Influencers

Cos’è, cosa fa e come “si diventa” influencer nel web? 
Di questo argomento avevo già scritto tre anni fa, in un articolo dal titolo “chi sono e cosa fanno gli influencers” ed anche in un’intervista a Bonsai.


Torno sull’argomento perché negli ultimi tempi alcune classifiche mi vedono “protagonista” del tema.
 La prima è quella del 2014, classifica indipendente sviluppata dall’Università di Vienna sui top-influencers durante le elezioni europee. 
La seconda del 2015 elaborata da PolicyBrain riguarda specificatamente i blogger influenti tra i parlamentari divisi per area. 

In un suo articolo su MediaBuzz Riccardo Esposito ha detto qualcosa di chiaro su una delle definizioni meno chiare della rete, ma di cui spesso ci si riempie la bocca (e le pagine dei blog).
 “Un influencer è una persona che viene seguita da un pubblico più o meno vasto e che viene apprezzata per le proprie idee o azioni.


Io posso essere un influencer per un pubblico ristretto o vasto. Ed è proprio questa è la chiave: individuare un pubblico e parlare. Non pontificare, non dettare leggi e regole. Ciò che ha fatto la differenza tra l’attuale influencer e tutti gli altri si ritrova in pochi elementi: la sua capacità di comunicare con un pubblico ben preciso, la presenza di idee chiare e non riciclate, la capacità di produrre e condividere contenuti di qualità. L’influencer sul web non è vago, ha un viso e un nome: ha un’identità chiara. Un’identità che trova forma in idee forti. L’influencer non ricicla, non ribatte parola su parola cercando di definire la propria posizione riprendendo concetti già esposti.


Se tali sono li cita, sempre e con piacere, ma cerca sempre di formare la propria idea partendo dal proprio cuore e/o dalla propria testa. Deve avere una personalità forte, e deve avere una proprietà di linguaggio capace di far riconoscere la propria voce ovunque. Il vero influencer non è quello che si chiude nella torre d’avorio e lancia perle di saggezza, ma è quello che seleziona e condivide la qualità. Perché sa che il suo potere si autoalimenta, sa che quando è utile al proprio pubblico acquista fiducia. Le persone si fidano di chi condivide qualità senza doppi fini. Ed è questo il tuo obiettivo: diventare un riferimento. Diventare un riferimento positivo.”


Va in profondità su dailystorm Federico Sbandi
. Un social media influencer non è semplicemente una persona che ha un largo seguito virtuale. Avere 1.000 amici su Facebook e 5.000 followers su Twitter non basta.
Le 3 caratteristiche base di un influencer sono: in primis, l’attività: un profilo disposto a spendersi su più social media quotidianamente e con una certa propensione, magari, a stare sul pezzo nel commentare i fatti salienti del giorno sarà considerato meritevole di un feedback di base. Poi, l’interattività: un utente che non risponde e dimostra di voler imporre una comunicazione dall’alto verso il basso, sul lungo termine, non andrà da nessuna parte (non siamo in Tv!). Infine, c’è la questione della credibilità: in Rete basta un errore, un caso di censura, una bagarre di troppo e si può subire la gogna immediata (si pensi a tutti quei politici/giornalisti che hanno dovuto cancellare i propri account per via dei suddetti errori).


Da un punto di vista strettamente teorico/concettuale così definisce il fenomeno il sito InsideMarketing. Nel 1955, Elihu Katz e Paul Felix Lazarsfeld pubblicarono Personal Influence, un testo rivoluzionario per l’analisi delle comunicazioni di massa. Il suo punto forte risiede nella cosiddetta “teoria del flusso a due fasi della comunicazione”, secondo cui in genere un flusso di informazioni va dai media agli opinion leader e successivamente dagli opinion leader ad un gruppo sociale di riferimento. Quindi, la maggior parte delle persone basa le proprie opinioni su quelle degli opinion leader. Questi ultimi sono coloro che per primi vengono a conoscenza di un contenuto grazie ai media o ai contatti personali e, ovviamente, poi lo interpretano secondo le proprie opinioni.


Successivamente, tali idee vengono diffuse al grande pubblico che diviene un opinion follower. Secondo questo modello, dunque, i media non hanno influenza diretta sulle masse: essi possono solo rafforzare opinioni e posizioni già esistenti, grazie agli intermediari del flusso di comunicazione (gli opinion leader, per l’appunto). Così, il flusso di influenza non è da chi è interessato verso chi non ha interesse verso l’argomento, ma verso persone un po’ meno interessate. Ovviamente, sarebbe superficiale considerare questo modello a due fasi completamente attuale: dagli anni ’50, infatti, ne è passata di acqua sotto ai ponti. In primis, oggi la società è sempre più liquida, frammentata e dai confini sfumati, sempre meno legata alle rassicuranti istituzioni sociali di una volta (dalla famiglia, ai partiti politici) e, quindi, perennemente in angoscia. La società contemporanea, così, è tutt’altro che di massa (nel senso “moderno” del termine), specialmente grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi media. Tuttavia, le riflessioni di Katz e Lazarsfeld possono esserci d’aiuto come punto di partenza per analizzare i fenomeni postmoderni.


Oggi, infatti, l’influenza sociale è una dimensione molto analizzata, soprattutto grazie alle grandi potenzialità spalancatesi grazie ai social network e ai social media in generale. Questi ultimi, infatti, hanno un effetto moltiplicatore dell’influenza e garantiscono il passaparola online, lo scambio di informazioni e la partecipazione attiva alle dinamiche di costruzione identitaria e reputazionale. In particolare, una delle figure più importanti della società odierna è il social media influencer: cioè chi, per motivi diversi, s’è guadagnato una certa visibilità (ed influenza) sui social network e sul web in generale. Grazie a tutto ciò, questi brand in carne e ossa riescono spesso meglio delle aziende a indirizzare idee ed opinioni, compresi prodotti e servizi.


Provando a tornare sul tema possiamo dire alcune cose, partendo da chi “non è” un influencer di rete, e sfatando qualche mito sulle metriche spesso usate inappropriatamente o lette in maniera parziale e strumentale. 
Se su Facebook i like e le condivisioni sono certamente un indice i capacità di influenza, andrebbero maggiormente letti come “capacità di viralità”, perchè raramente parliamo di contenuti propri. Stesso dicasi per i retweet o i like, anche in questo caso quando i contenuti non sono propri dell’autore ma – come spesso accade – sono link condivisi e commentati.
 In questa ottica gli indici di engagement sono anche falsati dalla “facilità” con cui si cerca di attrarre la simpatia: si va dal populismo, al complottismo, al manicheismo, che possono essere visto come una sorta di “sottospecie social” di link baiting (ovvero quella tecnica acchiappa click usata anche da alcuni quotidiani online con titoli del tipo “incredibile, scopri cosa ha detto…” oppure “guarda cosa è successo…” e tu devi cliccare anche solo per leggere la fine del titolo).



Va anche peggio se consideriamo “gli indici di menzione”, senza fare un’analisi qualitativa di quante di queste “citazioni” in rete siano di critica, di insulto, di “inclusione in discussioni” senza alcun riferimento, ed anche quando le mensioni finiscono con il voler essere “un modo” per essere notati da quella persona (che semmai ha molti fan o follower). 
Gli indici di engagement vanno visti per quello che sono, ovvero indicatori di viralità, che molto spesso non significano altrettanta “influenza” sul lettore.
 Questa passa, al netto di tutto, attraverso due originalità: l’originalità del contenuto, e ancor più dall’originalità del punto di vista offerto su quel tema/contenuto/nnotizia.


Ciò traccia una linea di demarcazione importante e abbastanza netta tra “chi sono gli influencer”, ovvero coloro che in rete – volenti o nolenti – spostano opinione, e qualche volta la creano, e “attivisti di rete”, che possono anche avere un notevole seguito, molte interazioni, e raggiungere notevoli livelli di viralità dei contenuti condivisi, ma che di fatto non spostano opinione e non hanno alcuna centralità in termini di influenza.
 Una distinzione che, loro malgrado, tocca spesso i politici, ma anche i giornalisti o i comunicatori più o meno professionisti. 

Certo questa distinzione farà storcere il naso a molti, che proprio per numero di mensioni e citazioni invece si condierano influenti – e per carità in parte lo sono anche – ma molto del loro engagement è prevalentemente legato alla propria stretta nicchia: persone che la pensano come lui e rilanciano in continuazione quel contenuto perchè condiviso come “idea propria”, spesso acriticamente, in un circolo che finisce con il falsare l’autopercezione di sé.
 Un’analisi accurata – che nessuno spesso preferisce fare – dimostrerà che, per esempio su twitter – anche profili con 30 mila follower ricevono condivisioni e interazione sempre da pressoché le stese 100 persone. E sempre le stesse 100 persone sono quelle che condividono e commentano i post su Facebook. 



Ecco, profili che hanno queste metriche sono propri degli attivisti. Profili che spesso “ingaggiano” al di fuori degli stretti circolini relazionali sono quegli degli “influencer”.
La rilevanza di questa distinzione però riguarda anche un secondo aspetto. 
I veri e “potenti” influencer di rete non possono esserlo senza attivisti che ne amplifichino la diffusione dei contenuti, e non esistono attivisti social senza che vi sia uno o più soggetti influencer.
 Se nel marketing commerciale questa distinzione non è spesso chiarissima, nella comunicazione politica certamente è un fenomeno macroscopicamente visibile.

 Nel M5S certamente sono influencer Beppe Grillo, Paola Taverna, Carlo Sibilia, Giancarlo Cancellieri, Giulia Di Vita, qualche volta Fico e Di Maio. E questo indipendentemente dall’egagement medio e dai followers (veri e fake). Tutti gli altri sono “attivisti”, più o meno noti e più o meno autorevoli, e indipendentemente anche qui dai ruoli e dalle cariche.



Nel variegato centrodestra i profili davvero “influencer” sono pochi e molto marcati: Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Angelino Alfano, Lara Comi, Raffaele Fitto. Più o meno un “monocentrismo” dei leader delle varie anime del centrodestra, con tutti gli altri relegati a “contrno di attivismo” più o meno attivo.
 Nel PD certamente il massimo influencer è Renzi. Ma anche Roberto Speranza, Gianni Pittella, Simona Bonafé, Emanuele Fiano, Graziano Del Rio, Massimo Bray. La maggior parte degli altri account social finiscono con l’essere (per il limitato engagement con gli interlocutori) profili “attivisti”, anche in questo caso più o meno noti e più o meno autorevoli, e indipendentemente dai ruoli e dalle cariche. Ma in questo caso troviamo una novità: sono più influenti profili dichiaratamente satirici, ironici “interni” rispetto a quelli di dirigenti e parlamentari: da GianniKuperlo a RenzoMattei a L’unirenzità ai vari profili su Maria Elena Boschi.


Ed è proprio l’originalità del punto di vista, la capacità di interazione, la “criticità” del contenuto che, anche nella comunicazione politica, segna questa distinzione e anche un fake o un profilo satirico finisce con l’essere più influente di un attivista o un comunicatore o un parlamentare.
Il web ha cambiato la comunicazione – non solo personale e di marketing ma anche politica – sotto molti aspetti, e ci sono almeno tre considerazioni da fare.
La prima è che non conta “chi eri” ma come “usi lo strumento” – e quindi torniamo alla questione che il web è “un altro medium” non un uso diverso dei vecchi media…
 La seconda è che nel deserto digitale qualcosa sta cominciando a cambiare, e quindi anche i parlamentari (come tutti) ampliano i luoghi dell’informazione – e questo riporta alla considerazione della “responsabilità di ciò che fai rispetto alla audience che hai”.
La terza è che effettivamente esistono strumenti seri di misurazione del bacino di influenza, e sempre meno puoi barare sia sui numeri sia sui target – e questo riporta alla necessità di strumenti terzi (sempre) e alla necessità di conoscere il proprio peso per non usarlo mai in maniera impropria.