La paura e la politica

Lo strumento di maggiore (e in termini di efficacia migliore) controllo di un popolo è la paura. Un tempo la paura era immediatamente riconducibile a misure dirette di repressione violenta, per cui si gestiva l’opposizione attraverso la violenza diretta, in tutte le sue forme, dal carcere, ai pestaggi, alla chiusura o distruzione di sedi di partito. Questi comportamenti però, soprattutto con la diffusione dei mezzi e degli strumenti di comunicazione, finiva con il rafforzare gli oppositori di un sistema, aggregando a questi anche coloro che semplicemente non ammettevano la violenza come strumento politico. Ciò non riguarda solo regimi veri e propri, spesso usati come esempio.


Le grandi battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti sono state vinte proprio quando leader come King hanno “usato” i sistemi di comunicazione mostrando gli aspetti più cruenti delle forme repressive di alcuni sceriffi e governatori degli stati del sud. Oggi la paura è uno strumento di propaganda politica ed economica. È una forma di paura dialettica, espressa in maniera generica ed in forme indefinite. Ne abbiamo molti esempi. La paura degli “extracomunitari” [categoria generica in cui teoricamente rientravano tutti gli stranieri, ma in maniera propagandista ovviamente solo quelli “poveri” – mica americani, canadesi, australiani, giapponesi…] colpevoli di ogni male economico e sociale degli anni novanta in Italia era il cavallo di battaglia della Lega Nord.


La paura della “chiusura degli stabilimenti” (altra categoria generica) induce all’accettazione di variazioni contrattuali, senza che spesso vi sia un nesso diretto tra causa ed effetto, e tra modifica delle condizioni e produttività. La paura di restare senza copertura sanitaria a causa della perdita del posto di lavoro ha evitato di fatto qualsiasi forma di sindacalismo e di sciopero negli Stati Uniti, soprattutto negli anni dei tagli più forti alla produzione interna sotto l’amministrazione Reagan. La paura dei “comunisti” giustificava qualsiasi azione di repressione dei diritti civili negli anni sessanta, e casualmente in maniera direttamente proporzionale cresceva l’economia. Dall’altra parte, la paura del mostro americano giustificò a lungo le repressioni di Stalin.


La paura delle “api assassine”, del “millennium bag”, sono “virus” che fanno aumentare la percezione sociale di pericoli imminenti, e come i virus sanitari sotto forma di una nuova e diversa influenza ogni anno, generano mercato, un mercato di paura: vaccini, scorte alimentari (casualmente questi allarmi coincidono con i medi di dicembre ed agosto, periodo in cui è utile alle grandi catene svuotare i magazzini). Per tutto il suo mandato George W. Bush non ha mai sostenuto un solo discorso sullo Stato dell’unione – momento costituzionalmente previsto in cui a camere unite il presidente espone i dati sullo stato dell’economia, dell’occupazione, della salute della federazione – limitandosi a dire che “siamo sotto attacco”, che la “guerra contro i nemici della democrazia e della libertà…” etc etc.


Le paure sono spesso legate a luoghi comuni veri e propri, considerati veri fatti storici e per questo nessuno prende in considerazione nemmeno l’ipotesi di verificarli. Tra questi “gli zingari rapiscono i bambini” – oddio ci sarà anche stato qualche atto simile, ma negli ultimi trentacinque anni (da quando i database europei sono in qualche modo collegati) non risulta una sola condanna definitiva per un solo caso di rapimento in tutta Europa. A Napoli grande risalto ebbe la notizia che nella zona di San Giovanni una madre aveva sorpreso degli zingari del vicino campo nomadi mentre prendevano il figlio dalla culla – subito il quartiere in rivolta assaltò il campo lì vicino; in pochissimi sanno che l’esito delle indagini fu un interesse diretto della camorra a quell’area. Una ragazza a Torino, l’anno scorso, ha dichiarato di essere stata stuprata da uno zingaro – immediata la reazione della popolazione che ha letteralmente assaltato il campo nomadi dandolo alle fiamme – quasi nel silenzio è poi passata la notizia che aveva inventato tutto per nascondere la sua relazione alla famiglia. Ecco due piccoli effetti collaterali del credere ciecamente ai luoghi comuni della paura: che vengano usati per altri scopi.


La paura di presunte armi chimiche, batteriologiche, nucleari, ha giustificato senza troppe domande la guerra in Iraq – poco conta che non siano state mai né trovate né ne sia stata data nemmeno la prova indiziaria. La paura che “tutto il sistema crollasse” ha di fatto obbligato l’amministrazione Obama a “regalare” alle banche circa 1.500 miliardi di dollari.


Da noi la paura di un colpo di stato di sinistra giustificava il congelamento della politica e della società italiana nel pentapartito. Poi, la paura di un colpo di stato di destra, giustificava lo stesso congelamento. La paura di un cambiamento della classe dirigente italiana a seguito di mani pulite fece entrare in politica Silvio Berlusconi, e la paura che “i comunisti liberticidi” andassero al governo fu il tema unico della sua campagna elettorale; chi lo attaccava era “un comunista”; chi ne metteva in evidenza dubbi sulla storia personale e finanziaria e chi poneva la questione dei conflitti di interessi, era un complottista.


Oggi, la paura di “quello che potrebbe succederci” (sic!) giustifica qualsiasi misura di tagli alo stato sociale, alla previdenza al mercato del lavoro. Ciò anche laddove è evidente che non ci sono nessi diretti, ed anche quando misure strutturali reali e realizzabili non vengono nemmeno considerate.
L’Ilva di Taranto viene sequestrata dalla magistratura (non da Greenpeace!) perché inquina, e non poco, e in maniera grave, continuata, reiterata, conclamata. L’azienda replica “se chiudete qui, chiudiamo anche altrove” (il nesso? Qualcuno lo ha davvero appurato?) Replica del ministro della giustizia (sic!): non ce lo possiamo permettere. La paura di perdere posti di lavoro in un momento difficile, annulla responsabilità e reati, e giustifica nel silenzio collettivo che sia lo Stato (non si capisce perché) a pagare un investimento di un’azienda privata, che avrebbe per altro dovuto fare dieci anni fa e con risorse proprie!


Ma la paura è uno strumento che non riguarda solo i grandi tempi, gli stati, la politica nazionale. La paura viene insinuata nel piccolo comune, e soprattutto nel cittadino comune, dal basso, nella cellula più piccola della nostra società. “Se parte il termovalorizzatore Parma diventerà come Napoli”
La migliore macchina della paura è però quella sulla “crescente microcriminalità”. “Dobbiamo organizzare le ronde per difenderci dalla criminalità crescente” tuonava la Lega – ed oggi tutti danno per certo il dato su una situazione di criminalità diffusa e capillare. È una sensazione che abbiamo “a pelle” – negarla è cecità. Ma è anche vera? O confondiamo in maniera percettiva ciò che vediamo e sentiamo con ciò che accade davvero attorno a noi? Nel nostro paese il 68% delle fiction contiene microcriminalità ed è ambientato in serie poliziesche. Il 70% delle serie che importiamo è incentrato su serie criminali, direttamente o indirettamente. Va meglio con i film, che contengono violenza quotidiana per il 40% e scene di violenza fiction per il 24%.


La cronaca, spesso nera, fa notizia, e compone una media annuale del 28% dei nostri telegiornali e il 35% degli approfondimenti, non solo serali ma anche pomeridiani. In qualche modo siamo “abituati”, è come se tutto questo fosse reale, ripetuto, reiterato. Finisce con l’essere la nostra realtà, quella vera. Che i dati abbiano evidenziato invece dal 2000 al 2008 un calo costante del 4% all’anno, con punte del 6%; che certe aree siano decisamente e fortemente al di sotto della media europea, che le nostre città “più pericolose” (come Napoli, Milano, Palermo, Roma) per quanto saltino agli onori della cronaca per singoli episodi e fatti eclatanti, abbiano una diminuzione anche del 18% della microcriminalità… sono dati (anche se veri) considerati falsi, da una popolazione che ha la percezione epidermica di essere minacciata.


Questa “cappa di paura” schiaccia la società. Non le consente nemmeno una ipotesi di cambiamento. Blocca la spesa, e giustifica qualsiasi misura “spacciata” per necessaria. Certo, non arriviamo al “patriot act” americano, ma non siamo molto distanti, soprattutto se consideriamo il sistema nel suo complesso, e se consideriamo che la piattaforma dell’informazione e dei dati personali è sostanzialmente globalizzata.
Una democrazia dovrebbe vivere il momento elettorale come uno strumento di controllo, un momento di verifica e un atto di esercizio di una funzione di gestione del potere collettivo, che prima di tutto assume alla funzione di sistema di evitare ingerenze esterne sulla collettività. Oggi viviamo come una “minaccia” anche solo l’ipotesi di andare a votare. “se andiamo a votare succede…” e la frase si completa con qualsiasi male che ciascuno può concepire come il peggiore. In questo, la paura, finisce con l’essere il migliore collante sociale e collettivo. Ma mi chiedo, che paese e che società è quella che viene tenuta insieme con la minaccia e la paura?


La ricetta è tanto semplice quanto complessa da realizzare, in un popolo che non è stato educato alla memoria storica e che è stato anestetizzato dalla difficile attività del leggere, preferendo il comodo “guardare”. Dovremmo diffidare a priori di tutti coloro che ci parlano di paura, che ci vogliono convincere attraverso una “minaccia”, che ci veicolano messaggi per evitare “un male”. Chi instilla, alimenta, produce, una paura, è sempre un manipolatore e un potenziale oppressore. E quando glielo dici, parla di teoria del complotto, di macchina del fango, di “poteri forti” che gli si oppongono – si chiude e chiude il proprio gruppo a difesa del leader, reiterando un metodo per cui “loro, i buoni, sono sotto attacco perché hanno ragione” e sono gli altri che “non vedono”.
La paura, da sempre, è la migliore arma per generare consenso. Un consenso facile, costruito solo sui timori naturali delle persone, cui non viene data la chance e la fiducia di essere davvero libere di scegliere, da sé il proprio futuro.