Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?

Proviamo a mettere insieme alcuni pezzi dopo dodici ore. 
Sappiamo con adeguata certezza che non si è trattato di un’azione isolata ad opera di pochi fanatici.

I gruppi di fuoco erano almeno tre. Uno concentrato nella zona dello Stadio, uno al teatro Bataclan e uno nel centro della città, per strada. 
Sappiamo che, in totale e al momento, i terroristi armati e con giubbotti esplosivi erano almeno otto.
 Sappiamo anche dalla simultaneità delle azioni che: si conoscevano, hanno avuto tempo e modo di coordinarsi e di progettare, programmare, effettuare sopralluoghi e studiare i tempi e modi e anche tempi e forme della reazione delle forze di sicurezza.

Sappiamo che per compiere questi veri e propri attacchi di guerriglia paramilitare sono servite ingenti risorse logistiche, organizzative, appoggi, risorse economiche.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


Mediamente per ogni gruppo di fuoco almeno altrettante sono state le persone coinvolte, tra logistica e copertura.

Hanno avuto bisogno di rifugi sicuri, di poterli cambiare spesso, di luoghi di incontro sicuri, di autoveicoli per i sopralluoghi, diversi da quelli materialmente usati per le azioni terroristiche. 
Sappiamo che sono riusciti a procurarsi illegalmente un vero e proprio arsenale per la costruzione dei giubbotti esplosivi, almeno otto kalasnikov e altrettante pistole ed un vero e proprio arsenale di munizioni.

Sappiamo quindi anche che è occorso molto tempo per organizzare e realizzare questa azione.

Gli esecutori materiali ma soprattutto chi ha fornito la copertura e la logistica è tuttaltro che un ragazzino invasato e fanatico delle periferie urbane. Ci vuole un enorme addestramento, preparazione, soprattutto per mantenere il sangue freddo in un’azione così grossa e coordinata.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


E in tutto questo senza farsi scoprire, intercettare, individuare per mesi.

Abbiamo però altri elementi su cui fare una riflessione. 
Pezzi da mettere insieme e tenere lì come fossero post-it su una lavagna per darci un quadro complessivo più ampio.


Abbiamo almeno altre due “prove generali” di azioni di quersto tipo: l’assalto a Charlie Hebdo del 7 gennaio e quello del 9 gennaio successivo quando un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone.

Armi, attrezzature, organizzazione, logistica, tempistiche: sono pressoché identiche.
Anzi, in un’ottica più grande e altrettanto macabra quell’episodio può essere visto come una prova generale in grado di offrire elementi di analisi dei tempi e modi e forme di reazione della sicurezza francese in generale e parigina in particolare (sia su un attentato specifico sia su un’azione con ostaggi).


La data non è scelta a caso. 
È lo stesso giorno dell’anniversario (2001) in cui il presidente statunitense George W. Bush firma un ordine esecutivo che permette l’istituzione di tribunali militari contro qualsiasi straniero sospettato di avere connessioni con gli atti terroristici realizzati o progettati contro gli Stati Uniti. 
Non è un caso quindi che nella rivendicazione si parli esplicitamente di un 11 settembre francese.

Ed è anche il giorno prima della conferenza di Vienna sulla Siria.
 Elemento importante perchè da sempre la Francia (uno dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU con diritto di veto) ha una sua “politica autonoma” e spesso di mediazione tra i blocchi contrapposti Usa-Russia: una contrapposizione che ha spesso impedito un’azione univoca e coordinata contro l’ISIS.
 Il richiamo inoltre al “vostro 11 settembre” serve definitivamente al califfato per candidarsi ad essere l’erede unico e sostitutivo non solo di al-Qaeda, ma anche unificante di tutti i fronti terroristici legati al fanatismo islamista.


Non è stato un attacco del tutto imprevedibile.

Un attacco a un teatro-sala da concerto a Parigi con armi automatiche e cinture esplosive. Era questo l’incarico che avrebbe ricevuto un cittadino francese di 30 anni durante un suo soggiorno “militante” in Siria a maggio di quest’anno. La notizia, con pochi particolari di dettaglio e senza nomi e riferimenti dei protagonisti, era stata data il 18 settembre scorso dal sito franceinfo.fr.
 L’uomo, arrestato dalla polizia francese l’11 agosto scorso, sarebbe rientrato in Francia dopo essere stato ferito in combattimento. Il suo arresto sarebbe avvenuto per una “soffiata” fatta da una “jihadista spagnola” fermata anch’essa al rientro da un viaggio in Siria. 
Il che conferma almeno “da quanto tempo” un’azione del genere era in preparazione.

Tutto questo però conferma anche che è difficile che queste azioni vengano compiute da persone “straniere” inviate in occidente per la prima volta. 
Troppo difficile nasconderle, metterle in contatto tra loro senza destare sospetti o attenzione dei servizi di sicurezza, troppo complicato che si inseriscano nel tessuto logistico e malavitoso locale, che conoscano la lingua nella misura necessaria, nonchè starde, tempi, abitudini.


Almeno per compiere attacchi di questo genere.

E tutto questo riporta al fatto che chiudere le frontiere o attribuire responsabilità all’immigrazione di profughi e richiedenti asilo non ha alcuna attinenza con il contrasto ad azioni di questo tipo.

Difficile anche che i protagonisti candidati per questi attentati siano frequentatori assidui di moschee: di questi tempi verrebbero certamente intercettati, verrebbero notati, rischierebbero un commento sbagliato, di tradire un fanatismo ed un estremismo che potrebbe destare sospetti in correligiosi moderati (la stragrande maggioranza) che potrebbero allarmarsi e segnalarli.

Sappiamo anche, in maniera indiretta, che qualcosa di decisamente grande l’Isis lo stava preparando contro l’occidente. Qualcosa da “propagandare e diffondere” con la massima forza possibile.

Il 9 novembre era stato reso noto che il cyberCaliffato (il team hacker e comunicazione web dell’Isis) aveva hackerato oltre 54mila account twitter, nonchè reso noti i numeri di telefono personali e crittati dei capi di Cia, Fbi, Nsa.


Quest’ultima azione certamente di natura distrattiva, per far pensare ad un attacco “non in Europa” facendo calare quindi l’attenzione su una forma di collaborazione che avrebbe potuto evidenziare informazioni utili alla prevenzione o individuazione di indizi nei giorni immediatramente precedenti questa azione.

Sappiamo, infine, che un’azione di questo genere, per gli elementi sin qui descritti e messi insieme, è estremamente “raffinata” ed enormemente costosa.
 È un investimento enorme non solo di persone ma anche di risorse con una strategia che mostra una sofisticata conoscenza delle ripercussioni di medio termine nelle politiche e nelle economie europee e occidentali in generale.

E tutto questo non è immaginabile sia partorito dalla mente di qualche terrorista esaltato e di non elevata istruzione come quelli che conosciamo essere i teorici capi dell’ISIS in medioriente.
 Inoltre organizzare, pianificare, e soprattutto finanziare un’azione di questo genere è inimmaginabile venga fatto dal territorio siriano o iraqeno.

Un’operazione fatta “a borse chiuse” in cui si dovranno attendere non meno di trentasei ore prima di poter verificare le transazioni e chi ci ha potuto “materialmente guadagnare”, che però si confonderanno in un mare di altre transazioni del lunedì mattina, a livello globale, ed in cui le tracce saranno fatte sparire per tempo, con la medesima sofisticazione.


Se mettiamo insieme tutti questi elementi, senza farci trascinare nè dal populismo dell’opportunismo politico nè da tendenze complottiste planetarie, appaiono chiari almeno due elementi.

Il primo è che questo attacco mostra un livello di sofisticazione del terrore che apparantemente adotta la matrice e la bandiera del califfato come specchietto delle allodole (e cui il califfato presta uomini e simboli nell’interesse diretto di accreditarsi come nemico mondiale unico e solo), ma è chiaro che il livello è decisamente superiore e con una strategia molto più globale. 
Un modello di attacco terroristico che tende a voler dimostrare come ogni capitale europea e mondiale è in sé un possibile bersaglio di un attacco mirato e preparato e finanziato e studiato con mesi di anticipo. 
Il secondo è che le tracce per individuare la regia di queste azioni non passano direttamente in Siria e nel califfato, ma attraverso le transazioni (nomerose, sofisticate, diffuse) di chi gestisce le finaze (enormi) di queste attività. Che passano per le nostre banche, le nostre carte eletroniche spesso anonime e prepagate, che vengono ripulite nei centri di invio di denaro all’estero in centinaia di transazioni al di sotto dei 300 dollari. 
Una rete capace di avere numerosi sostenitori, prestanome, che acquistano cellulari, auto, affittano immobili, mettono a disposizione risorse e coperture logistiche.


Se l’Isis si candida ad essere il marchio – quasi il franchising – del terrore a livello globale, capace di lasciare per lungo tempo uno stato diffuso di terrore nelle popolazioni civili occidentali, è altrettanto chiaro che la guerra a questo soggetto oramai planetario non può che essere efficace solo se la struttura logistica e quindi innanzitutto finanziaria di tutto questo non verrà attaccata.