Una brutta campagna

Come valutare una campagna se “bella” o “brutta”? Come misurarla e come valutarla?
È un interrogativo non solo per tecnici, ma anche per consumatori e per aziende.
In generale si tende a considerare una “buona campagna” quella efficace, in termini di numeri e di risultati. Una cattiva campagna è quella che non li raggiunge, o peggio danneggia il brand o la sua mission. Sin qui sarebbe facile e potrebbe apparire banale, ma non è così.


L’efficacia non è solo far parlare di sé a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. E nemmeno (forse) generare tantissimi accessi e like. Piuttosto dovrebbe essere qualcosa che porta a raggiungere il target desiderato, a generare azioni e interazioni permanenti, restare impresso nella memoria… e tutto questo possibilmente in una accezione positiva.
Se adottiamo questi parametri, beh, sono molte le campagna improvvisate, non pensate, non strutturate, e molto poche quelle davvero efficaci e “fatte bene”. E quasi mai è questione di budget, anzi.
Di esempi – positivi e negativi – da questo blog ne ho fatti molti.


La nuova frontiera della comunicazione spazzatura


VeryBello – tutto purché sia virale


Da Barilla a Enel come cambia la comunicazione virale


Oggi ne faccio due. Uno positivo ed uno negativo.

In senso positivo abbiamo già parlato di quella che considero una delle più belle campagne a difesa della libertà di informazione che sono state realizzate negli ultimi anni, ed i cui manifesti trovate qui allegati.


Un esempio invece di “brutta” campagna è quella proposta da “Nozze in Fiera” che la auto-definisce “campagna orientata al sociale”.
La banalità andrà di moda è qualcosa di superato per chi ha immaginato questa campagna letteralmente immaginata per cavalcare l’onda (è il caso di dirlo) dello sdegno e della cronaca (tragica) di questi mesi. Secondo loro vuole essere un modo per “attirare l’attenzione sul tema”, in realtà è una forma di opportunismo per stare sul trend e far parlare di sé secondo l’adagio che “tutto va bene purché se ne parli”.
E invece no, sarebbe decisamente il caso di darsi una bella regolata.
Perché non tutto è merce, e non tutto si può mettere assieme pur di prendere una campagna grigia e scontata e farla balzare agli onori (nella fattispecie disonori) della cronaca.
Se il messaggio voleva essere di speranza, qui l’unica speranza è che la si smetta (una volta e per tutte) di usare la tragedia umana come spot per vendere.
Infondo uno degli slogan è “in Italia per essere una sposa e non una prostituta”. E appunto vorremmo un po’ tutti che certi temi vengano forzatamente prostituiti al marketing.

(allego la gallery)