
L’ultima sua vittoria è stato lo scontro diretto con il suo ex capo David Axelrod. Messina supportava Cameron, Axelrod i laburisti. E la rimonta di Cameron, che molti davano per perdente, è stata proprio sul filo di lana di tutti i collegi in bilico.


La strategia di Messina presuppone da una parte una mappatura politica e socio culturale del territorio, dall’altra una “elezione simile recente”(in Usa non è difficile con le midterm ogni due anni).
Ed ecco spiegato questo Referendum.
Un grande test su scala nazionale, senza amministrative, senza accorpamenti, puntando su una campagna manicheamente esasperata: da una parte tutti i “pro premier” verso il non voto, dall’altra semplicemente “tutti gli altri”.
Un quesito tecnico, non impegnativo politicamente: una semplice prova generale per raccogliere i dati sui comportamenti dei flussi elettorali, capaci almeno di garantire una proiezione credibile.


Ecco che se lo leggiamo in questa ottica, il dato che emerge non è certamente positivo per Renzi.
Anche perché i dati vanno appunto proiettati e interpretati.
Come ha spiegato Alessandro De Angelis sull’Huffington qualche giorno fa “domenica si manifesterà un pezzo del popolo anti-Renzi, che ci sarà anche a ottobre. Con l’aggiunta di tutto il centrodestra che, su questo quesito, è fermo.”
Il dato su cui ragionano gli analisti sono sostanzialmente questi: i votanti alle scorse politiche (2013) furono 36.452.084 mentre alle europee (2014) 28.991.358, rispettivamente il 72,2 per cento e il 57,2 per cento degli aventi diritto. Il Pd alle politiche raccolse 8.646.034 voti (il 25% di Bersani) mentre alle europee 11.172.861 (il 40% di Renzi)


Gli scenari del giorno prima.
Alta affluenza: 40% di votanti sono circa 20.320.000; media affluenza: 33% pari a 16.764.000.
A urne chiuse quel 31% circa racconta di 16milioni di elettori, di cui oltre l’80% (come da previsioni) ha votato si.
Elettori che si recano alle urne “contro Renzi”, che faranno lo stesso ad ottobre al referendum sulle riforme, quanto “tutte le opposizioni” si coalizzeranno, quando non ci saranno richiami all’astensione, quando sarà una scelta politica quasi quanto un voto (anche se più semplice) e quando tutti, ma proprio tutti, avranno un interesse a dare indicazioni di voto. Ma soprattutto quando non ci sarà quorum. Vince cioè chi prende più voti.


La sfida.
Renzi deve prendere sulle riforme più voti di quella che ha chiamato la grande alleanza per il no con un Pd (tutto quanto e tutto intero, che voti compatto e senza differenze tra maggioranza e minoranza) che oggi sta attorno ai 10milioni di voti.
E la sfida è proprio questa. Certo c’è da dire che gli italiani sono “sensibili” alle riforme, e in molti sono pronti a non seguire strettamente le indicazioni dei propri partiti o leader. Lo abbiamo visto in casi importanti come divorzio, aborto, finanziamento dei partiti.


E tuttavia l’errore di fondo sta proprio nella comunicazione del premier.
Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perchè, è bene ricordarlo, il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.


Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).
Saper cambiare comunicazione è una dote, una capacità, una risorsa.
Renzi ne ha molte, ma ad oggi, almeno per quello che abbiamo visto negli ultimi cinque anni, questa proprio non gli appartiene.
Ma anche se non ha risparmiato – senza citarlo – molte sferzate ai Presidenti di Regione del suo stesso partito (Emiliano su tutti), almeno come sintassi generale nel suo discorso post-voto ha provato con quel “tutti insieme” a cercare di evitare quantomeno la spaccatura interna.
La strada per ottobre è più che in salita.
In uno scenario in cui è possibile che andranno a votare circa 30milioni di italiani, da oggi stesso l’obiettivo è convincerne circa 16milioni. Il 50% in più di un teorico Pd unito.